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Festival Internazionale di Cinema, La Biennale di Venezia 71. - di D.G.

"A pigeon sat on a branch reflecting on existence" - regia Roy Andersson "A pigeon sat on a branch reflecting on existence" - regia Roy Andersson

A PIGEON SAT ON A BRANCH REFLECTING ON EXISTENCE Leone D'oro Venezia 71
regia Roy Andersson
con Holger Andersson, Nisse Vestblom

Trentanove quadri sull'esistenza e il non senso dell'esistenza, trentanove piani sequenza che inoculano porzioni di vita in un determinato punto del suo svolgersi, trentanove passaggi attraverso i quali due venditori ambulanti (la risposta scandinava di Vladimiro ed Estragone) ci conducono placidamente mentre tentano di vendere denti da vampiro, maschere grottesche e squallidi sacchetti che ridono. "Perché vogliamo far divertire la gente". La gente ha bisogno di divertirsi..ed effettivamente il terzo atto della Living Trilogy di Andersson (iniziata con 'Canzoni dal secondo piano' e proseguita con 'You, the living') tocca momenti di acutezza disarmante, in un progredire di scene in contesti quasi di teatro da posa dove personaggi differenti si trovano incastonati in un tempo non definito... uno sguardo tragicomico sulla vita e sulla morte e sul tentativo di riempire lo spazio che le separa: dalla morte di un uomo nel suo appartamento durante la vigilia di Natale mentre tenta di stappare una bottiglia di champagne e la moglie canticchia in cucina senza accorgersi di nulla, all'accanimento dei figli in una stanza di ospedale sul corpo morente della madre che tiene stretta a sé la borsa con tutti i suoi averi, all'impassibilità dell'equipaggio di una nave davanti al cadavere di un passeggero deceduto mentre era in fila al self service proprio dopo aver pagato il suo panino, fino alla straniamento degli avventori di uno squallido bar in cui inaspettatamente sopraggiunge il cordone di Carlo XII che a cavallo del suo destriero decide di sostare un attimo per un bicchiere d'acqua e fare avances velate al garzone che glielo serve, A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (il titolo fa riferimento al dipinto fiammingo 'Cacciatori nella neve' di Bruegel Il Vecchio) pone uno sguardo distaccato ma inesorabile sull'assurdità della vita, sulla mancanza di prospettive (acuita dalla fissità delle inquadrature che non lasciano presagire vie d'uscita), sullo sbiadimento delle relazioni e l'ingrigimento delle emozioni (a cui corrispondono le scelte cromatiche di tutto l'ambiente ritratto: dalla scenografia, ai costumi fino al colorito della pelle di alcuni personaggi) sull'aridità della comunicazione ( tema ricorrente in molti quadri sono queste apatiche telefonate in cui vediamo solo uno degli interlocutori annuire e pronunciare in modo flemmatico :"sono contento di sapere che stiate tutti bene") e sul generale spaseamento e perdita di riferimenti (da qui la conclusione beckettiana: un piccolo gruppo di persone aspetta alla fermata un autobus che non arriva mentre uno di loro si accorge nell'attesa che "oggi non è giovedì...")
Andersson riesce a confezionare un film straziatamente divertente, surreale e spietato, un'attenta rappresentazione del quotidiano che lascia perplessi e apre discussioni e che non può che strapparci l'ennesimo amaro sorriso quando realizziamo di essere stati messi, appunto, nella stessa condizione del "piccione seduto sul ramo che riflette sull'esistenza".

HUNGRY HEARTS
Coppa Volpi migliore interpretazione femminile e maschile Venezia 71
regia Saverio Costanzo
con Adam Driver, Alba Rohrwacher, Roberta Maxwell, Al Roffe, Geisha Otero.
Tratto dal romanzo "Il bambino indaco" di Marco Franzoso

