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X Edizione CORTILE TEATRO FESTIVAL, MESSINA - "La vita ha un dente d’oro", regia Claudio Morganti. -di Gigi Giacobbe

La vita ha un dente d’oro
di Rita Frongia
Regia di Claudio Morganti
Interpreti: Francesco Pennachia e Gianluca Statur
Con il sostegno di Regione Toscana/Teatro Moderno di Agliana
X Edizione Cortile Teatro Festival - Messina
Cortile Calapaj- D’Alcontres 19-20 luglio 2021

La vita ha un dente d’oro, titolo della pièce di Rita Frongia andata in scena nel Cortile Calapaj-D’alcontres all’interno del X Cortile Teatro Festival diretto da Roberto Bonaventura, con la regia metafisica di Claudio Morganti, sembra una frase criptica quasi senza senso, come può essere quella di Magritte Questa non è una pipa alludendo all’immagine della pipa che è solo disegnata, non reale, o a quell’altra attribuita a Beckett che suona grossomodo come colui che sdoppiandosi si vide alzarsi e andarsene. Certamente il titolo dell’inizio, leggo nelle note della Frongia, “è un’antica espressione bulgara che non trova corrispondenza idiomatica nella nostra lingua... oggi non è più in uso, ma pare venisse utilizzata per alludere al fatto che in tutto ciò che è vero c’è sempre un artifizio, una menzogna…”. Appunto, come può essere una bocca sana con un elemento cariato, per cui si rende necessario rimpicciolirlo e incapsularlo con dell’oro (oggi lo si fa con la porcellana), insomma mettere una pezza, cercare di far funzionare una bocca nel modo più normale. Esattamente come accade nella vita in cui non tutto va come tu vuoi e ciò vedi non è quello che è, facendoti fantasticare e volare in nuovi mondi. Prendi come esempio questo spettacolo minimalista della Frongia in cui due poveri cristi seduti attorno ad un tavolo con un solo bicchierino e una bottiglia non piena di vodka, discutono di cose sensate e assurde toccando i massimi sistemi: lui è Gianluca Stetur, dagli accenti milanesi con la testa fasciata, senza sapere per un’ora come si sia ferito: l’altro è Francesco Pennacchia originario della Puglia di Altamura, calvo con maglietta rossa. All’inizio si esprimono in un grammelot pugliese-ucraino e vengono quasi alle mani per il modo come concludono una specie di solitario. Per un momento sembrano la morte e il cavaliere de Il settimo sigillo di Begman, solo che qui i due non giocano a scacchi ma a carte. Pensiero affatto peregrino perché Pennacchia sembra davvero impersonare la morte esclamando ad un tratto che “sarà difficile abituarsi a non essere più”. Scorrono ricordi familiari sfocati di una madre più o meno canterina, parlano come se la loro faccia insegue le parole, versando Pennacchia gocce di liquido (poi sino all’orlo) che Stetur beve avidamente. I respiri, le risate, il cielo stellato, una frase di Eliot (l’universo finirà in un bisbiglio) le ubriacature, gli stereotipi, fanno parte d’uno spettacolo applaudito con due ottimi interpreti, che ci conduce ad una sorta di “Teatro dell’assurdo” dove non termina il sentimento del tempo di Beckett e si respirano aure rinvenibili in Pinget o in Mrozek e trova spunti notevoli in quel senso di bellezza (anche se amara) raffigurato dall’emblematico Quadrato nero di Malevic dove il gesto supera l’opera, chiudendo lo spettacolo Pennacchia che fa uscire da una chitarra elettrica suoni dirompenti d’una realtà che è un dente d’oro.

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Venerdì, 23 Luglio 2021 04:30

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