mercoledì, 29 novembre, 2023
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AMLETO – regia Paolo Valerio

"Amleto", regia Paolo Valerio. Foto ENNEVI "Amleto", regia Paolo Valerio. Foto ENNEVI

Tragedia lirica in quattro atti di Franco Faccio
Libretto di Arrigo Boito
Prima esecuzione italiana in tempi moderni
Direttore Giuseppe Grazioli
Regia Paolo Valerio
Scene e projection design Ezio Antonelli
Costumi Silvia Bonetti
Luci Claudio Schmid
Responsabile dei movimenti mimici Daniela Schiavone 
Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Arena di Verona
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Nuovo allestimento della Fondazione Arena di Verona
AMLETO Angelo Villari
CLAUDIO Damiano Salerno
POLONIO Francesco Leone
ORAZIO Alessandro Abis
MARCELLO Davide Procaccini
LAERTE Saverio Fiore
OFELIA Gilda Fiume
GELTRUDE Marta Torbidoni
LO SPETTRO Abramo Rosalen
UN ARALDO Enrico Zara
IL RE DI GONZAGA Francesco Pittari
LA REGINA Marianna Mappa
LUCIANO Nicolò Rigano
UN SACERDOTE Maurizio Pantò
PRIMO BECCHINO Valentino Perera
Verona, Teatro Filarmonico, 22 ottobre 2023
Stagione lirica 2023

www.Sipario.it, 27 ottobre 2023

Era stata annunciata nella stagione 2020 del Teatro Filarmonico proprio a febbraio di quell'anno e di conseguenza rimandata a tempi migliori. Il tanto atteso Amleto che il compositore veronese Franco Faccio musicò nel 1865 finalmente conquista il palcoscenico del teatro lirico veronese in questa parte autunnale della Stagione lirica 2023 della Fondazione Arena di Verona.

Erano 153 anni che non veniva più rappresentata in un teatro italiano questa opera su libretto di Arrigo Boito: per Faccio fu la seconda e non ne scrisse più preferendo l'attività di direttore d'orchestra. Dopo una prima di successo a Genova nel 1863 e, a seguito di lunghi rimaneggiamenti e modifiche sia alla partitura che al libretto, il 9 febbraio del 1871 venne ripresa al Teatro alla Scala di Milano ma con un clamoroso insuccesso tale che l'autore ritirò completamente l'opera. Ma come sempre, è dall'estero che partono iniziative a riscoperta del repertorio desueto e dimenticato della vasta produzione lirica italiana. Nel 2014, l'Amleto di Faccio fu recuperata negli Stati Uniti, dall'Opera Southwest a Albuquerque, per iniziativa del direttore statunitense Anthony Barrese che si attivò per una edizione critica sulla base dei materiali manoscritti presso Casa Ricordi; a seguire, nel 2016, l’allestimento al Festspiele di Bregenz di cui esiste documentazione sonora. Progetto ambizioso quello veronese in un teatro che ultimamente attua una politica di recupero di melodramma italiano oltre al mito verdiano, quello che volgarmente viene indicato come sottobosco verdiano, che minori poi non sono del tutto, tra gli anni '60 dell'Ottocento e l'affermazione della Giovane Scuola e di Giacomo Puccini. Di tutta questa produzione musicale di sperimentazione sopravvivono nel repertorio solo due titoli: il Mefistofele di Arrigo Boito e la Gioconda di Ponchielli, isole tra una produzione totalmente dimenticata ma che permettono di restituire l'ansiosa ricerca di modelli compositivi oltre Verdi o la melodia italiana, in un confronto con la musicalità wagneriana e con le ampie melodie narrative dal grand-operà francese. Ecco che l'accoppiata Faccio-Boito risulta emblematica di questo afflato di ricerca della "modernità" nel melodramma italiano, dall'alto delle loro esperienze musicali e letterarie, nell'impeto giovanile di una ricerca della vita disordinata e anticonformista. All’epoca della composizione Faccio aveva 23 anni, Boito 25 compagni di conservatorio di Milano e di esperienze politiche, legati da una salda e sincera amicizia che durò per tutta la vita: Scapigliati, seguaci di quel movimento serbatoio del disordine, così definito. Il libretto di Arrigo Boito da Shakespeare riassume tutti questi i principi, una scelta che lascia un grande spazio al tema della "follia" di Amleto e Ofelia sinonimo di una ricerca dell'inquietudine, come l'opzione per un dramma del bardo inglese era strumento con cui confrontarsi. Una certa presunzione da parte dei due autori che investivano di critiche direttamente anche Giuseppe Verdi. Musica del presente per quei tempi, quella di Faccio, indirizzata a far saltare la formalità delle regole del melodramma: via le forme chiuse ma sequenze di momenti strettamente lirici che emergono in corso d'opera, assieme a improvvise ondate sonore di ottoni e percussioni. Come ha ben evidenziano nelle note di sala il direttore d'orchestra, responsabile della produzione veronese, Giuseppe Grazioli, ascoltando l'Amleto si corre in rischio di paragonarlo a quanto già sentito, a qualche frase di Wagner, qua e là musica di Verdi, la ponderosa forza della musica francese, con la tendenza ad incasellare il tutto nel già conosciuto. C’è la volontà di creare un altro di musicali, scelte che vengono costantemente messe in discussione, come se il giovane compositore fosse preso da un certo timore di capacitarsi di essere saper di giocare con le regole tradizionali dell'armonia. Ecco che il grottesco esplode all'interno di una scena d'amore, recitativi bisbigliati a velocità quasi eccessiva che intervengono su elementi corali, ma soprattutto una scrittura vocale che gioca con l'estremo dei limiti della tessitura, dove ogni personaggio deve gestire il canto al limite del passaggio di registro, il declamato che sbalza fuori da una linea di canto, ampi recitativi che ricostruiscono il senso della drammaturgia, tante sorgenti sonore, in buca, sul palco e dietro le quinte, con orchestra, bande, cori e quartetti d'archi. 