Hungry hearts
Uno spazio angusto, un luogo che dovrebbe essere di passaggio è invece il punto in cui Mina e Jude si incontrano, si innamorano e rimangono intrappolati. Il film di Costanzo si apre con una scena di amore at first sight piuttosto insolita quanto emblematica: Mina e Jude si incrociano in uno squallido bagno di un fatiscente ristorante cinese a New York e vi rimangono bloccati per una serratura difettosa, costretti a socializzare tra due porte chiuse ed esalazioni poco piacevoli. Da qui inizia la loro storia che molto velocemente si concretizza in convivenza + matrimonio + figlio in arrivo, un susseguirsi di tappe obbligate per il raggiungimento di una normalità familiare che sembra essere la grande falla tragica nella vita di entrambi i personaggi: Mina orfana di madre e con un padre assente, Jude con una madre con cui non riesce ad avere un rapporto sereno e un padre neanche nominato. Ma questa tanto agognata realizzazione familiare viene ben presto incrinata: la gestazione di Mina non è delle più convenzionali, anzi. Dal rifiutare di nutrirsi in modo appropriato per la formazione del feto, Mina passa all'ossessione di un'alimentazione 'purificatrice' non appena partorisce, convinta che suo figlio sia un bambino speciale, un bambino indaco appunto, del quale lei sola può e sa prendersi cura. Lei che da quel momento cessa di essere in coppia e si elegge proprietaria assoluta della creatura a cui ha dato vita. Una storia di possesso e di estromissione.
Questo il vero tema indagato dal film di Costanzo. Non certo la scelta di un'alimentazione vegana che è solo un pretesto, nonostante le polemiche che ne sono conseguite e che anzi sembrano nate più dalla paura di andare un po' più a fondo rispetto ad una posizione etico-alimentare.
La discussione rispetto all'imporre una scelta del genere ad un neonato chiaramente viene sollevata e senza dubbio costituisce un buon piano del film di Costanzo (che quantomeno solleva delle domande a riguardo di una questione poco scandagliata) ma chi scrive non sente di poterne vedere la base (e mi pongo in prima persona nell'asserire che è assurdo sentirsi offesi in quanto io stessa vegan crudista). Ciò che rende grande e universale Hungry Hearts è il desiderio di porre una lente di ingrandimento su come il passaggio alla genitorialità possa diventare facilmente una gabbia, un antro senza uscite di sicurezza in cui la coppia si sfalda, l'equilibrio personale si logora e l'amore si trasfigura in asfissiante ossessione. E questa è una realtà molto più comune di quanto si voglia ammettere, una condizione in cui la "fame" si sente anche da onnivori e la carne che manca è quella che nutre la comunicazione, l'introspezione e l'apertura verso un senso salutare del concetto 'famiglia'. La serratura si è bloccata... ancora una volta.

SIVAS Premio Speciale della Giuria Venezia 71
regia Kaan Mujdeci
con Okan Avci, Cakir, Ozan Celik, Ezgi Ergin, Banu Fotocan.

Sivas
Un villaggio in Anatolia, oggi. Aslan ha undici anni ma ha lo sguardo disilluso e indurito di chi ha visto già troppo. Un padre indifferente, un fratello maggiore anafettivo e una madre neanche menzionata,oltre al contesto rurale e arido non solo per la natura del paesaggio ma per l'ambiente emotivo circostante,fanno da plafond alla crescita di Aslan che nel giorno in cui ci viene presentato colleziona l'ultima delusione sotto gli occhi non curanti della sua amata Biancaneve: alla recita del villaggio gli viene affidato dal maestro il ruolo di uno dei sette nani mentre al suo rivale in amore le vesti del principe. A nulla valgono proteste e implorazioni . Ma ad Aslan spetta un'occasione ben più formativa, un incontro imprevisto in cui imparerà valori grandi come l'amicizia, la lotta, la cura e la fedeltà: durante un combattimento tra cani Aslan assiste alla sconfitta di un cane Sivas che creduto morto viene lasciato dal padrone sul campo di battaglia. Ma Aslan guarda oltre e vede in quel corpo inerme ancora una speranza. Passa la notte accanto al cane, lo accudisce e protegge dal freddo in un atto di estrema generosità e compassione, segnando così un patto di amicizia e fiducia che nulla ha che vedere con le edulcorate storie di fratellanza cani-bambini alla Lessie o Belle e Sébastien. Un rapporto vero che segna l'inizio di una ribellione interiore (citiamo l'emblematica scena in cui Aslan si spoglia davanti a tutti sul tetto della propria abitazione come atto di protesta e contestazione al tentativo del fratello di vendere quel cane conquistato da lui con amore e onestà) e l'entrata in un mondo adulto in cui preservare autenticità e purezza a dispetto di tutto.
Sivas è l'opera prima di Kaan Mujdeci, regista turco a cui viene assegnato il premio della giuria: il film racconta uno spaccato di vita tra violenza e sfruttamento, un contesto in cui essere bambini significa essere sopraffatti, ma a cui il regista mette un freno esponendo un film che per quanto immaturo per alcuni aspetti tecnici (camera a mano persistente in primis) e acerbo nello sviluppo, si fa notare per la forza con cui si vuole opporre al sentiero tracciato. Un film in cui non si può non riconoscere la straordinaria forza espressiva di un bambino costretto a lottare per non farsi corrompere e del suo cane che in questo universo adulto risulta essere l'unico vero maestro di vita.

