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TOSCA - regia Davide Livermore (2016)

"Tosca", regia Davide Livermore "Tosca", regia Davide Livermore

Melodramma in tre atti
Musica Giacomo Puccini
Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
(dall'omonimo dramma di Victorien Sardou)
Direttore Dmitri Jurowski
Regia, scene e luci Davide Livermore
Costumi Gianluca Falaschi
Floria Tosca Amarilli Nizza
Mario Cavaradossi Francesco Meli
Scarpia Angelo Veccia
Angelotti Giovanni Battista Parodi
Sagrestano Matteo Peirone
Spoletta Enrico Salsi
Sciarrone Raffaele Pisani
Un pastorello Thomas Bianchi
Orchestra e coro del Teatro Carlo Felice
Maestro del Coro Pablo Assante
Maestro del Coro di Voci Bianche Gino Tanasini
Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, Teatro Carlo Felice, dal 4 all'8 maggio 2016

www.Sipario.it, 5 maggio, 2016

Una Tosca in bilico sui dislivelli d'una struttura rotante, d'olografico impatto, buona per Sant'Andrea della Valle, per Palazzo Farnese, per Castel Sant'Angelo. Una Tosca 3 D, che calamita la tripartita fatale sequenza d'amore e di morte, appassionata, tormentata e drammatica, forte d'una prospettiva storica, un tema politico, un'azione eroica ed erotica che lascia senza fiato.
A Genova torna il capolavoro pucciniano, nella reinvenzione di Davide Livermore, allestimento qui nato e qui riproposto a distanza d'una stagione. Le idee portanti sono all'altezza di un regista che molto apprezziamo, ma la sua sfida pucciniana sembra in questo caso vinta solo a metà. Sul palcoscenico, una marmorea costruzione sopraelevata, in continuo movimento circolare, propone una costante modifica di prospettiva, chiedendo ai cantanti una buona dose di tapis roulant in salita e discesa. Per restituire profondità e prospettiva a tale cubistica, volubile astronave, un fondo scentrato propone immagini in movimento: che sia un tondo di cupola che s'attorciglia, a mo' di cupo sole d'una greve cristianità, che siano cieli più o meno rannuvolati oppure lo sfondo d'una Roma nebbiosa. Soluzioni talora stupefacenti (vedi il grande crocifisso che incombe, quando la forza del male alza i toni), ma in fin dei conti estetizzanti; perfette per magnifiche fotografie di scena ma non per l'azione teatrale.
La sensazione è che la partitura pucciniana (in sodalizio con la premiata ditta Illica Giacosa) sia un po' più moderna di questa "moderna" rilettura.
Questo, il contenitore, ravvivato dai bei costumi di Gianluca Falaschi, e però reso sdrucciolevole da qualche birichinata, tipo la sfilza di coltellate che il povero Scarpia si deve beccare, con esito pericolosamente comico, o la statua dell'arcangelo che sfodera la spada sul pennone dell'architettura marmorea e che funge da ingrediente simbolico per evocare il sito del terz'atto (fin qui nulla di male), ma che alla fine si anima e punta l'arma verso la povera Floria in procinto dell'ultimo salto... Trovata ad effetto, ma nell'economia di questo spettacolo, ingenua e non troppo felice.
Quanto al contenuto musicale: partiamo dal coro, perché ha dato ottima prova di sé, ed un particolare risalto vorremmo porre alle voci bianche (preparate da Gino Tanasini), perché davvero ineccepibili, oltre che, scenicamente, generosamente credibili.
Dei protagonisti vocali, il più applaudito (con tanto di "E lucevan le stelle" bissato) è stato Francesco Meli, sulla ribalta di casa ed al suo debutto nel ruolo. Genovese, classe 1980, Meli è uno Stradivari: lo era quand'era studente diciottenne (e già allora era evidente la carriera che avrebbe potuto fare) e lo conferma oggi ad ogni sua interpretazione. Chapeau, per aver gestito con grande intelligenza l'oro della propria vocalità, scegliendo sapientemente i ruoli e accondiscendendo la crescita (e la fisiologica modifica) del suo meraviglioso strumento. Il suo Cavaradossi sarà presto, ne siamo certi, più levigato e congruente; al momento, sente il peso di un fraseggio talvolta frammentario e di ruvidezze ancora da smussare. Ma uno Stradivari resta tale, siamo di fronte al miglior cantante della sua generazione (almeno tra quelli intesi da chi scrive), dunque il suo è sempre un apporto fondamentale, nell'economia delle emozioni, in un teatro d'opera.
Floria Tosca, l'amante, la diva, la grande artista che smania di gelosia in chiesa, che sa pregare il proprio persecutore e rimproverare Dio per la sorte che le prospetta, era interpretata da Amarilli Nizza. Una lettura piuttosto scialba, espressivamente non sempre convincente e segnata da una gestione attoriale del personaggio fibrosa, con asincroni tra azione e reazione piuttosto spiacevoli. Scarpia era Angelo Veccia, anch'egli d'alternante efficacia, per un ruolo immenso che chiede viceversa luciferina tornitura, più credibili e più fascinose lussuria e malvagità. Mentre convincente per contro è parso l'apporto dei ruoli minori: Matteo Peirone ha tratteggiato un perfetto "Sagrestano", bravi anche Giovanni Battista Parodi (Angelotti), Enrico Salsi (Spoletta) e Raffaele Pisani (Sciarrone). Notevole il "pastorello" Thomas Bianchi, alle prese con la celebre melodia popolare in dialetto del poeta Zanazzo, in apertura di terz'atto.
Il podio era occupato da Dmitri Jurowski, trentasettenne rappresentante dell'omonima dinastia blasonata di musicisti. L'esecuzione però, in questo caso, non è sembrata all'altezza del cognome che porta, consegnando al pubblico una Tosca gradevole, ma sovente opinabile per scelta di tempi e per il fragile equilibrio tra buca e voci.

Giorgio De Martino

Ultima modifica il Venerdì, 06 Maggio 2016 06:38

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