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CITERONE + CUMA - coreografia Michele Ifigenia Colturi

“CITERONE + CUMA”, coreografia Michele Ifigenia Colturi,. Foto Elena Tilli “CITERONE + CUMA”, coreografia Michele Ifigenia Colturi,. Foto Elena Tilli

CITERONE + CUMA
MICHELE IFIGENIA / TYCHE
coreografia e suono Michele Ifigenia Colturi
dramaturg Ciro Ciancio, Riccardo Vanetta
performers Enzina Cappelli e  Andreyna De La Soledad (Citerone) e Federica D’Aversa (Cuma)
Produzione Aiep Ariella Vidach  (anche per Cuma, più Anghiari Dance Hun)
per Cuma, suono Tarek Bouguerra
filmaker Lorenzo Basili
Festival Danza in Rete 2025 – Danza in Rete Off
per Citerone, prima regionale
Vicenza, palcoscenico teatro Comunale, 9 maggio 2025   

www.Sipario.it, 12 maggio 2025

Due danzatrici, a seno nudo, sono già su quello che sarà il loro ring mentre entra il pubblico, curiosamente abbigliate. Una in pantaloncini scuri, tipo boxeur, l’altra in eleganti pantaloni bordeaux in pelle. Si preparano al loro comunicante movimento, una rilettura delle Baccanti di Euripide del coreografo Michele Ifigenia. Il loro percorso è simbolico, rappresenta in toto l’unione femminile, l’essenza che si muove, arriva a destinazione della somma del Citerone attraverso l’uso del loro corpo, con un intento cerimoniale celebrativo. Dioniso? E’ lì, è il protagonista del loro rito. Una cerimonia propiziatoria, in onore del dio. E in quel loro danzare arcigno e scattoso, meticoloso, in necessario modo imperante, esaltano Dioniso al suono di campane a festa ( ma anche a morte a ben vedere) e campanacci, in zone d’azione plastiche, mirabolanti. E’ un sentire accentrato e incastrato nel loro credo che oltre all’omaggio puro va oltre, si trasfigura, si narra in maniera esplicativa, diretta. E’ l’estasi delle Baccanti, che il Citerone, a sua volta, da ospitante, esalta. Dioniso è l’assoluto, la liberazione dalla schiavitù e dai soprusi, qui concentrato nell’azione-emancipazione. Ogni gesto delle due donne in scena si proietta verso il dio con un credo senza pari, una fuga per la vittoria peraltro anche mimata da una delle due danzatrici, un’apertura verso l’assoluto respiro. Il fatto stesso che le due rappresentano l’intera totalità delle donne di Tebe è significativo, come il loro deciso furore di traviate. Nel lavoro presentato a Vicenza per Danza in Rete Off, Michele Ifigenia dà alle protagoniste un’occasione molto interessante ove aprirsi a un’esaltazione che sa segnarle ancor di più, a loro volta le crea nella visionarietà. Dal canto loro Enzina Cappelli e Andreyna De La Soledad , le due interpreti, si muovono all’unisono, rendendo ottimamente in scena il loro operato, e tecnicamente sono del tutto impeccabili, dimostrando pienezza e concretezza, attenzione nei confronti del lavoro stesso ma anche del pubblico. Quel luogo d’alta quota, immaginario, diventa esternazione, scatto deciso di un nuovo universo. Con l’ultimo richiamo dedicato alla sacerdotessa Paculla Annia.

In Cuma, altro interessante lavoro della compagnia Tyche presentato anch’esso sul palcoscenico del Comunale vicentino, il solo coreografico della brava Federica D’Aversa si muove intorno all’archetipo di un’altra figura, la sibilla, nel dichiarato racconto umano e del suo tracciato nel mondo. Il solo è una sicura e decisa ispirazione rivolta al divino, una dolorosa ossessione narrata in un ballo, in un canto atroce che culmina in un processo trasformante, desolante persino. Il corpo nudo della D’Aversa narra più di mille cose, le mette in luce e se le trascina dietro come un onirico, speciale racconto. Quel corpo nudo è dunque al servizio di ciò che a sua volta sta narrando e la coreografia ancora una volta si fa portavoce, forza narrante di un processo non domo ma combattivo, in un linguaggio scenico di armonica ricerca, volitiva immagine, audacia nel sentirlo. Il corpo non disegna ed esterna solo, il corpo è, non si mimetizza, è nella sua inquietudine alienante come uno scenario di guerra. Quel corpo sa, sbanda e prova a ricostruirsi nel suo ritornar vivo, si riposiziona e grida con uno stile animalesco, fragile. La sibilla prova nel dolore a ristabilire le distanze, ma è come fosse in balìa di tempeste e uragani a scuotere il proprio animo, configurazione e destino di una comunità allargata. Una drammaturgia, quella scritta da Ciancio e Vanetta, ostentata e rigorosa nel suo dramma che si compie, come in quella parte finale dove nello schermo alle spalle della performer si innalza, anche qui più onirico che mai, un tripudio dell’anima, una lievitazione di quintessenza a più misure. Un ritorno-proiezione bambinesco, immateriale, dal segnale limpido e dall’effetto teatrale aperto, sincero. Per entrambi gli spettacoli, il pubblico (sistemato sul palco, come detto, della sala) è rimasto concentrato, finalizzato alla drammaturgia, al suo divenire di racconto, e al tecnicismo molto adeguato delle interpreti.

Francesco Bettin

Ultima modifica il Sabato, 24 Maggio 2025 09:13

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