Una Carmen fuori dai cliché
Il maggiore e più e sorprendente successo del festival è toccato a Serena Sinigaglia con la sua nuova interpretazione di Carmen. Sorprendente perché la regista, prima del festival, aveva concesso delle improbabili interviste, improntate a un tardo anticapitalismo e antifemminismo.
C'era da aspettarsi il peggio, ma è accaduto il meglio.
Fin dall'inizio il pubblico è stato catturato da una scenografia intelligente e rispettosa del luogo: Maria Spazzi ha lasciato così com'era l'originale peculiarità dello Sferisterio: un muro di mattoni di cento metri; limitandosi a praticarvi un piccolo foro dal quale, l'uno dopo l'altro, uscivano gli zingari.
Il palcoscenico era coperto di una sabbia dello stesso colore dei mattoni; delle transenne diventavano successivamente un bar o una gola rocciosa: un'installazione che evocava, con semplici espedienti, il carattere desertico del Sud della Spagna, la povertà, la calura. Travolgente.
Non meno fantastico è apparso stato l'intervento della coreografa, che evidentemente aveva lavorato col coro e con le comparse in modo così personalizzato, che tutti sembravano davvero sapere cosa fare, e lo facevano con piacere e convinzione.
Ma tutti i protagonisti sono stati bravi: Veronica Simeoni (Carmen), una capobanda, simile a una George Sand in abito nero; Roberto Aronica (Don José), un bambinone sballottato da una parte all'altra; Gezim Myshketa (Escamillo), non solo un brillante ammazza-tori; Alessandra Marianelli (Micaela), fortunatamente non una caricatura, ma una tosta pupa cattolica. E cantano in modo sublime, diretti da Dominique Trottein, per nulla sedotto da tentazioni populiste.
Ma ciò che rende unica questa edizione (quantomeno nella presente stagione di festival estivi) non sono solo le scenografie, la coreografia, i cantanti e la felici idee di regia (Carmen, per esempio, adopera due bottiglie di birra a mo' di nacchere; Don Josè la incatena durante l'Aria del fiore, suggerendo l'immagine della prigione); è il fatto che ogni idea, ogni gesto, ogni passo, ogni entrata, ogni azione, sono stati sviluppati e realizzati seguendo il senso della musica, il suo ritmo, il suo carattere.
Pensando alla sordità mentale della maggior parte dei registi nostri giorni, era come scoprire un quintifoglio, o un elefante bianco.
Una Carmen che non si vedeva da tempo. Una Carmen fuori dai cliché folcloristici, pur utilizzando tutti gli elementi della tradizione locale (ventagli, corrida, zingari). Una Carmen che ha le carte in regola per diventare un classico moderno (e che, a quanto dicono, è costata solo 50.000 euro)
di Robert Quitta, da Der neue Merker
(Redazione italiana a cura di Deborah Schnabel e Claudio Facchinelli)