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ANDRIA - "Castel dei Mondi" 2014 di Margherita Lamesta

Simone Cristicchi. Simone Cristicchi.

I fantasmi senza pace di Cristicchi
Magazzino 18 di Simone Cristicchi, regia Antonio Calenda – Andria "Castel dei Mondi" 22 Agosto 2014

All'Anteprima della diciottesima edizione del festival Castel dei Mondi, ad Andria, Cristicchi con Magazzino 18 alza il sipario su una pagina di storia oscura, controversa e dimenticata per decenni dai manuali scolastici: l'eccidio delle Foibe e l'Esodo degli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia, che assieme alla Venezia Giulia erano stati l'ultimo baluardo del dominio austro-ungarico ceduto all'Italia solo pochi decenni prima.
Intento molto nobile, quello del raffinato showman e cantautore romano, vincitore sanremese di pochi anni fa con un argomento scomodo, antifestivaliero: il disagio mentale.
Eppure, in un clima storico buonista e conciliatorio, il nostro, stile "né destra né sinistra" di Celentano, non è facile far completamente luce su quei fatti storici legati a zone dai confini contesi, poco definiti per secoli e responsabili della loro identità culturale e linguistica. Cristicchi ha, tuttavia, avuto il merito di zoomare sul bisogno di riportare in auge il valore della dignità umana e il rispetto per la vita, con un'operazione teatrale originale, dal ritmo bilanciato tra le variegate parti liriche e leggere, recitate e cantate.
Fra il '43 e il '45 le truppe comuniste del generale Tito gettarono nelle Foibe - una sorta d'inghiottoi carsici a forma d'imbuto rovesciato tipici della Dalmazia e della Venezia Giulia – decine di migliaia di "italiani brava gente" identificati sommariamente con il marchio di fascisti. Non va tuttavia dimenticato che fu proprio il fascismo nel suo disegno espansionistico a delineare l'inequivocabile binomio italiano=fascista, favorendo nella mentalità di quelle terre conquistate una visione demoniaca dell'italiano, contestualizzata storicamente all'interno di una politica repressiva e carica di soprusi ai danni delle minoranze etniche e linguistiche di quella parte di mondo. Inoltre, sulla scia dell'Ottobre russo, nei decenni successivi, il disegno sociale dei Soviet si espanse oltre confine e Tito stesso fu al fianco delle frange partigiane italiane nell'opera di liberazione dal regime fascista, prima di costruire a sua volta un proprio disegno espansionistico che voleva spostare con ogni mezzo il confine Jugoslavo fino al fiume Isonzo, ripulendo etnicamente le zone attraversate.
Cristicchi, diretto dalla mano di un vero maestro del teatro, quale è Antonio Calenda, nel suo istrionico "Musical-Civile" assume i panni di un esule da Pola, un bimbo di un campo profughi, una donna che scelse di non partire, un monfalconese che decise di andare in Jugoslavia, un prigioniero del lager comunista di Goli Otok; tutti personaggi legati dal File Rouge di una specie di Virgilio dantesco, goffo e divertente. Persichetti, infatti, è un impiegatuccio ministeriale amante della tranquillità e al limite dell'ignoranza, mandato a Trieste per archiviare gli oggetti lasciati dagli esuli in un immaginario magazzino 18 del Porto Vecchio.
Pian piano lo spettacolo riporta in vita quei fantasmi d'italiani epurati e gettati nelle foibe o fuggiti, tra il '46-'47 e il '54 - in tempo di pace - sradicati dalla loro Terra e mai al sicuro; guardati con sospetto sia nei territori di dominio comunista da cui scappavano, sia da quelli italiani d'accoglienza, ostili al pari dei titini slavi, in tempi d'influenza politica post-partigiana, e costretti a una vita da esuli per lunghi periodi in disumani campi profughi.