THE CUT in concorso Venezia 71
regia Fatih Akin
con Tahar Rahim, Simon Abkarian, Makram Khoury, Hindi Zahra.

The cut

1915 un uomo sopravvive al genocidio armeno ma perde la sua famiglia, la voce, la fede e la speranza. Solo quando apprende che entrambe le sue figlie gemelle sono ancora vive ritrova il senso della sua vita scampata e la forza di agire. Comincia così un viaggio stremante tra Cuba e gli Stati Uniti per ricongiungersi a quelle doppia parte di sé persa nel mondo. Viaggio che gli permetterà di ricomporre i pezzi della sua integrità personale e religiosa e che culminerà con il ritrovamento anche della facoltà di parola.
Peccato che a questa storia lineare corrisponda anche un'estenuante linearità filmica, ritmica, visiva e dialogica. Un'operazione di imbarazzante ambizione che si rivela di una noia irritante: sfiorando il televisivo nulla in questo film risulta credibile, dalle torture ai lavori forzati, dai villaggi saccheggiati agli stupri ostentati, lo stesso Tahar Rahim che in altre occasioni ha dato prova di grandi capacità espressive qui sembra capitato per caso, inquietantemente monotematico, svuotato e ridotto a fantoccio in balia di ovvietà e banali "colpi di scena" che molto spesso sfociano in un ridicolo involontario. Salvo qualche istante in cui emergono toni di commedia (e che ci fanno rimpiagere amaramente La Sposa Turca e Soul Kitchen oltre al citato Monello di Chaplin che ci regala un vero respiro in questa stucchevole storia) The Cut è un film pretenzioso (il "cut" del titolo è quello che più volte abbiamo invocato durante i 138 minuti di odissea di un personaggio algido con cui non si è avuto modo neanche un momento di empatizzare, alla ricerca delle figlie di cui nulla sappiamo e di cui non abbiamo mai avuto tempo di affezionarci attraverso situazioni accennate e superficialmente ricostruite), un film che crea un disservizio rispetto al ricordo di una ferita storica come il genocidio armeno e che segna una dolorosa involuzione nel processo creativo di Akin.

LA TRATTATIVA
fuori concorso Venezia 71
di Sabina Guzzanti
con Sabina Guzzanti, Ninni Bruschetta, Maurizio Bologna, Enzo Lombardo, Sabino Civilleri, Filippo Luna, Franz Cantalupo, Michele Franco, Nicola Pannelli, Claudio Castrogiovanni, Sergio Pierattini

La trattativa
L'Italia e vent'anni della sua storia: l'uccisione di Salvo Lima,il maxi processo, la strage di Capaci, l'uccisione di Borsellino,le bombe a Roma, Milano, Firenze, la tentata strage all'Olimpico. E i protagonisti: Riina, Provenzano, Ciancimino padre, Ciancimino figlio, Caselli ( e conseguenti polemiche nate dopo la visione del film) Mori, Napolitano, mancino, Scalfaro, i pentiti, Spatuzza, Mutolo, Dell'Utri, Mangano e Berlusconi. In "La Trattativa" verbali, sentenze, testimonianze,atti vengono trasformati in racconto e ciò che non può essere mostrato attraverso documenti di repertorio, viene dichiaratamente messo "in scena" da attori di teatro e dalla stessa Guzzanti (che in questo film in realtà si ritaglia poco spazio, relegandosi ad un paio di apparizioni "berlusconiane").
Un gruppo di lavoratori dello spettacolo con estremo coraggio si mette in gioco e si presta a riempire con arte i buchi, le falle, le omissioni di una storia italiana ancora emorragica, un tentativo indiscutibilmente onesto di squarciare il velo di qualunquismo dello "Ma sì tanto Stato e mafia hanno sempre collaborato" facendo nomi e cognomi, date e luoghi, un'operazione di scavo profondo per riportare a galla tutte le questioni irrisolte e insabbiate che continuano ad infettare e incancrenire il nostro sistema, senza però rinunciare a momenti di grande ironia, mai irrispettosa o gratuita.In "La Trattativa" tutto è ben calibrato, originale nell'esposizione e chiaro nel suo svolgersi. E' un film che si pone come obbiettivo non la messa di un punto sulla questione o una rivelazione epifanica sull'argomento, ma una nuova, vera, apertura al dibattito rimettendo sul piatto nel modo più schietto possibile tutti gli elementi che sono emersi nel corso del ventennio passato e che qui e ora trovano spazio sgombro da interessi per essere finalmente illuminati in tutta la loro disarmante evidenza. Lunghi applausi hanno accolto la prima veneziana, ma anche commenti del tipo "tutte cose che si sanno"... commenti a cui sentiamo il bisogno di ribattere: certo tutte cose che si sanno, ma che di essere archiviate e stipate in un cassetto della memoria hanno ancora tempo, mentre ora è il momento che siano visibili, che ancora si mostrino nella loro agghiacciante crudezza e che ci permettano di continuare a parlare.

