Liberamente ispirato a La Scuola dei Buffoni e alla drammaturgia di Michel De Ghelderode
Libero adattamento e Regia Antonio Iavazzo
Con: Carmine Lo Sanno, Danilo Del Prete, Giovanni Arciprete, Raffaele Iavazzo, Federica Tornincasa e Marcella Martusciello.
Consulenza per i costumi: Maria Pennacchio
Movimenti coreografici: Francesca Gammella
Direzione della fotografia: Vittorio Errico
Service make-up: Francesca Pisano
Napoli, Teatro Licantropo dal 5 all'8 maggio 2016
Una supplica da parte di un timorato di Dio e della Madonna; una danza tribale, che sembra quasi celebrare i demoni e tutti i mali, per poi prendersi gioco anche di loro; uno scontro fisico e una battaglia a suon di fendenti, ma anche una disperata dichiarazione d'amore.
In Dell'amore e dei Segreti, ispirato a La Scuola dei Buffoni e alla drammaturgia dell'autore belga Michel De Gelderode, Antonio Iavazzo pone al centro una figura chiave. Un personaggio storico che oggi a stento si ricorda: eppure esso, non solo circondava i sovrani più ricchi e temuti in epoche passate, ma ancora adesso sotto mentite spoglie si aggira nei palazzi del potere. Con inalterata spregiudicatezza e ironica malvagità. Egli è il buffone: lascivo servitore, riprovevole lecchino ed infimo cospirante. Da lui ci si può forse aspettare la verità in quanto tale?
Protagonista della storia raccontata da Iavazzo (che oltre ad adattare il testo cura la regia) è Folial (interpretato da Carmine Losanno), "venerabile maestro" dei guitti alla corte di Filippo di Spagna. Ormai vecchio e malato, questa specie di capocomico sente di non poter più guidare un manipolo di individui turpi e abbietti, soprattutto perché essi stanno per tradirlo: è loro intenzione, egli lo sa bene, eliminarlo per poi rubargli il "segreto", la conoscenza, la suprema delle arti di cui è depositario.
Lo spettacolo è un susseguirsi di complotti orditi da Galgut (Danilo Del Prete) e dagli altri buffoni di corte, che con canti e danze tentano di circuire il maestro e farlo cadere in trappola. Riusciranno essi, infine, ad inscenare il matrimonio della figlia di Folial, Veneranda, provocandogli un insopportabile dolore. Talmente lacerante, da poterlo finire.
Assolutamente compiuta nello spettacolo – riscrittura del secondo atto di una trilogia firmata da De Gelderode – è la rappresentazione del buffone: nelle sue inquietanti sghignazzate, movenze esasperate ed insultante gestualità. Iavazzo apre un mondo allo spettatore, che non si aspetta di imparare a conoscere una figura chiave della storia: con le loro danze ossessive, canti sguaiati e battute disgustose, i guitti popolavano le corti e i palazzi aristocratici, prendendosi gioco dei padroni, tramando alle loro spalle, ma anche sputandogli in faccia la miseria della vita e dell'amore.
Stracci come vestiti e volgarità – spesso blasfemia – per linea di condotta: i buffoni, che un attimo prima portano in processione, quasi fosse un idolo, il loro maestro Folial e subito dopo lo pugnalano alle spalle.
Molto belle le coreografie: notevole la prova fisica di Giovanni Arciprete, Raffaele Iavazzo e Federica Tornincasa (interpreti dei buffoni). Tuttavia, da un testo che mescola gli elementi classici con accenni alla contemporaneità e ai mali di Napoli – e che al tono dell'orazione alterna in modo schizofrenico quello dell'ingiuria –, il significato si sprigiona confusamente. Il monologo finale di Folial ha a che fare con l'amore e la scelta etica tra bene e male, ma ancora una volta i toni sono esagerati e il pianto isterico.
Giovanni Luca Montanino