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CARAVANSARAY SELINUNTE SAN SIRO – regia Benedetto Sicca


"Caravansaray Selinunte San Siro”, regia Foto Pino Montisci "Caravansaray Selinunte San Siro”, regia Foto Pino Montisci

Testi di Bruna Bonanno, Angela Demattè, Anna Serlenga, Fabrizio Sinisi, Daniele Vitrone in arte Diamante

coordinamento drammaturgico Fabrizio Sinisi

regia Benedetto Sicca
testi
canzoni rap di Diamante, Flo’w, Scock e Anima VDP

musiche di Damekuta e Diamante
in scena Francesco Aricò, Emanuele D’Errico, Dario Rea, Francesco Roccasecca
e con i rapper Diamante, Flo’w, Scock e Anima VDP

aiuto regia Marialuisa Bosso

scene Luigi Ferrigno e Rosita Vallefuoco

costumi Giuseppe Avallone e Mariacarmen Falanga

light designer Giuliano Almerighi

sarta di scena Maria Laracca
Visto al Piccolo Teatro Grassi, Milano, domenica 27 settembre 2020

www.Sipario.it, 4 ottobre 2020

Una scena buia e nebbiosa si apre dietro la palpebra scarlatta del sipario. Dei pali neri con in cima dei tettucci come casette per uccelli che lasciano cadere verso terra delle lunghe frange sono disposti per tutta l’ampiezza del palco, ma sono anche silhouettes di palazzoni neri e snelli nel controluce, una selva. La nebbia è il fumo della macchina deputata all’effetto che lascia trasparire un unico occhio centrale puntato verso sala, come un faro d’auto ambrato o un sole malato-velato. E’ forse il ritratto di un’alba di periferia. Ma qui siamo in un teatro storico, nel centro della città, al Piccolo Teatro Grassi, per un progetto nato nel quartiere, periferico, di San Siro, dove di luci ne sono evidentemente rimaste poche. Ma quelle poche cercano spazio e riscatto nella tessitura di relazioni che l’attività laboratoriale ha prodotto in sette mesi di lavoro in loco. Un progetto di drammaturgia partecipata che ha visto cinque autori – Bruna Bonanno, Angela Demattè, Anna Serlenga, Fabrizio Sinisi, Daniele Vitrone – confrontarsi con la gente e con le associazioni del quartiere. Una manciata di dati statistici riportati nel libretto di sala dà l’idea di un melting pot che è segno dei tempi e chiama il tempo di un segno. Segno dei tempi: “area a più alta densità di residenti di origine straniera, circa il 45%”, da 85 nazionalità diverse, popolazione italiana composta in gran parte di anziani, “molti dei quali vivono in condizioni di isolamento”. Il tempo di un segno è quello che il teatro cerca di propiziare perché dalle autorità, dall’amministrazione si possa impostare una strategia che vada oltre il progetto. E qualcosa sembra accadere, almeno a giudicare dal discorso di chiusura, dopo lo spettacolo, dell’assessore alle politiche sociali. Illuminato dal sole malato vediamo sulla destra un banco dj dal quale un attore vestito di nero con lunghe treccine (è il rapper Diamante, nome d’arte di Daniele Vitrone) attacca un rap cui fa da risposta l’ingresso degli altri attori, anch’essi vestiti di nero e con treccine. Un’orchestra rap, unisono di tre voci perfettamente sincronizzate, snocciola rapidissimamente le parole in rima con quel caratteristico incedere che le incatena a una gestualità imprescindibile, tutta marcata dal beat, dal battito, ciò che associamo alla vita. E sono brani di vita del quartiere a prendere via via forma sulla scena. Ma niente teatro di comunità come lo si intende di solito. Niente narrazioni didascalico-documentarie, né troppe interpretazioni emotive di tranche de vie (tranne forse nel monologo finale del vecchio, però condotto con giusta misura da Francesco Roccasecca). No, qui c’è uno straniamento deliberato. Tutto è portato sul piano del gioco teatrale, senza preoccupazioni di verosimiglianza. La restituzione delle testimonianze è resa in termini di reinvenzione artistica, non di fedeltà rappresentativa. Per esempio le parlate dei personaggi stranieri, le cui storie ascoltiamo sulla scena, sono rese per trasposizione dalle parlate regionali italiane, come quella pugliese e siciliana. E l’effetto è anche quello di mettere in luce una parentela tra mondi, che è poi sempre la stessa, la parentela “naturale” che lega quanti si trovano sradicati e senza riferimenti e denaro e potere di intervento sulla propria vita, in questo collegandosi idealmente alle storie di chi ha preceduto, decenni fa, ma dall’interno del paese, le presenti ondate migratorie. Ed è dunque felice intuizione registica. Sono storie raccolte nel corso della residenza artistica, durante la quale i cinque autori coordinati da Fabrizio Sinisi hanno lavorato a contatto con le associazioni del quartiere, incontrato le persone nei loro luoghi di ritrovo, stabilito relazioni, ascoltato e assecondato il bisogno di raccontare. Il famoso “lavoro sul territorio”, di cui sono pieni i testi di molti bandi e progetti, per poi constatare, come fa con lucidità Sinisi nel libretto di sala che: “il territorio si presenta come una superficie dura, difficile da scalfire se non con una lunga frequentazione, con pazienza, con costanza, con una interrogazione continua e una fedeltà tenace”. Ecco dunque che un lavoro così si contrappone ai consueti tempi rapidi delle produzioni. E crea tessuto, necessità, relazioni, risponde a bisogni. Lode a chi ha saputo immaginare un percorso che ha permesso di entrare in contatto in questo modo con una fetta di città che rimane di solito nascosta alla percezione comune o che vi giunge al più sotto forma di dati statistici.
Il lavoro procede per salti, dai coreografati unisoni rap ai singoli medaglioni dei personaggi, con il fil rouge retto dalla figura di un anziano malato in mutande, un povero Cristo nudo, solo coperto da uno straccio rosso, di cui forse tutto questo accadere non è che il sogno. Attori mobilissimi, dalla gestualità netta, energica, rapida, capaci di rendere la particolare temperatura dei personaggi, tra grottesco e dramma, disperazione e vitalità si danno generosamente sul palco. I testi sgranano racconti individuali per sfociare infine in una dimensione fiabesca corale: ed è la scoperta che nei giardinetti del quartiere cresce un albero le cui foglie sono in realtà – miracolo! – fogli da 50 euro, ciò che mette in subbuglio tutti gli abitanti. L’ultima immagine dello spettacolo è quella in cui nelle casette imbuiate vediamo accendersi tante lucine, costellazione di anime stellate restituite, dal racconto, alla pura presenza. Un miracolo a Milano tra le luci di San Siro.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Giovedì, 08 Ottobre 2020 10:43

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