L'identità linguistica e culturale di quei luoghi effettivamente è stata ed è dura da decifrare con il suo alternarsi di clima rovente, fatto di vendette e conseguenti contro-vendette dannose per una convivenza pacifica tra le varie etnie ma Cristicchi ci parla di un'offesa che non debba cedere al rancore e con un'operazione teatrale dal sapore bipartisan ci induce a non dimenticare.
Degni di nota sono sia le parti musicali inedite scritte dallo stesso Cristicchi – fra cui si distingue maggiormente il singolo "Dentro la buca" cantato con una postura teatralmente efficace: un specie di Mosè che guida l'esodo biblico del suo popolo in compagnia solo del suo bastone – sia la polivalenza con cui l'artista affronta i passaggi da un personaggio all'altro, per lo più raccontati in una sorta di lunga lezione di storia carica di anima. Nonostante una strana gestione rigida della propria fisicità - che l'artista peraltro possiede imponente e dalle potenzialità plastiche certamente maggiori - Cristicchi ha conquistato applausi a scena aperta, a differenza della fredda accoglienza che le stesse comunità di esodati gli avevano riservato in altre città, a riprova di una pagina storica densissima di controversie.
In verità, il cammino verso la tolleranza è lungo quanto la storia dell'Uomo e la sua realizzazione è costantemente minata da quel Mister Hide insito in ognuno di noi, che di tanto in tanto fa la sua disastrosa comparsa nella Storia, dando origine a mostri mutanti nel nome, nel volto, nel colore ma sempre nemici della Bellezza e della Poesia, quindi dell'Uomo stesso, così come aveva denunciato Pirandello nella sua celebre incompiuta, I Giganti della Montagna, magistralmente portata in scena da un indimenticabile Giorgio Strehler, vent'anni fa.

Please continue Shakespeare
Please continue (Hamlet) di R. Bernat e Y. Duyvendak e Riccardo III di Michele Sinisi (Fuori programma)
Andria Festival Castel dei Mondi 2014

