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LUCIA DI LAMMERMOOR - regia Dario Argento

"Lucia di Lammermoor", regia Dario Argento. Foto Marcello Orselli "Lucia di Lammermoor", regia Dario Argento. Foto Marcello Orselli

Dramma tragico in due parti
Musica di Gaetano Donizetti
Libretto di Salvatore Cammarano
Tratto dal romanzo The Bride of Lammermoor di Walter Scott
Direttore Giampaolo Bisanti
Regia Dario Argento
Scene Enrico Musenich
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Luciano Novelli
Enrico – Stefano Antonucci
Lucia – Desirée Rancatore
Edgardo – Gianluca Terranova
Arturo – Alessandro Fantoni
Raimondo – Giovanni Battista Parodi
Alisa – Marina Ogii
Normanno – Enrico Cossutta
Orchestra e coro del Teatro Carlo Felice
Maestro del Coro Pablo Assante
Nuovo allestimento del teatro Carlo Felice
Genova, Teatro Carlo Felice, dal 21 febbraio al 1° marzo 2015

www.Sipario.it, 22 febbraio 2015

Per la scena della follia, in cui la Lucia di Desirée Rancatore tutto si è fatta perdonare, e perdutamente ci ha fatti ancora una volta innamorare; per il timbro di Gianluca Terranova, per il carisma della sua voce che riesce a inondare di sottotesti le – sovente poverelle – parole del libretto (una voce che fa riconciliare coi tenori... Niente vibrati caprini, niente molletta sul naso... Finalmente!); per quelle – le più - che hanno ben funzionato, tra le idee di Dario Argento, il noto maestro del brivido che si è cimentato in un genere evidentemente da lui molto amato, e lo ha fatto con fin troppo pudore e con un complessivo buon risultato; per la direzione di Giampaolo Bisanti, bacchetta che abbiamo felicemente ritrovato, ancora più solido ed efficace nella gestione del palcoscenico, un ottimo podio al servizio della scena... Per tutto ciò e per altro, siamo usciti indenni, con un pieno sorriso stampato sul volto, dalla ossianica Scozia cupa e letteraria, dopo morti ammazzati, decessi suicidi e di crepacuore, e dopo l'apoteosi del belcanto che riuscirebbe ad intenerire anche un hooligan in trasferta.
Unica nota davvero triste, in mezzo a tanto sangue di pomodoro e a qualche zombie (fantasma evocato a partire da "Regnava nel silenzio"), la notizia data in sala della morte di Ronconi, che ha lasciato attoniti gli spettatori e in fibrillazione i giornalisti presenti.
"Lucia" a Genova, dopo un quinquennio di attesa... L'avevamo applaudita al Carlo Felice nel 2010, e prima ancora nel 2003, in una edizione con la Bonfadelli allora in ottima forma e una regia che era stata un mezzo inciampo: un nome importante, Graham Vick, alle prese con una ciambella senza buco, una Lucia burberry style e plaid scozzesi che poco aveva convinto.
Dario Argento ha fatto assai meglio, senza dubbio: insieme ad Enrico Musenich (scene), Gianluca Falaschi (costumi) e Luciano Novelli (luci) ha proposto una edizione interessante e a conti fatti rispettosa, fin troppo tradizionale. Impostazione scabra, alberi stilizzati, un tappeto di vegetazione sfinita (ottima idea. Dark side: les feuilles mortes... fanno un sacco di rumore, quando ci si cammina sopra), ampia scalinata marmorea multiuso, una sana linea votata al riciclo di scene già pronte, belle citazioni (e coerenti, non per il tempo ma per il senso) e riferimenti ai preraffaelliti.
Nessun espediente di bassa lega per ossequiare quanto ci si potrebbe attendere dal nostrano visionario protagonista di cult B movie e di memorabili (e comiche?) scene splatter. L'onestà dell'operazione paga: Argento trova dei punti di contatto centellinati, coi propri fantasmi: li propone con garbo, quasi sempre laddove l'intreccio è in grado di accoglierli. Ad esempio all'entrata di Lucia, al narrare della truce "leggenda della fontana", il fantasma dell'amante uccisa spunta davvero: una terrea signorina "effetto nudo integrale" che qui stupisce ma convince. Operazione coerente, crediamo: Lucia è incarnazione della sensibilità romantica, quella sensibilità impastata di ideali umanitari, predestinazioni, turbamenti e fascino morboso per scene crudeli e vagamente erotiche (giustificate dalla perdita del senno).
