Maestro concertatore e Direttore Daniel Kawka
Maestro del Coro Andrea Giorgi
Regia Filippo Crivelli, Scene Maurizio Varamo, Costumi Anna Biagiotti
Coreografia Gillian Whittingham, Video Designer Roberto Rebaudengo
Video Maker Matthias Schnabel, Disegno luci Agostino Angelini
con Béatrice Uria-Monzon / Natascha Petrinsky, Stig Andersen / Mario Leonardi Elisabeth Martina Serafin / Tina Kiberg, Wolfram von Eschenbach Mathias Görne / Otto Katzameier
danzatori: Alessia Barberini / Anjella Kouznetsova, Riccardo Di Cosmo / Alessandro Tiburzi
Teatro dell'Opera di Roma 2009
L' avessero fatto a Bayreuth, dove il cosiddetto teatro di regia è di casa da decenni, si sarebbe detto di operazione snobbissima: un Tannhäuser come lo si metteva in scena una volta; d' accordo, con i video al posto di quinte e fondali dipinti, ma del tutto corrispondente all' iconografia delle antiche pubblicazioni sul tema, guida tematica acclusa. Con Venere sensuale ma entro i limiti consentiti, satiri e menadi lascivi ma vestitissimi, la sala della tenzone a forma di anfiteatro e un' infilata regolare di tigli a segnare il «ritmo» della foresta. Forse non tutti si sarebbero accorti che dietro a tutto c' è il formidabile mestiere e la mano sapiente di Filippo Crivelli, artista cui si deve ogni rispetto. Ma sarebbe stato comunque uno «scandalo al contrario», e proprio perciò una provocazione autentica. Non lo stesso a Roma, dove i tentativi, non di produrre ma quantomeno di importare messinscene moderne vanno in larga misura falliti (in origine questo Tannhäuser doveva esser riproposto nella discutibile edizione allestita da Carsen a Parigi) e dove la messinscena pare sia un obbligo offrirla tradizionale. Peraltro, la platea semivuota alla prima fa temere che non sia la politica migliore nemmeno dal punto di vista del botteghino. La recitazione lascia a desiderare, il coro sembra a tratti una massa di persone che capitano lì per caso ma scene e costumi funzionano (specie quest' ultimi, disegnati in fretta e furia da Anna Biagiotti: stupendi) così come le coreografie di Gillian Whittingham. E il poco pubblico non ha alcun «filtro» che gli impedisca di ascoltare questa eccezionale e per lunghi tratti visionaria partitura che pure si conforma ai canoni operistici; in altre parole, non ancora sottotitolata «dramma musicale» come quelle del Wagner maturo. Si gode perciò, in primo luogo, un cast assemblato con criterio e sensibilità: la Venus grintosa di Béatrice Uria-Monzon, la Elisabeth di Martina Serafin che sul terreno wagneriano offre solo garanzie (la sua è una prosa musicale che rispetta sia lo stile declamato sia quello «spiegato»), il Wolfram pastosissimo di Matthias Görne e il Tannhäuser spalle larghe di Stig Andersen. Apprezza anche Daniel Kawka, direttore in meritata ascesa, che paradossalmente sa trarre vantaggio dal legato assai «italiano» dell' orchestra, anche se non può evitare le piccole imperfezioni di alcuni soli. Modesta invece la prova del coro, specie nel segmento «a cappella» dell' ultimo atto.
Enrico Girardi
Con «Tannhäuser» Wagner iniziò a segnare la Storia
Tutto realizzato con le maestranze interne: scene dipinte da Varamo
Una sorprendente Martina Serafin nei panni della redentrice Elisabeth
Nonostante nasca dalla contaminazione di due diverse fonti letterarie (Hoffmann e i fratelli Grimm) da cui ha tratto rispettivamente la tenzone poetica dei Minnesänger (cantori d'amore) alla Wartburg e la leggenda dell'impulsivo cantore medioevale sedotto nientemeno che da Venere, il Tannhäuser di un giovane Wagner poco più che trentenne può considerarsi per i temi toccati la quintessenza dell' opera romantica tedesca, superata poi solo dal Tristano, e della poetica wagneriana. È difatti tema ricorrente in Wagner quello della redenzione attraverso il sacrificio di una figura femminile così come quello della contrapposizione tra un amore sensuale (per Venere appunto) ed amore spirituale (la innocente Elisabeth). All'Opera di Roma il capolavoro giovanile di Wagner è giunto, per comprensibili ragioni d'ordine economico, in una non disdicevole confezione fatta-in-casa, ovvero contrassegnata dal riuso delle maestranze interne all'insegna dell'austerity con le scene dipinte di Varamo ed i costumi della Biagiotti. E ben aveva lasciato sperare il fantasioso primo atto, ambientato nella grotta incantata del Venusberg (il nido d'amore), con i video di Rebaudengo e Schnabel dal sapore vagamente liberty ad evocare foreste mobili ed efebici nudi femminili. Più statici e oleografici erano si rivelavano gli atti successivi, in cui la pur esperta regia del navigato Filippo Crivelli, non sempre rende giustizia all' incandescenza dell'argomento, che coinvolge implicitamente, come poi nei Maestri cantori di Norimberga, anche il tema della ispirazione artistica. Apprezzabile nel complesso il cast vocale, con una sorprendente Martina Serafin nei panni della redentrice Elisabeth, una poco sensuale Beatrice Uria Monzon in quelli della troppo algida Venere, un ben disposto Stig Andersen come tormentato Tannhäuser e Mathias Goerne come un Wolfram poco elegante ma davvero eccellente nella celebre aria cantabile del terzo atto.