"Please continue (Hamlet)" di R. Bernat e Y. Duyvendak
Un Amleto portato in tribunale da Ofelia per l'omicidio del proprio padre in Please, contiue (Hamlet) e un Riccardo III rappresentato, nell'omonimo atto unico, come un infido terrorista jihadista, incapace di amare se non in un sogno irraggiungibile, personificato in Marylin, la diva delle dive, archetipo emblematico di sensualità: sono queste le due operazioni di ricerca e di destrutturazione di due personaggi mitici operate dagli autori Yan Duyvendak e Roger Bernat sull'Amleto e dall'autore-regista-interprete Michele Sinisi su Riccardo III, per la kermesse teatrale andriese che quest'anno compie il suo diciottesimo compleanno. Il tutto per farci toccare l'essenza viva di certe pagine scritte più di quattro secoli fa, con effetti che riguardano profondamente il mondo che viviamo.
Il processo ad Amleto è già stato portato in giro per il mondo quasi un centinaio di volte dai due autori e dalle statistiche è emerso che le sue responsabilità sull'omicidio di Polonio secondo l'opinione pubblica risultano di natura dolosa; una convinzione di preterintenzionalità che non ci si aspetterebbe ai danni di quel personaggio positivo, icona di purezza quale Amleto si pensa sia, almeno secondo quanto impresso nell'immaginario di tutti in relazione al testo originario. Eppure su novanta processi, in 41 l'hanno assolto ma per il resto delle volte è stato condannato alla reclusione fino a un massimo di 12 anni e anche qui ad Andria, al Castel dei Mondi, gli è stata inferta una pena ma di soli due anni di carcere.
Affascinante l'operazione di trasformazione della location (sala Consiliare del Palazzo di Città) in una Corte d'Assise in piena regola di fronte a un Giudice del Tribunale di Trani e a importanti professionisti dell'attività forense. Tutti nella loro veste professionale, tutti chiamati a svolgere quel che quotidianamente fanno senza viziare di finzione le loro parole, andando a braccio, attenendosi ai soli fatti preliminari e interagendo con i tre attori, anch'essi chiamati all'improvvisazione nel rispondere alle domande di veri maestri del Foro.
Difficile dire se più bravi gli avvocati, o il giudice o gli attori professionisti, quel che è certo è che l'amalgama tra realtà e finzione è stata singolare e fra tutte l'arringa dell'avvocato difensore, Mario Malcangi, ci ha vagamente riportato indietro al personaggio dell'avvocato interpretato da Charles Laughton nello splendido Witness for the persecution del '57.
Ai tre attori – con una predilezione personale per l'interpretazione di Gertrude-Francesca Mazza - va il merito di aver trasmesso nella pelle di chi non "frequenta" Shakespeare in modo per così dire disinvolto, qual è il vero portato psicologico di questi personaggi mitici, quanto hanno ancora da raccontare al giorno d'oggi, essendo possibile con essi non una semplice contestualizzazione moderna posticcia ma una vera e propria presa di possesso della nostra realtà odierna in modo assolutamente naturale.
Gertrude è una madre, vedova, legata a un nuovo compagno, alle prese con un figlio problematico che odia il patrigno e Polonio un padre invadente che soggiogava la vita di sua figlia, ostacolando lo sviluppo della sua personalità, ma non per questo meritevole di morte, laddove i due ragazzi risultano incredibilmente fragili. Quel che non è potuto emergere - e in un lavoro d'improvvisazione è certamente difficile - è quell'aria da ragazzi di vita, d'eco pasoliniana, che dai tre personaggi chiamati in causa ci si sarebbe aspettata. In effetti, la sinossi dello spettacolo, d'ambientazione attuale, e le stesse parole dei protagonisti atte a ricostruire i fatti non fanno mistero della facilità d'uso delle armi in certi ceti sociali degradati, in cui non è difficile trovare fedine penali già macchiate prima dei fatti imputati, come nel caso di Gertrude.

Riccardo III di Michele Sinisi
Di Michele Sinisi, invece, non si può tacere la sua operazione artistica opposta, compiuta cioè per sottrazione, in modo da far spazio all'allusione e a un simbolismo fortemente visivo. Dall'esaltazione della parola che un tribunale non solo offre ma custodisce, perpetra e può addirittura esasperare fino al parossismo - facendo un insolito omaggio proprio al "teatro di parola" di cui Shakespeare è tra i massimi esponenti - si è passati alla parola gridata, spesso monosillabica, dai suoni asciutti e scarni tipici della lingua inglese, quasi estorta dall'anima e dal corpo, per vomitarla con costipati singhiozzi su una lamiera metallica, fredda e sporca. Stencil rubati alla street art e al mondo militare, bombolette spray, isolanti headphones allusivi e un pennarello rosso, puzzolente, grondante colore-sangue - usato per alternare immagini simboliche esplicative della parola a parole simboliche esplicative di un'immagine - ecco gli elementi messi in scena. Tutto per scardinare nell'anima il mito, colpendolo a morte, mordendolo e sputando i suoi umori dentro quel grido di disperazione che un personaggio come Riccardo III, deforme, malvagio e disadattato porta costantemente con sé, per restituirlo a noi come parte integrante della nostra anima.
Performance originale e interessante quella dell'apprezzato artista andriese, su un testo scritto a quattro mani insieme con Francesco Asselta, che ha trascinato lo spettatore dentro le macerie di un mondo senza eroi, dominato da malvagità, intrigo, deformità e disarmonia, in cui tutti siamo chiamati a compiere un salto mortale senza rete di salvataggio. Per fortuna Sinisi apre sul finale con uno sguardo in avanti. C'è anche l'umiltà nei confronti del mito, nel farci ascoltare il celebre monologo shakespeariano recitato in inglese da un attore di madrelingua, Peter Speedwall, a voler simbolicamente affermare quanto la ricerca in arte e nella vita debba essere continua e aperta ad ampio spettro e l'ambizione sempre più spostata in avanti, secondo un processo di raffinamento artistico man mano più capillare e sofisticato, che non si accontenti ma tenda sempre verso la perfezione.
È beffardo, tuttavia, come la ricerca accomuni scienze e arti - per quanto separate sul piano ontologico - e sia vitale per entrambi gli ambiti ma nello sguardo in avanti necessario alla nascita di nuovi linguaggi - o di nuove soluzioni scientifiche - non va dimenticata la matrice originaria per mantenere vivi e prolifici i talenti. Attraverso una sintesi, che non sia mutilante ma accogliente, ci si augura di riuscire a fondere insieme tradizione e innovazione, compiendo nuovi step in avanti che possano portare novità senza tradire i miti ma traducendoli in modo sempre più originale ed efficace, mantenendo centrale l'obiettivo di imprimere una riflessione profonda nello spettatore a seconda del contesto storico-culturale in cui si opera.

