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Biennale Teatro Venezia 2013: El año de Ricardo - regia Angélica Liddell

El año de Ricardo El año de Ricardo Regia Angélica Liddell

Regia, scene, costumi e testo: Angélica Liddell
con: Angélica Liddell, Gumersindo Puche
luci: Carlos Marquerie, tecnico del suono: Antonio Navarro, tecnico luci: Octavio Gòmez
stage manager: Africa Rodrìguez, direzione tecnica: Marc Bartolò, aiutante di produzione: Mamen Adeva
produzione esecutiva: Gumersindo Puche, produzione: Atra Bilis Teatro, Iaquinandi SL
con il supporto di: Governo Regionale di Madrid e dell'Inaem del Ministero della Cultura Spagnolo
con il sostegno di: AECID e dell'Ambasciata di Spagna

Spalancando la bocca davanti a uno specchio, vedo solo una grande cavità nera. Non saprei dire dove finisca, né cosa si nasconda tra le pieghe di quell'oscurità che solo esteriormente mi ricorda la pelle.
Il palato, la porosità della lingua, i denti, non tutti perfettamente sani, non sempre, e la somma di tutte le sue sporgenze, sono irregolari e rugose come le pareti delle grotte di Postumia.
Scopro così che il mio corpo è una cavità: scavata, ripiegata, collassata. Il grande androne di un condominio evacuato. Scopro, allo stesso modo, che dentro non conteniamo luce, non siamo rischiarabili, non godiamo di un numero adeguato di aperture e che anche qualora ce le procurassimo, il centro non gioverebbe di questa profusione.
Così come il paravento dorato alle spalle di Angélica Liddell, in una scena del suo El año de Ricardo non illumina ma rifrange, non espande ma frammenta. Non delinea la sagoma ma la restituisce in controluce.
Il suo Riccardo è un'eclisse, l'uomo che oscura se stesso, il conflitto tra due contrasti che si sovrappongono e che consegnano il vento freddo di un deserto notturno.
L'operazione che la Liddell intraprende, sull'opera del Riccardo III di Shakespeare, è radicale. Sradicato a piene mani dal terreno storico tradizionale, Riccardo è sbattuto, senza misericordia, sul palco come la nudità urlante di una radice di Mandragora. Non c'è riparo nemmeno per l'autrice, sempre attrice, sempre regista: una sorta di Lucifero tirato dai piedi, che a colpi di reni rincorre le pendenze per un disperato slancio vero la volta celeste. Sembra rifarsi alla filosofia del corpo di Jean Luc Nancy, acefalo e afallico, senza capo né coda, inintelligente e impotente, a scuotersi come una biscia mossa dalla sola brama di mordere le caviglie.
La Liddle trascina a terra l'essere umano, gratta via ogni crosta di perbenismo, tramuta la paradisiaca salvezza in un orizzonte cieco e fa della vita terrestre un inferno, sottile come un bicchiere di cristallo.
L'uomo sempre frontale davanti alla consapevolezza della sua sparizione, davanti alla hybris per un potere anarchico, proprio, a immagine divina, schiavo in catene, sempre, della sua vigile mortalità e della maledizione del suo vivere sociale; costretto, pressato, censurato, condannato, giudicato tanto dagli altri quanto da se stesso. Innominabile e irriferibile, la Liddell sembra volerci gridare l'insufficienza della parola, la crisi del definirsi, il paradosso tra significato e significante, la stridente antinomia tra concettualizzare e vivere.
Ed è così che Riccardo III emerge a paradigma ed emblema della colpevolezza di atroci delitti; mutaforma nei panni di un dittatore qualsiasi, troppo piccolo per non sentirci rispecchiati in lui, troppo meschino per non riconoscerne i miserevoli comportamenti, schiacciato dalle ombre danzanti delle proprie ossessioni appese a un filo come le icone di una chiesa ortodossa. Siamo noi, alle prese con una natura che ci sopraffà, che proviene da quel nero pece che scopriamo a bocca aperta, in apnea, pronti a un'emissione di fiato che somigli sempre più alla richiesta di un perdono.
Ce ne parla la Liddell servendosi di un uso tracimante della sua drammaturgia poetica, a cavallo tra insostenibile cattiveria e sottilissima ironia; costringendoci a rincorrere il testo quasi non potesse abitare, solamente, nell'orifizio orale, ma provando a vomitarlo, per innestarselo sotto pelle o lasciarlo moribondo ai piedi della platea; inebriando il corpo a colpi di birra, esaltandolo nell'oscenità del suo essere ricettacolo di scarti e scorie; e piegandolo, sottomettendolo a non respirare, a sussurrare flebili suoni ai limiti dell'udibile per permettere a quelle corde bassissime di vibrare come l'eco di un sasso lanciato in fondo a un pozzo.
In questa sovraffollata solitudine, rimane Catesby (Gumersindo Puche), sorta di servile coscienza scenica, contenitore muto a cui Riccardo ha strappato la lingua, sottraendogli, come a noi, la capacità di ogni possibile risposta consolatoria.

Andrea Pizzalis

Ultima modifica il Domenica, 18 Agosto 2013 23:10

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