Un po' meno funzionerà, l'intuizione del regista romano, al principio della parte seconda, quando il muliebre zombie ricompare – parimenti svestito e con cadaverica seducenza – a sottolineare il fantasma (appunto) ma della follia, che già s'intravede nella povera Lucia dall'anima violentata e ingannata dalle manovre del fratello. Per proseguire sugli alti e bassi, personalmente molto abbiamo ammirato l'epifania di Lucia nell'evocazione commossa e morente di Edgardo ("A te vengo, o bell'alma"). Eccolo, l'amore che non teme gli ostacoli ed è destinato a trionfare anche dopo la morte, con la musica che purifica, trasfigura l'esistenza, redime!
Un po' meno abbiamo compreso e goduto di quel flash che ci svela in presa diretta il povero Arturo che a bretelle abbassate pregustava il talamo e invece si becca una ridda di coltellate. Infine, omaggio al teatro di Genova e alla sua complessa macchina scenica (ma l'altra sera a dire il vero suonava anche come un gesto d'omaggio a Ronconi), lo spettacolare cambio di scena a vista che ha fatto risucchiare il palazzo di Ashton e la scalinata marmorea, lievitando contestualmente quel cimitero dei Ravenswood (quelle lapidi, un po' fumettistiche, ma pazienza...) dove si chiude il dramma.
Morale: il melodramma nella sua epoca d'oro è dal punto di vista della materia narrativa l'opera dei pupi della letteratura, ed anche nel capolavoro donizettiano paga lo scotto, tramutando un romanzo ancora oggi leggibile con soddisfazione ("The bride of Lammermoor" di Scott) in una sequenza di candida quando non grottesca semplificazione, che forse il fruitore del terzo millennio ha perso l'ingenuità per poter raccogliere con pieno coinvolgimento. Motivo in più per rimanere abbacinati dalla forza della partitura, che dona carne e sangue e passione. Forse la regia di Argento avrebbe potuto osare di più, mescolare le carte, proporre una lettura davvero deflagrante... Ma è pur capibile ed apprezzabile che non sia entrato a gamba tesa in un ambito espressivo con cui non ha ancora sufficiente confidenza. Aspettiamo, con curiosità, vivo interesse e fiducia nella qualità sempre crescente del risultato, il suo prossimo cimento in ambito lirico. E francamente valutiamo come preconcettuali se non preconfezionati, quei "buu" che si sono alzati (tra gli applausi) in platea, troppo localizzati e metodici per risultare frutto di un dissenso attendibile.
Le voci: Desirée Rancatore è un genio: la sua voce sta attraversando – parrebbe – una fase di transizione, i suoi centri stanno irrobustendosi a scapito della coloratura. Al principio questa fatica pesava, all'ascolto (nella cavatina). Poi però l'intelligenza di questa grande donna (una delle voci più belle di questi anni, e in più, musicalità, grinta e capacità attoriale) sopperisce ai problemi in zona acuti riempiendo di significato le esitazioni, soprattutto nel lungo scoglio della scena della follia, di frequente superandole (quelle esitazioni) e uscendone trionfante.
Gianluca Terranova ha una delle voci più carismatiche e comunicative su piazza.... Paragonabile al Pavarotti degli anni d'oro o a Villazon quando in stato di grazia. Terranova non è uno strumento perfetto, però (anche Richter era piuttosto falloso, sulla tastiera, eppure incantava). Terrranova deve ancora aggiustare qualcosa, probabilmente: deve entrare fin dentro la propria "scatola nera" dell'impostazione vocale e mettere a punto certe piccole cadute (anche) intonative. Ma, vale ripeterlo, siamo grati per le emozioni che questo artista ha messo in campo, con tanta generosità e bravura.
Buona prova, anche se troppo ha dato, al principio, l'Enrico di Stefano Antonucci; bravo (e assai migliorato!) il nostrano Arturo di Alessandro Fantoni, meno interessante il Raimondo di Giovanni Battista Parodi, che ha evidenziato qualche tensione emissiva che trovava anche un risalto scenico, in un portamento non fluido. Adeguato, il resto del cast.
Presenza reattiva e non di routine per l'orchestra diretta da Bisanti, così come per gli artisti del coro genovese. Si replica fino al 1° marzo; anche il cast d'alternanza sulla carta promette bene. Se chi legge fosse un amico che chiede consiglio, gli diremmo "vale la pena".

Giorgio De Martino

Ultima modifica il Lunedì, 23 Febbraio 2015 09:23

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