La verità dell'amore a costo della vita
"Homicide House" di Emanuele Aldovrandi, regia Marco Macceri – Andria "Festival Castel dei Mondi" 2014

Homicide-house
Homicide House di Emanuele Aldovrandi, Premio Tondelli 2013, è passato in rassegna al Castel dei Mondi, il 26 Agosto, in prima nazionale, con la regia di Marco Macceri, in scena nel ruolo protagonista.
Un agile raccordo tra monologhi speculativi e dialoghi serrati e vibranti caratterizza il testo del giovanissimo autore. Aldovrandi e Tarantino - anche lui presente al festival con una sua opera, Namur - al convegno sulla drammaturgia tenuto all'interno della kermesse teatrale andriese, hanno parlato di audacia e autonomia della parola come caratteristiche esclusive del linguaggio teatrale. In effetti, è sempre più urgente la necessità d'espressione autonoma della parola e la scrittura drammaturgica è capace di racchiudere nella parola non un solo concetto ma un mondo intero - via via più ricco di contenuti per il crescente accumulo dell'esperienza empirica - il quale si disvela sulla scena, per mano di un artista che "agisca la parola" con palpito vivo, presagendo un nuovo ribaltamento del "teatro di regia" nel più antico "teatro d'attore".
Nella scrittura teatrale di Aldovrandi un gioco esistenziale, viziato di follia e codardia, è in bilico tra l'autenticità bisognosa di respiro e la sua inettitudine a liberarsi del proprio nascondiglio dentro bugia e artificio - di comodo per quieto vivere o inconsapevole per abitudine o necessario per il bisogno di appartenenza a un gruppo – e si esprime con sinistri sillogismi, che portano fino alle estreme conseguenze.
Eppure, nonostante le premesse e la firma a latere di Gabriele Vacis per la regia, la messa in scena, pur confezionata con mestiere, non decolla e non emergono appieno le enormi differenze psicologiche che caratterizzano i quattro personaggi, facendoli scivolare gli uni negli altri e restituendo allo spettatore una linea di demarcazione un po' sbiadita.
Sebbene Ozdogan sia cresciuta in termini di padronanza della dizione italiana e si muova abbastanza bene nei panni di una sanguinaria dark lady post-litteram, la lucida follia del suo personaggio, forse, avrebbe richiesto un gioco scenico dal vigore più monolitico, in alcuni momenti cruciali.
Resta, comunque, il merito di Macceri di aver portato alla ribalta un testo di sicuro pregio teatrale, che tutela e promulga la centralità della parola, a volte senz'anima e a scapito della stessa resa attoriale, altre volte messa in cantina come fosse un inutile monile e altre ancora relegata al solo servizio pretestuoso dell'ego di chi non ha niente da dire.

Ultima modifica il Domenica, 31 Agosto 2014 05:47

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