Lorenzo Tozzi
Un Wagner 'all’italiana' e un’esecuzione generosamente internazionale per quanto riguarda direzione, regia, scene, coreografia e soprattuto cast vocale, eccellente. Tannhauser è tornato sul palcoscenico del Teatro dell’Opera dopo un quarto di secolo e avrebbe meritato una maggiore partecipazione di pubblico (platea e palchi erano semivuoti) sia per questa lunga assenza dal cartellone romano, sia per il buon allestimento. Sul podio, il francese Daniel Kawka, un direttore attento alla musica contemporanea, ma anche al grande repertorio e in particolare a Wagner, mentre la regia era affidata all’80enne Filippo Crivelli, al debutto con Wagner tra insospettabili arditezze e voli di fantasia. Il regista si assume l’impegno di raccontare Tannhauser con semplicità e con doveroso rispetto di Wagner, avvalendosi dell’impianto scenografico di Maurizio Varamo che affida i due momenti dell’opera, quello del mondo di Venere e quello dei pellegrini, di Elisabetta e dell’espiazione di Tannhauser, rispettivamente alle allegorie e al supporto di video il primo e l’altro a scene che ci immergono nella realtà e nella normalità. Ma è stata la musica la grande protagonista dello spettacolo grazie all’impegno di un Daniel Kawka preciso e incisivo che, dalla celeberrima Ouverture al mistico finale, ha sempre assicurato all’esecuzione ampiezza di respiro e varietà di colori. E anche grazie al coro e a un cast di solisti in cui, oltre alle bravissime Martina Serafin (Elisabetta) e Béatrice Uria-Monzon (Venere), si sono fatti apprezzare (e applaudire) il Wolfram di Mathias Goerne e il Tannhauser di Stig Andersen.
Virgilio Celletti
ROMA Dopo tanti allestimenti wagneriani d’avanguardia (in chiave politica o di fantascienza) un po’ in tutto il mondo negli ultimi anni, l’altra sera al Teatro dell’Opera si è visto un Tannhauser “normale”, senza effetti speciali a parte alcune proiezioni. Spettacolo di taglio tradizionale e piuttosto statico, che ha comunque sostituito decorosamente il previsto allestimento innovativo di Robert Carsen, a cui l’Opera ha rinunciato solo pochi mesi fa per motivi ufficialmente economici. I costumi di Anna Biagiotti e le scene spaziose di Maurizio Varamo ricordano certi allestimenti di Bayreuth immortalati nelle Figurine Liebig; suggestivo con le sue immagini vagamente liberty il video di Rebaudengo e Schnabel che accompagna il baccanale, anche se s’intona poco con le danze moderne di Gillian Whittingham. La regia di Filippo Crivelli, al suo primo Wagner, caratterizza abbastanza bene alcuni personaggi come Elisabetta, mentre altri è il caso di Venere e Wolfram sembrano scenicamente un po’ inerti. La cosa migliore dello spettacolo è il cast. Anche se la voce di Stig Andersen (Tannhauser) non si espande molto nel canto “all’italiana”, il tenore entra via via nel personaggio e nell’ultimo atto ne coglie con intensità i tormenti. Di classe il Wolfram efficacemente patetico di Mathias Goerne. Soave e insieme volitiva Martina Serafin (Elisabetta), ormai una beniamina del pubblico romano; Venere appassionata, Beatrice Uria Monzon; Christoph Fischesser è un Langravio giovane ma solenne. Bene gli altri, con una menzione per l’italiana Silvia Colombini (il pastore). Discontinua la direzione di Daniel Kawka: assai lenta la parte iniziale dell’ouverture, e aspre certe sonorità degli ottoni; nel second’atto attutiti i sontuosi toni cavallereschi e talvolta instabile il rapporto tra palcoscenico e orchestra, ma bene il drammatico finale; del terzo atto con le sue tinte mistiche il maestro ha dato una buona interpretazione. Orchestra attenta e precisa, coro dai suoni di velluto. Al termine applausi cordiali per tutti, con punte per la Serafin e isolati dissensi tra i battimani per la regia. Si replica fino a venerdì.
Alfredo Gasponi