lunedì, 17 giugno, 2024
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ACCABADORA - regia Veronica Cruciani

Anna Della Rosa in "Accabadora", regia Veronica Cruciani. Foto Marina Alessi Anna Della Rosa in "Accabadora", regia Veronica Cruciani. Foto Marina Alessi

dal romanzo di Michela Murgia
drammaturgia Carlotta Corradi
regia Veronica Cruciani
interprete Anna Della Rosa
scene Antonio Belardi
costumi Anna Coluccia
luci Gianni Staropoli e Raffaella Vitiello
suono Hurbert Westkemper
musiche a cura di John Cascone, video Lorenzo Letizia
Produzione Savà Produzioni Creative, ERT Emilia-Romagna Teatro
teatro Ivo Chiesa di Genova, ospite per un'unica serata del Teatro Nazionale di Genova, il 21 maggio 2024

www.Sipario.it, 24 maggio 2024

Per utilizzare quello che comunque rimane una sorta di scientifico paradosso naturale, cosa distingue geneticamente il sesso maschile da quello femminile? È un gene Y in cui è trasformato uno dei due geni XX che, come tutti gli altri, appartengono indistintamente a entrambi. Una piccola mutazione dunque che a tempo debito determina i diversi esiti.

Ma lasciando un campo che raramente frequentiamo, anche nella metaforica estetica propria della filosofia la stessa cosa ci racconta in fondo il platonico mito della Mela, certo senza che ciò assolva Platone dal suo retaggio patriarcale, mito raccontato tra l'altro nel Fedro che non a caso è il dialogo di Eros. L'essere umano, dice come noto il mito, nasce unico disponendo di un doppio sesso fino a che Zeus, dio e patriarca insieme, intimorito non decide di dividerlo, ma è proprio da quel terzo sesso ora scomparso, l'Androgino maschio e femmina contemporaneamente, che l'Umanità intera si sviluppa dalla scissione.

Ma del resto l'intero mithos dell'umanità stessa racconta che il prima della civiltà moderna (quella del patriarcato) era il tempo di un Matriarcato primigenio che talora riemerge, ad esempio nel dio doppio per eccellenza (maschio e femmina, oriente e occidente, vivo e redivivo), cioè ovviamente Dioniso e le sue forme mutevoli.

Con Dioniso torniamo al teatro giustificando la necessaria premessa, vista la ricchezza delle suggestioni che Accabadora, dal romanzo di Michela Murgia (che ci manca) per la drammaturgia di Carlotta Corradi e la regia di Veronica Cruciani in un unica anteprima al teatro Ivo Chiesa di Genova, contiene, genera e sviluppa.

Infatti la Accabadora, la cui definizione completa è non a caso Femina Accabadora ove l'accento cade su Femina (è questa 'sorte' esclusivamente femminile in cui il maschio non è dato) essendo Accabadora nome di origine spagnola non dappertutto utilizzato, è innanzitutto il segno di una permanenza, la permanenza cioè di un legame primigenio e naturale tra il femminile e la vita e dunque conseguentemente con la morte, è la traccia di un passato che si vuole mitico ma che è concreto, o almeno lo è stato fino a tempi recenti, in comunità più periferiche, come appunto in Sardegna.

Levatrici dunque e talora, solo su esplicita volontà e quando percepiscono che è giunto il tempo che le sofferenze cessino perché diventate ingiuste e inutili, portatrici della “Buona Morte”.

Per di più, va sottolineato, queste donne erano molto stimate e apprezzate dall'intera comunità non solo in quanto loro stesse interiormente 'equilibrate', ma soprattutto in quanto apportatrici di equilibrio nella evoluzione delle dinamiche comunitarie.

Un legame che anche la Società Patriarcale ha in fondo sempre preservato, al prezzo però del silenzio che lo sommerge, del segreto che lo contraddistingue intrecciandosi in una sorellanza profonda che lo difende costantemente, al punto che quasi non se ne ha contezza per non dire certezza.