THE HUMBLING 

regia Barry Levinson 
con Al Pacino, Greta Gerwig, Kyra Sedwick, Nina Arianda, Charles Groding.

THE HUMBLING 
 regia Barry Levinson
3 minuti al 'chi è di scena'. 3 minuti prima di entrare in quel flusso di parole/azioni/emozioni inarrestabile, prima di donarsi totalmente allo scorrere del tempo presente che non lascia via di uscita a meno che l'autore non abbia decretato "esce" da qualche parte nel copione. 3 minuti infiniti in cui perdersi in ricordi, paure e angosce fino ad arrivare a non trovare più l'entrata... in un labirinto di sipari che inglobano, in un districarsi di corridoi che disorientano e si intorcinano e confondono la mente tanto da sentire la memoria delle battute annebiarsi, in uno scadere del tempo rimasto prima dell'inevitabile morte del "buco di scena", trovarsi, infine, ad un'entrata ben diversa: non quella della scena ma quella sfacciatamente reale del teatro dove più nessuno riconosce l'attore che già nelle vesti del personaggio, fagocitato da un ruolo sradicato dal suo contesto, diventa maschera grottesca di un essere senza nome... Simon Axler e il suo incubo. L'incubo di ogni attore prima del debutto. Incubo/incubatrice dell'annientante consapevolezza che nasce sul palco quando, poco dopo, si comprende di non essere ascoltati, di essere stati svuotati e di aver perso il senso di ciò che si sta declamando... le parole che diventano solo suono, le forze che abbandonano quel corpo che di grande non ha più nulla, ma è solo vecchio, spento, incapace di volare, di lasciar anche solo credere che lo possa fare e che, invece, miseramente, si schianta nella fossa dopo il proscenio, quasi a volersi seppellire e lasciar vivere il ricordo di ciò che è stato.Simon Axler e la sua ultima esibizione. The Humbling, ovvero l'umilazione.
Ma anche alla peggiore si sopravvive... resta solo da capire come... e Simon si ritrova nella sua maestosa casa, solo, dopo una breve degenza in un centro di recupero, collegato via skype con il suo psichiatra a contemplare la desolazione, il fallimento e la disillusione... fino al momento in cui la sua mente non corre ai ripari e gli propone una realtà alternativa, surreale, costellata dalle apparizioni di Pegeen, la figlia lesbica dei vicini da sempre innamorata di lui, la sua fidanzata che nel frattempo ha cambiato sesso, i genitori di lei esasperati da qualunque cosa e Sybil, l'assillante ex paziente del centro che vorrebbe Simon come sicario di suo marito...
Trasposizione dell'omonimo romanzo di Philip Roth, il The Humbling di Levinson prende vita propria, deludendo i lettori dell'originale e virando su un amaro grottesco che ai nostri occhi risulta decisamente interessante. A parte qualche rallentamento, The Humbling offre uno sguardo metacinematografico innegabile, fondendosi con la carne prestata al personaggio di Simon da uno straordinario Al Pacino, sofferente, spiazzato e spiazzante, in perenne equilibrio tra il reale e il visionario, da molti tacciato di gigionismo, ma dal nostro punto di vista costantemente in parte. Un anziano leone in bilico tra l'ossequioso rispetto e il triste ridicolizzarsi fino all'epilogo quando, di nuovo sul suo palcoscenico, gioca con la vita e la morte di un Re Lear che lascia senza fiato, incide un mezzo sorriso e un punto interrogativo sui volti di tutto il pubblico diegetico e non, fino ad accogliere il meritato applauso di chi, in lacrime, si è lasciato trafiggere veramente dall'affilato bisogno di vita di un uomo al tramonto, di un uomo che segna la sua fine. E (muore).

