di Armando Pirozzi
uno spettacolo di Massimiliano Civica
costumi di Daniela Salernitano
luci di Roberto Innocenti
con Alberto Astorri, Salvatore Caruso, Alessandra De Santis,
Monica Demuru,
Vincenzo Nemolato, Aldo Ottobrino
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello
Al Teatro Metastasio di Prato, dal 17 al 22 aprile 2018
Confessiamo che siamo rimasti spiazzati. Cimentarsi per la prima volta con la farsa era l'ultima cosa che si poteva pensare di un regista serio e rigoroso come Massimiliano Civica. Di lui abbiamo sempre ammirato lo stile austero, l'impegno sulla scelta dei testi, l'asciuttezza della regia e della recitazione richiesta agli attori. Ora con l'allestimento di Belve-una farsa-, testo commissionato ad Armando Pirozzi (produzione del Teatro Metastasio di Prato), Civica vince il confronto e rivela una ulteriore vena creativa che, pur nella novità di un genere teatrale popolare mai frequentato, non si discosta dal suo stile e dalla sua poetica di messinscena. Anzi, immette una nuova linfa ad un genere, di solito, prerogativa dei comici dialettali di professione. Si ride sì, e di gusto, ma non è la risata strappata a tutti i costi, né quella a getto continuo che spesso stanca e si esaurisce presto nella facile battuta. Civica la pondera, la distilla e la lancia impercettibilmente ma efficacemente al pubblico con l'effetto corrosivo di insinuarsi sulle nostre labbra e tra i nostri denti.
Gli elementi che stanno alla base della farsa, quegli ingredienti necessari al suo funzionamento e resa, ci sono tutti. Pirozzi, anche lui nuovo nel genere di scrittura, ne ha studiato la griglia strutturale, approfondito i meccanismi drammaturgici e le potenzialità insite con una sensibilità tutta contemporanea (che gli si riconosce in molti dei suoi testi) nel tradurre le dinamiche interne, rivelando così una mano da esperto che conosce bene la tradizione e i suoi derivati più moderni: da Edoardo a Scarpetta, da Ionesco a Feydeau, da Beckett a Pinter, incluso le moderne telenovele. Ecco perciò, anzitutto, la trama fantasiosa, i tempi comici con il girotondo delle entrate e delle uscite dei protagonisti, il sopraggiungere dei colpi di scena e, soprattutto, l'agnizione finale, quel lieto fine d'obbligo che riporta le vicende a una serenità d'animo, dove tutti ne escono vincitori. Sempre, però, dopo aver attraversato le bizzarrie che la trama impone. Gli ingredienti paradossali, tra incubo, follia e atmosfera da thriller, sono: una vongola avvelenata; un rapper che ha venduto 30 dischi, di cui 29 ai suoi genitori; un uomo deceduto che non è morto ma non è uno zombi; il milionesimo figlio del Bramhino e un vecchio che quando libera l'intestino emette un gradevole odore di mandorle tostate; la voglia di fuggire in Brasile o, in seconda battuta, almeno in Argentina; due poliziotti in incognito, un killer prezzolato e un chierichetto; ma soprattutto le macchinazioni, le astuzie e i sotterfugi per un diverbio da risolvere.
Protagonisti sono due coppie, vicini di casa, di differenti classi sociali, che dietro l'apparente e iniziale sorriso e gentilezza riveleranno l'una nei confronti dell'altra un odio crescente che li rende come le belve (del titolo). Tutto si svolge durante una cena a base di cozze avvelenate, alla quale è stata invitata la coppia del piano di sopra, Giorgetta e Giocondo, invito organizzato dai coniugi del piano di sotto, Betta e Pippo, con l'intenzione di uccidere gli ospiti perché sospettati di essere spioni al servizio del comune datore di lavoro dei due uomini. In ballo c'è una promozione, una posizione di potere da assumere a scapito di uno dei due: impossessarsi della direzione di una filiale. Nel mezzo della serata verranno fuori numerose rivelazioni. Tra battute, sproloqui e dialoghi surreali tra tutti i personaggi, a emergere sarà l'ossessione per il potere legata al possesso del denaro, le differenze sociali con le disparità di classe, il mito dell'uomo di successo, e con dentro battute che riproducono stereotipi del nostro linguaggio corrente riconducibili all'attualità - sicurezza, politica, corruzione -.
La scena, essenziale e raffinata nel suo disegno geometrico, è una tavola perfettamente apparecchiata e una parete bianca sul fondo che funge da ingresso dei personaggi. Sotto la tovaglia (nascondiglio per eliminare tutto ciò che può risultare imbarazzante agli occhi degli altri) la padrona di casa nasconderà prima le sue pianelle sostituendole con scarpe decorose, poi un fiasco di vino che berrà più volte per farsi coraggio nei momenti più tesi, quindi la borsa del marito di ritorno dall'ufficio. Qui il balletto degli ingressi e delle uscite ha il ritmo divertente di una coreografia gestuale meccanica simile al sirtaki, giocata con movimenti e battute ripetitive, e con i personaggi che sembrano venuti fuori da un fumetto. Al dinamismo nervoso e isterico della coppia principale Civica contrappone la lentezza delle altre due coppie (marito e moglie, un cardinale e un chierichetto, due poliziotti cowboy, un killer-rapper e una ragazza che si innamora di lui), che entrano, escono e si muovono lentamente ritmando i passi e i gesti, e scandendo le parole. L'agnizione finale non va svelata.
Ma il divertissement, col retrogusto amaro di una fotografia del nostro presente, è assicurato grazie ai sei interpreti scelti, perfetti nei ruoli, che non scadono nella facile trappola della macchietta: Aldo Ottobrino, Monica Demuru, Salvatore Caruso, Alessandra De Santis, e Alberto Astorri e Vincenzo Nemolato in più personaggi. "Non c'è nulla di più tragico del comico", scriveva Beckett. Ridere, dunque, ci salva dallo svelamento del tragico. Si racconta che il regista della prima assoluta di Aspettando Godot, sorpreso dalle gag, chiese lumi: il pubblico doveva... ridere? Beckett rispose: «Niente è più grottesco del tragico». Concetto poi precisato in Finale di partita: «Niente è più comico dell'infelicità». Ma già nel romanzo comico Mercier e Camier, a suggello di un passaggio sulla disperata condizione umana, Beckett scrive: «In ogni situazione la natura ci invita al sorriso, se non al riso».
Giuseppe Distefano