Gli stessi studi che se ne occupano (ricordiamo il bel documentario di Fabrizio Galatea uscito qualche anno fa o anche una rara intervista con una donna anziana che testimonia di uno specifico accadimento rintracciabile su You Tube) circolano quasi clandestinamente, senza che peraltro nessuno li vieti, mentre non si conoscono testimonianze dirette di femmine capaci di facilitare la vita e insieme, o proprio per questo, capaci di dare alla morte il giusto suo tempo.

È singolare ma anche conseguente, venendo al romanzo e allo spettacolo da cui è tratto, che il racconto della protagonista nasca innanzitutto da una fuga, la fuga innescata dall'improvvisa conoscenza di ciò che era e di ciò che faceva la sua madre putativa (cioè di anima), una Accabadora appunto, cui la madre biologica l'aveva affidata forse per indicarle una via che lei medesima avrebbe potuto intraprendere (non sappiamo come questa arte di dare la vita e la morte si trasmetta).

Una fuga che è però prodromo di un ritorno più consapevole alla consapevolezza, mi si perdoni il bisticcio, di ciò che si è e di ciò che si può essere e diventare seguendo il filo nascosto e in fondo 'vietato' della complessa complicità femminile.

La messa in scena così trasforma il dialogo tra la protagonista e la Tzia (questa era la Accabadora sorta di Madre per procura o lascito) in un monologo interiore tra la parte 'ufficiale' del sé e la sua parte nascosta e eterna, un monologo spinto dalla forza di far tornare ad emergere e rivendicare anche socialmente proprio quella parte segreta.

Come con le streghe in cui si è voluto 'bruciare' una sapienza medica antica ma non controllata e che si voleva maschile, così su queste donne sembra ricadere il peso di un atto che da una parte viene richiesto anche comunitariamente e dall'altra viene negato, una sorta di “si fa ma non si dice” in cui far precipitare ed espiare i sensi di colpa di una società patriarcale sempre più distorta.

Infatti è un esercizio di profonda solitudine quello della Accabadora in cui però coltivare la sapienza della vita e della morte ed insieme il dolore che nasce dall'essersene assunta il peso e la responsabilità per conto di tutti.

Scrittura e drammaturgia, quest'ultima anche scenograficamente evidenziando quella sorta di 'doppiofondo' che ci abita, ci mostrano così un interno-mondo-esterno con la lente dell'etnologo e con il cannocchiale dell'astronomo, micro e macro mondi che si specchiano, guidate, perché questo è un sentire femminile sempre e comunque anche quando sentito da maschi, da una segreta e finalmente immanente 'compassione'.

Se il teatro infatti è di per se stesso talora rivoluzionario, la bella messa in scena è capace di sottolineare l'aspetto in senso lato 'eversivo' del racconto e del pensiero di Michela Murgia, grazie all'amalgama efficacissimo che la regia della Cruciani riesce a realizzare dai diversi apporti alla costruzione complessiva dello spettacolo, tra contributo di una scrittura scenica fedele ma anche maieutica, la macchina scenografica nel suo complesso ed infine la stessa recitazione di Anna Della Rosa ricondotta, preservando una sua piena autonomia, nell'alveo di una narrazione scenica senza sbavature e in questo ancor più suggestiva.

Una storia di Sardegna che diventa Storia universale, portando con sé innumerevoli ricadute e che speriamo, dall'eutanasia al dibattito sull'accanimento terapeutico ma anche al gender e transgender, portino ossigeno ad una discussione che in Italia è assai asfittica ma a cui Michela Murgia ha portato il suo alto contributo fino alla fine della sua breve vita.

La regia di Veronica Cruciani è semplice, nel significato migliore del termine, e sa cogliere della complessità ogni segno, quasi ogni cippo miliare di questo percorso accidentato proprio ripulendolo da ogni orpello retorico, mentre Anna Della Rosa, bagnata dalle bellissime e parlanti luci di Gianni Staropoli e di Raffella Vitiello, ha dato al transito scenico il contributo essenziale della sua recitazione intensa ed empatica, in voce e mimica.

Un bello spettacolo che merita un posto ed uno spazio adeguato nella prossima stagione di prosa italiana. La grande sala dell'Ivo Chesa era esaurita ed il pubblico ha a lungo applaudito.

Maria Dolores Pesce

Ultima modifica il Domenica, 26 Maggio 2024 12:06

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