Agrupación Señor Serrano
BIRDIE
ideazione: Àlex Serrano, Pau Palacios, Ferran Dordal
con: Àlex Serrano, Pau Palacios, David Muñiz
voce: Simone Milsdochter
project manager: Barbara Bloin
lighting design e video programming: Alberto Barberá
sound design e colonna sonora: Roger Costa Vendrell
creazione video: Vicenç Viaplana
modellini in scala: Saray Ledesma, Nuria Manzano
costumi: Nuria Manzano
assistente di produzione: Marta Baran
consulente scientifico: Irene Lapuente/La Mandarina de Newton
consulente sul progetto: Víctor Molina
consulente legale: Cristina Soler
organizzazione: Iva Horvat
distribuzione in Italia: Ilaria Mancia
una produzione di: GREC 2016 Festival de Barcelona,
Agrupación Señor Serrano, Fabrique de Théâtre – Service des Arts de la Scène de la Province de Hainaut, Festival TNT – Terrassa Noves Tendències, Monty Kultuurfaktorij, Festival Konfrontacje Teatralne
con il sostegno di: Oficina de Cultura de la Embajada de España en Bruselas, Departament de Cultura de la Generalitat de Catalunya, Centre International de Formation en Arts du Spectacle de Bruxelles, Instituto Nacional de las Artes Escénicas y la Música (INAE M), Institut Ramon Llull
sponsor degli animali in miniatura: Safari Ltd
foto: © Roger Costa Vendrell
25-28 gennaio 2018, Triennale Teatro dell'Arte. Visto il 27 gennaio.
Una foto, al centro di tutto c'è una foto. E la giornata di un fotografo come preparazione un po' meticolosa, un po' casuale della rete di micro azioni quotidiane che predisporranno l'avvento di quell'istante di cristallizzazione fotografica. All'inizio vediamo il palco solo come ombra, reale, dell'enorme schermo che copre tutto il fondo della scena e il gruppo di performer solo come ombra, simbolica, del gruppo di tecnici video che entra in scena. Perché la performance questo sarà, la tessitura meticolosissima di un montaggio di riprese video fatte al momento, nell'atto dell'esplorazione di un palco ricettacolo di un mare di oggetti e di miniature. Con i performer, blandamente illuminati, che diventano tecnici video o servi di scena all'opera su questo mondo in miniatura, nell'atto di restituirne la narrazione bidimensionale (ma sul bidimensionale ci torneremo) sul grande schermo.
Così eccoli entrare subito in scena e cominciare a riprendere, con una videocamera, un tavolino sul quale gli oggetti personali del fotografo – le chiavi della macchina, la tazza del caffe, il pacchetto di sigarette ecc. – assumono il carattere di correlativi oggettivi della narrazione; l' "I woke up this morning" di questo signore, il fotografo Josè Palazón che, un giorno del 2015, si appresta a cominciare il proprio lavoro di documentazione. Già perché lui va a fotografare quanto accade quotidianamente al confine della sua città, dove premono ogni giorno gruppi di migranti che in quel posto ci vorrebbero entrare. La città è Melilla, di cui segue un'ironica presentazione storico-turistica: una bella città, spagnola, di mare, con qualche curiosità storica (quel confine stabilito con 14 colpi di cannone sparati in tutte le direzioni e disegnato unendo sulla carta con una linea i punti d'impatto dei proiettili). Senonché scopriamo subito dopo che Melilla è un'enclave spagnola che sorge in territorio marocchino. Il confine, imposto letteralmente a colpi di cannone, ora è difeso da un alto e doppio reticolato percorso giorno e notte da guardie armate che ne impediscono lo scavalcamento. Non solo, ma a ridosso del reticolato, per uno di quei paradossi socio-economici che l'occidente è in grado di materializzare senza batter ciglio, hanno costruito un immenso campo da golf. Ecco così predisposta la cornice per l'immagine-simbolo che il fotografo scatterà di lì a poco, e che scattò di fatto il 15 ottobre 2014: un gruppo di migranti nel tentativo di superare la rete vi si trova appollaiato in cima, mentre di sotto è in pieno svolgimento una partita a golf e una guardia sale per una lunga scala nel tentativo di dissuadere il gruppetto. Il tempo si ferma qui, in quest'immagine, che viene scomposta e ricomposta nelle sue linee essenziali come un'opera d'arte, analizzata e confrontata con altre famosissime opere. Parallelamente ecco poi inserirsi un riferimento, che sarà più volte ripreso, al film di Hitchcock Gli uccelli: sequenze ripetute di fuga degli umani o dell'inquietante raggrupparsi dei corvi o dello spaventato volto dell'attrice protagonista che scruta il cielo. E' quello stesso atto di scrutare che una voce femminile registrata, la quale commenta, spiega e racconta quanto avviene sullo schermo, ci fa notare nell'atteggiamento di uno dei due golfisti, una donna, mentre guarda preoccupata la cima del reticolato riempirsi di uomini: le due donne, quella del film di Hitchock e quella della foto, si rispecchiano l'una nell'altra. E' ora chiaro il senso di tutto questo progressivo e vertiginoso affastellarsi di immagini, a cui si era aggiunta una digressione sulle migrazioni intercontinentali di varie specie di volatili: come dire che i fenomeni migratori non solo fanno parte della natura (come accade agli uccelli, appunto), ma della storia stessa dell'umanità; verità lapalissiana, verrebbe da dire, ma mai come in questo periodo stranamente e ferocemente rimossa. E' poi lo stesso Hitchcock, in una clip che giunge circa a metà spettacolo a spiegare, parlando del proprio film, che: "non è degli uccelli che bisogna aver paura, perché in fondo gli uccelli non esistono, sono soltanto la proiezione delle nostre paure". E così questo momento, un'intervista degli anni '60 a un regista di culto, vale a dire quanto di più lontano dall'oggi e dal tema si possa pensare, va a cogliere con fulminea intuizione la natura di questa nostra colossale rimozione contemporanea. Si giunge infine alla situazione visivamente più pregnante dell'intero lavoro, quando il moto incessante dell'umanità che dall'originaria Africa si sposta via via per tutte le terre emerse viene reso attraverso la lunga ripresa del paesaggio miniaturizzato che copre tutta l'estensione del palco. Su un grande tappeto verde prato che ricorda il campo da golf di Melilla vediamo l'immagine dei cortei migratori più vari che la storia abbia prodotto; e sono miniature di poppanti (l'uomo) che gattonano via, affiancati da scimmie, dinosauri, leoni, pinguini, paperelle...
Colpisce, di Birdie, oltre alla maestria non solo tecnologica, ma proprio drammaturgico-registica di questo video-farsi del teatro, l'inversione di piani cui assistiamo. Quella delle immagini proiettate è una bidimensionalità sì, ma "aumentata", per così dire, dal lavoro scenico al vivo: i performer come ombra dei tecnici, la performance come ombra del montaggio video. Se da un lato sembra la vittoria della videoproiezione-mondo sul teatro umano, dall'altra il teatro umano non rinuncia a farsi dominatore-artefice dell'immagine elettronica, anche se poi sembra del tutto scomparire, o meglio stare sul limite della presenza, però sempre lì, pronto a scattare da un momento all'altro: come un uccello, o un migrante.
Franco Acquaviva