THE LOOK OF SILENCE
di Joshua Oppenheimer con Adi Rukum

THE LOOK OF SILENCE di Joshua Oppenheimer con Adi Rukum
Indonesia 1965/1966. Un lasso di tempo relativamente breve ma intriso di una tale atrocità da incidersi per sempre nella memoria di chi lo ha vissuto e di chi, grazie a questo stupefacente documento, lo sta guardando. Uno sguardo nitido, che cerca di correggere le falle dei ricordi, di restituire una visione netta e particolareggiata di chi in quello sterminio "anticomunista" ha avuto ruolo di carnefice, testimone, o parente di uno del milione di vittime.
"Ricordi tuo figlio morto?" la voce della madre di Adi sullo schermo nero, lo strazio di quella domanda posta al marito, a quel padre quasi centenario, ormai cieco, prigioniero di un buio in cui non si trova risposta. Una domanda a cui però è Adi a prestare ascolto e ad adoperarsi per ripondere, restituendo al fratello torturato e ucciso in quel genocidio la vita nel ricordo.
Adi nasce due anni dopo la morte del fratello, non lo ha mai conosciuto, ma ha sempre sentito parlare della sua morte dalla donna che ha partorito entrambi, quella madre che non riesce più a sorridere, costretta a salutare i carnefici di suo figlio che ancora comandano e vivono indisturbati nel villaggio.Adi è un padre, vende occhiali correttivi ed è il protagonista di questo secondo atto di Joshua Oppenheimer, che dopo The Act of Killing, rimette in luce la stessa strage ma da un punto di vista estremamente differente. Qui Oppenheimer mette in campo un uomo che cerca di ricostruire la morte del fratello attraverso le parole di chi lo ha massacrato e i silenzi di chi lo ha amato, un uomo che tenta di restituire la visione di quei momenti di aberrante inumanità attraverso le lenti pulite del bisogno di verità, un uomo che spera di trovare anche solo l'ombra di un pentimento per poterla osservare e mettere a fuoco. Ma ciò che ottiene è solo silenzio, sguardi che sfuggono e maschere grottesche di assassini che si eleggono ad eroi. In uno spossante clima di omertà, mistificazione, macabro compiacimento e intollerabile impunità Adi si muove coraggiosamente accompagnato da una troupe di anonimi che vediamo scorrere ai titoli di coda, a segnare ancora una volta quanto il rischio per la propria incolumità sia concreto e paralizzante. The Look of silence è una dilaniante testimonianza, una ricostruzione che ci permette di vedere come il "sistema" forgi delle menti distorte da poter usare a piacimento: ci viene mostrata infatti anche una scena in cui i figli di Adi assistono ad una lezione a scuola, un vero e proprio lavaggio del cervello in cui quasi a mantra viene ripetuto quanti i comunisti siano orribili, quanto sia necessario eliminarli, quanto non ci si debba sentire colpevoli nel farlo. amen.
Un credo inculcato in coscienze non ancora formate e di cui seguiamo il corrispettivo adulto, che macchiatosi delle più inconcepibili atrocità, afferma di non essere impazzito nell'eseguire gli ordini bevendo il sangue delle proprie vittime come purga per l'anima. Sangue che ancora pulsa vivo in corpi non umani, nelle vene di quei carnefici che con un sorriso beffardo si riempiono la bocca delle loro gesta oscene, in quegli esseri in cui ogni spettatore di The Look of Silence ha sperato almeno un istante di cogliere il rimorso, di vedere anche solo per un attimo la vergogna ma a cui è corrisposto un lungo interminabile silenzio.
The Look of Silence è una di quelle operazioni su cui esprimere un giudizio sarebbe davvero mortificante, un'opera compiuta con una tale onestà, lucidità e attenzione che non può non essere vista con disarmante rispetto e con sincera gratitudine verso chi ha partecipato alla realizzazione esponendosi al rischio e superando una svilente logica del terrore.

Ultima modifica il Venerdì, 26 Settembre 2014 10:31

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