uno spettacolo di Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante,
Aline Frazão, Mario Intruglio, Pedro Joia, Nelson Lariccia, Gianni Parenti,
Miguel Ramos, Pepe Robledo, Grazia Spinella,
collaboratori artistici Pedro Joia (musiche), Joana Villaverde (scene)
Elena Giampaoli (costumi), Orlando Bolognesi (luci), Tiago Bartolomeu Costa (consulenza letteraria)
Teatro Comunale, Casalmaggiore, 24 novembre 2021
La parola amore/amor contiene in sé la negazione della morte se si vuole leggere la A iniziale come un Alfa privativa e in mor, la medesima radice del termine morte. Dunque a-mors sta per: «senza morte». In questa invenzione etimologica sta forse la chiave di lettura e la seduzione prodotta da Amore di Pippo Delbono. Amore di Delbono è la messinscena di un fallimento, ma è anche l’urlo sussurrato di un bisogno dell’artista di interrogare l’amore per lenire la morte e il dolore. Per questo dove c’è amore non può esserci morte, c’è la non/morte che non necessariamente vuol dire la persistenza dell’esistere ma la possibilità di vivere ancora nel cuore.
Il palco è una sorta di scatola con fondali rossi, una sorta di kammerspiel, luogo intimo dove ci si racconta, dove ci si mette a nudo. A sinistra un albero rinsecchito che sembra essere piegato dal vento. È l’albero del Sacrificio di Andreij Tarkovskij, quell’albero che il protagonista ha piantato col figlio mentre gli racconta la storia di un monaco che innaffiò ogni giorno un albero secco finché questo non fiorì. In questo c’è il senso di ciò che accade o non accade in Amore di Pippo Delbono, un regalo, un dono, uno spettacolo nato dalla necessità. È lo stesso attore e regista ad affermare di aver voluto fare uno spettacolo sull’amore, uno spettacolo di cui ha raccolto materiali, immagini, riflessioni ma che non s’è compiuto, non è diventato uno spettacolo su Amore ma qualcosa d’altro.
Pippo Delbono dice infatti: «Avrei voluto» e quel condizionale è il dono che fa agli spettatori di quel suo taccuino di appunti di uno spettacolo desiderato, che parte da un viaggio in Portogallo e che deflagra – come l’eruzione dell’Etna – nell’esilio costrittivo della pandemia che lo ha colto a Catania dove è rimasto bloccato dalla guerra invisibile del virus. Pippo Delbono è un esule della vita, è un uomo ferito dal dolore, dai troppi lutti, dalla perdita del «suo» amore. Indagare di più non è lecito, la biografia è altro dal racconto artistico. Le atmosfere melanconiche del Fado, la musica come rifugio di ribellione in Angola, l’abbraccio di una donna al suo bimbo, le maschere e gli abiti bianchi delle anime che ritornato e che festeggiano con i vivi come vuole la tradizione messicana sono alcune delle immagini che Delbono cuce insieme con la sua voce, fuori scena, presenza/assenza, narratore invisibile.
Amore appone una immagine all’altra, affida alla musica ciò che le parole non possono e non vogliono dire, mostra un’umanità disorientata, in cerca di una felicità impossibile, l’unico momento festoso è quello delle anime dei morti e il girotondo intorno all’albero, un albero che tornerà a fiorire, come nel film di Tarkovkij. Ma all’improvviso quell’albero diventa anche l’albero di Aspettando Godot e non è un caso che in una scena ci siano personaggi che si legano e tirano come Pozzo e Lucky. L’ingresso di Pippo Delbono in abito bianco – come le anime bianche dei morti – è lento e improvviso al tempo stesso, sale sul palco e si corica ai piedi dell’albero. Amore sono gli appunti dell’anima di un artista che porta in scena la vita, porta in scena da sempre sé stesso e il suo mondo poetico. Ecco Amore è forse un grido disperato di aiuto, ma come nel quadro di Munch quel grido è muto, afono. Sipario.
Nicola Arrigoni