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SIMON BOCCANEGRA - regia Andrea De Rosa

Bozzetto "Simone Boccanegra", regia Andrea De Rosa Bozzetto "Simone Boccanegra", regia Andrea De Rosa

Melodramma in un prologo e tre atti
Musica di Giuseppe Verdi
Libretto di Francesco Maria Piave con aggiunte e modifiche di Arrigo Boito
Tratto dal dramma Simón Bocanegra di Antonio García Gutiérrez
Direttore Stefano Ranzani
Regia e Scene Andrea De Rosa
Costumi Alessandro Lai
Luci Pasquale Mari
Simon Boccanegra – Franco Vassallo
Amelia – Barbara Frittoli
Gabriele Adorno – Gianluca Terranova
Fiesco – Marco Spotti
Paolo Albiani – Gianfranco Montresor
Orchestra e coro del Teatro Carlo Felice
Maestro del Coro – Pablo Assante
Allestimento in coproduzione: Fondazione Teatro La Fenice e Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, Teatro Carlo Felice, dal 22 al 31 ottobre 2015

www.Sipario.it, 23 ottobre 2015

È l'opera di Genova. È l'opera che parla del primo doge che proviene dal popolo (con un passato addirittura corsaro), l'opera che parla del mare, dei suoni della natura, che parla di pacifismo, della forza dell'amore paterno, della potenza del saper perdonare.
Nel cuore della Superba, la sua "piazza" lirica – che peraltro evoca, con i balconi marmorei ai lati della platea, la città stessa – mette in scena la propria storia, attraverso una partitura visiva che inquadra l'orizzonte acqueo (quello che, da sempre, il corpo urbano, disteso ed arcuato sul mare, ammira), e attraverso una partitura musicale intrisa dei suoni liquidi e severi della marina.
È stata una festa, per la musica e per la città, il "Simone" che ha inaugurato il nuovo cartellone d'opera e balletto 2015/2016 al Carlo Felice. Un allestimento sobrio, funzionale, nutrito di profili vocali di primordine, scandito da picchi di gradimento da parte della platea e coronato da una decina di minuti di applausi.
Il capolavoro verdiano racconta una storia ambientata nel '300 ligure, oggetto prima di un dramma del Gutiérrez, poi del libretto di Francesco Maria Piave, infine della revisione, nella versione definitiva, di Arrigo Boito. È un Verdi ormai maturo: la prima versione è del 1857, quella definitiva del 1881, già in odore di "Otello". Il compositore riesce qui a fare teatro con una tensione drammatica semplicemente superba. Il "Simone" è, infatti, pura passione, e propone una travolgente esperienza emotiva, per il melomane come per il neofita. E non è affatto un'opera "difficile", nonostante la modernità che esprime faccia sì che, ad esempio, non vi siano melodie abbastanza lineari da poter essere estrapolate e... fischiettate.
Veniamo all'allestimento. È raro che Verdi faccia ricorso a musiche descrittive. Eppure nel "Simon Boccanegra" l'elemento marino, ribaltato nei suoni dell'orchestra è frequente, inequivocabile... Una sorta d'atmosfera, che parla di salino e grandi orizzonti, una tinta di cui è intrisa l'opera. Sarà pure "l'uovo di Colombo" (così restiamo in zona), ma la soluzione scenica offerta dal regista Andrea De Rosa ci appare coerente ed efficace. Con un budget limitato, grazie alla proiezione di un litorale, di un mare, di un cielo genovese, tanto vero quanto di fascino epico, grazie ad una struttura verticale polimorfa che accompagnava, per metafore, gli ambienti evocati, viene a delinearsi uno spettacolo intenso, chiaroscurale ma non lugubre, profondo (e profondamente malinconico) ma non greve.
In tale sostanza acquea si delinea la città Superba ed il profilo del protagonista: Simone, che nel mare ha il suo passato eroico, libero e turbolento, e che nella terra che gli ha dato il potere trova la sua fine... Nell'antefatto, comprendiamo la sua vita violenta persa nella vastità dell'oceano; nel compiersi della tragedia, assistiamo commossi ad una morte ingiuriosa, alla nemesi di una vita spenta in un bicchier d'acqua (in quanto sarà avvelenato). Il baritono Franco Vassallo ha debuttato il ruolo con grande cuore e grande intelligenza: anche il suo strumento vocale è grande, intendiamoci (nonostante il registro grave, avesse avuto un po' più di corpo, sarebbe stato ancor meglio), ma è il personaggio nella sua completezza ad emergere magnificamente, in tutta la sua complessità.
