Orchestra, coro e tecnici del Teatro Verdi di Trieste
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Direttore Beatrice Venezi
Maestro del coro Paolo Longo
Regia, scene e costumi Ivan Stefanutti
Light designer Emanuele Agliati
Konstanze Yerang Park
Belmonte Pierluigi D’Aloia
Osmin Luca Dell’Amico
Blonde Liudmila Lokaichuk
Pedrillo Francesco Napoleoni
Selim Giulio Cancelli
Trieste, Teatro Verdi, 25 gennaio 2025
Una favola politicamente scorretta. Il ratto del serraglio di Mozart, in scena al Teatro Verdi di Trieste, si avvale dell’allestimento fiabesco di Ivan Stefanutti, che firma anche le scene e i bellissimi costumi. E trasporta la vicenda in un Oriente immaginifico, dai colori laccati, accarezzato dalle luci calde di Emanuele Agliati. Molto suggestivo il secondo atto, con sontuosi tendaggi e lampade colorate a comporre lo sfondo per un racconto onirico ove, tuttavia, emergono chiari elementi di riflessione. Anche di riflessione politica e politicamente scorretta. Come l’invito fatto da Pedrillo al musulmano Osmin di bere il vino, in spregio delle proprie abitudini religiose (invito accolto dal burbero carceriere che, ubriaco e stordito dal sonnifero messo nel vino, si assopirà mentre i protagonisti preparano la loro fuga). C’è poi il tema sempre attuale della clemenza del tiranno, in questo caso un Selim invero singolare nel suo non voler forzare Konstanze all’amore nei suoi confronti. Lo stesso Selim, come noto, alla fine dell’opera concederà magnanimo alle due coppie di amanti di tornare felici alle proprie terre (“chi non si riesce a conquistare con la benevolenza - spiega con sbrigativo pragmatismo -, è meglio toglierselo di torno”). Un tema, questo, che anticipa quello de La clemenza di Tito e che si pone quale esplicito omaggio al sovrano Giuseppe II. C’è poi l’amore, così tenacemente perseguito dai protagonisti, nella granitica convinzione della sua centralità nella vita delle persone e nell’altrettanto ferma fiducia nel suo potere, quasi taumaturgico. Bontà loro. Tutto tiene la sublime ispirazione mozartiana, qui sempre fedele a sé stessa nella sua olimpica altezza, pur se da un lato ancora debitrice dell’affettuosa sinuosità melodica della Scuola napoletana e dall’altro portatrice di echi barocchi. Rende ragione di questa peculiarità la lettura di Beatrice Venezi, alla guida di un’orchestra duttile e pronta. La leggerezza necessaria a tessere le fila del racconto trae così linfa dal costante pulsare ritmico, dai contrarti dinamici, dalla cura degli impasti sonori e dalla sensibilità nell’assecondare il canto. Ben assortita la compagnia, anche se - trattandosi di Singspiel - l’alternanza di parti cantate (in tedesco, ça va sans dire) e di parti parlate (in italiano) per qualche interprete mette in evidenza più di un limite nella recitazione. Il canto, invece, è da tutti curato. A cominciare dalla Konstanze di Yerang Park, la cui voce luminosa e agile si inerpica con liquida facilità su per i pentagrammi, acquisendo pasta preziosa nel registro medio acuto. Pierluigi D’Aloia, amoroso Belmonte, vanta un bel timbro tenorile, morbido e rotondo, e una squisita finezza di lettura, mentre il Pedrillo di Francesco Napoleoni ha voce più robusta e fraseggio più stentoreo. Liudmila Lokaichuk disegna in punta di pennello una Blonde tanto vezzosa quanto brillante, così come Luca Dell’Amico ha voce scura e carattere bieco perfetti per Osmin. Completava il cast il sobrio Selim dell’attore Giulio Cancelli. Molto bene ha fatto il coro, istruito da Paolo Longo. Vivo successo per tutti. Fabio Larovere