Salvo poi, teatro nel teatro nella seconda parte del secondo atto, emergere, tra un recitato e riproposta di vecchie modalità musicali, Questo stile sa odor di muffa un miglio; a lungo andare ci annoierà, che irrompe nel parossismo del finale atto con la rievocazione della scena dell'omicidio del re padre di Amleto, nello stile dei grandi concertati d'assieme. Eppure i preludi ad ogni singolo quadro che offrono un ascolto pacato di figlio del tempo e della tradizione storica musicale. 

Verona che è riuscita a confezionare uno spettacolo capace di comprendere questo Amleto sia come dramma scenico che musicale. Il merito va anche alla regia che non ha appesantito una trama già ben strutturata. Ha proposto, con le scene e projection design di Ezio Antonelli, un ambiente costruito con riflessi chiaroscurale amplificati da una indiscreta grafica digitale che amplificava lo spazio con un gioco di velari per il contenimento degli inserimenti del coro gestione del coro, con i personaggi principali che agivano nelle loro solitudini mentali. Un ambiente a tinte fosche ravvivato solo dai costumi senza tempo di Silvia Bonetti, bianco per il coro, rossi del re e della regina l'azzurro di Ofelia e un vago grigio per Amleto ben risaltavano nello spazio scuro del palcoscenico. Particolare, la proiezione della partitura manoscritta di Faccio nel momento dei preludi, un doveroso omaggio alla sua creatività e intuizione. Di grande impegno l'esito vocale del cast con una scelta di voci nazionali: questo è stato il merito della direzione artistica. Dall'irruenza vocale del tenore Angelo Villari che ha delineato un Amleto tutto di impulso che ben si addice alle sue qualità vocali di tenore drammatico spinto e di voce aperta. I personaggi femminili sono stati ben rappresentati da Gilda Fiume, una Ofelia che Faccio tratteggia con una vocalità drammaticamente definita ma con ampi spazi lirici che richiede un fraseggio teatralmente definito. Come Marta Torbidoni nei panni di una Gertrude qui ben scolpita che ha accentuato la scrittura drammaticamente e caratterizzata da ampie escursioni molto riuscita nel contrasto con Amleto. Molto riuscita la sequenza della scena degli attori realizzata come un teatro di burattini ampiamente rievocativa della vicenda del re padre di Amleto.

Il cast di contorno è risultato ben assortito e efficace nei rispettivi ruoli con nulla lasciato alla singola iniziativa: Saverio Fiore (Laerte), Damiano Salerno (il Re), particolare nella sua preghiera ben sbalzata. Riusciti i 5 bassi, Francesco Leone (Polonio), Alessandro Abis (Orazio), Davide Procaccini (Marcello), Abramo Rosalen (lo spettro) Valentino Perera (primo becchino). Merito a parte la scena della commedia con Francesco Pittari (il re di Gonzaga), Marianna Mappa (la regina); a concludere Nicolò Rigano (Luciano), Maurizio Pantò (un sacerdote) e Enrico Zara (un araldo). Gran lavoro per il coro istruito da Roberto Gabbiani con i ricchi inserimenti nelle scene d'assieme. La gestione musicale di Giuseppe Grazioli è stata capace di offrire una sintesi di stile della composizione senza enfasi o particolare marcature di tempi che hanno permesso ai cantanti di gestire con sicurezza le già difficili parti vocali.

Successo pieno e condiviso per questa produzione con tanti applausi a ciascuna scena e ad ogni intervento di canto che sottolineavano il riconoscimento di ogni singolo intervento sia musicale che di canto. Il tutto per tre recite, una saltata per sciopero, con il tutto che verrà riposto nei magazzini e negli archivi.

Federica Fanizza

Ultima modifica il Lunedì, 30 Ottobre 2023 11:55

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