Altra stella della serata genovese, Gianluca Terranova. Nella scorsa primavera, alle prese, sullo stesso palcoscenico, con la "Lucia" donizettiana, avevamo azzardato un paragone con il Pavarotti degli anni d'oro o con Villazon quando in stato di grazia. Non possiamo che ribadire la bellezza e la forza comunicativa di questo tenore, registrando inoltre che quelle piccole sbavature intonative che avevamo rilevato allora, qui si son dileguate.
In una partitura quasi tutta al maschile (molto convincente anche l'"Albiani" tratteggiato da Gianfranco Montresor), svetta il "Fiesco" di Marco Spotti, perfetto antagonista di Simone, «aspro e rigido - notava il Budden – come le rocce basaltiche della nativa Liguria», ruolo che chiede una prima ottava molto potente e sonora. Un duo, dunque, di altissima caratura, quello di Vassallo e Spotti, per due figure nelle quali Verdi mette dentro tutto se stesso, il dolore esistenziale, la paternità frustrata, i tormenti.
Quanto ad Amelia, la bimba rapita che solo a vent'otto anni sa d'essere figlia del doge: Barbara Frittoli ha dato buona prove di sé; è una signora della lirica tra le più amate sulla piazza internazionale, raffinata ed intelligente professionista che riesce sempre e comunque a cadere in piedi (lo diciamo con profonda ammirazione). Registriamo però, l'altra sera, alcune lievi défaillance negli acuti, a tratti forzati e comunque "non sereni": ci riferiamo al si naturale nel primo atto, al si bemolle nel secondo atto, nello scoglio dei salti d'ottava oppure laddove la partitura lo pretende, dal trampolino di un "fa" in piena zona di passaggio.
Nondimeno, momenti di pura poesia e grande commozione, per la duplice agnizione che prevede questo capolavoro. L'elemento (che dalla tragedia alla commedia plautina al melodramma costituisce il climax dell'intreccio narrativo) qui addirittura si sdoppia: prima, il riconoscimento commosso fra Simone e la figlia, pura catarsi, somma tenerezza (anche musicale), poi l'abbraccio estremo tra Simone, morente, e Fiesco... E il pianto liberatore, il perdono, ed uno sguardo disilluso: «Ogni letizia in terra è menzognero incanto».
Last but not least, il lavoro sulla partitura realizzato dalla bacchetta di Stefano Ranzani, in virtuoso equilibrio tra una scrittura strumentale complessa e matura, e il palcoscenico con le sue esigenze. Non un momento – almeno dalla prospettiva della platea – che un cantante soffrisse d'essere stato "lasciato solo", o a dover rincorrere il gesto o a dover spingere, per superare la barriera degli strumenti. Insomma, una lettura bilanciata, di grande correttezza e senza egocentrismi. Ed una altrettanto convincente risposta, da parte delle masse artistiche del teatro, il suo coro, la sua orchestra.
Ci auguriamo sia superfluo raccomandare ai genovesi di non lasciarsi sfuggire, e conoscere o riconoscere, la "loro" opera, che è anche una delle partiture più folgoranti della storia dell'opera. Non per nulla, Massimo Mila ne paragonava la celeberrima scena del Consiglio, alla "Matthäuspassion" di Bach... A chi invece raggiungerà Genova da fuori, segnaliamo la possibilità di intendere anche una giovanissima e talentuosa seconda "Amelia" (genovese peraltro), Benedetta Torre, vent'anni, che canterà nelle recite del 27 e del 31.
Cittadino genovese onorario (dal 1867), Verdi è l'unico grande musicista che si è preso la briga di cantare la Superba (Wagner l'ha fatto pure, ma solo a parole). Affine per carattere al profilo psicologico della gente di Liguria, per decenni Verdi a Genova soggiornò, quando libero da impegni milanesi o europei. E nonostante odiasse il mare, non vedeva l'ora di calare dalle nebbie, ed arrivò a prender casa proprio laddove ogni finestra gli ricordava il suo nemico!
Festeggiamo questa inaugurazione di cartellone, ed i buoni auspici che rappresenta, per il futuro del teatro Carlo Felice, con una immagine di Verdi che quasi si fonde con l'immagine di Genova e del suo doge corsaro: è Jules Massenet, che a Genova incontrò il Maestro, a regalarcela: «Il capo scoperto e dritto sotto il sole che opprimeva, lo vedrò sempre mentre mostra sotto i nostri piedi la città dai colori cangianti e il mare dorato con un gesto fiero come il suo genio e semplice come la sua bella anima d'artista. E fu come un'evocazione di uno dei grandi dogi dell'antichità, che stende su Genova la sua mano fatta di potenza e di bontà».

Giorgio De Martino

Ultima modifica il Sabato, 24 Ottobre 2015 01:41

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