giovedì, 28 marzo, 2024
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Warlikowski e l’insostenibile leggerezza della morte. Il regista polacco premiato alla BIENNALE 2021 con il LEONE D'ORO. -di Nicola Arrigoni

Che cos’è il teatro? A questa domanda Krzysztof Warlikowski, Leone d’oro alla Biennale 2021, ha risposto: «Non lo sappiamo esattamente, così come non sappiamo cosa succeda in scena, tutto è possibile in teatro, come nella vita. Il teatro è il luogo meno definito della vita, eppure è uno luogo dove possiamo capire il mondo. L’umanità è malata senza teatro». Bastano queste parole per comprendere come il Leone d’oro a Warlikowski sia un Leone d’oro alla forza urticante, scorticante non solo del teatro del regista polacco – come ha sottolineato Andrea Porcheddu nella conduzione dell’incontro dopo la premiazione-, ma soprattutto rappresenti un segno poetico e politico nei confronti del teatro in questa delicata fase di ripartenza post-pandemica. Il regista polacco ha ricevuto il prestigioso riconoscimento della Biennale dove ha presentato, We are Leaving, rivisitazione di Suitcase Packers, storia di una comunità e di otto funerali, dell’autore l’israeliano Hanoch Levin. «Questo premio non è un premio alla carriera, ma è un invito a continuare a fare teatro, a dare schifo agli spettatori, a promuovere il fare spettacolo, che è un lavoro per chi lo fa e per chi vi assiste, non è un semplice intrattenimento», ha detto il regista. La premiazione nella grande sala delle colonne di palazzo Giustinian che affaccia sul bacino di San Marco è stata aperta dal presidente della Biennale, Roberto Cicutto che ha ringraziato i due curatori della rassegna Stefano Ricci e Gianni Forte per il lavoro fatto e le segnalazioni dei Leoni per l 49me edizione, oltre a Krzysztof Warlikowski, la Biennale premierà nei prossimi giorni Kate Tempest con Leone d’argento.

L’apertura con Warlikowski ben rende l’obiettivo dei due curatori: pirandellianamente sfondare il fondale di carta e dimostrare con forza la potenza reale del teatro nel suo compiersi. E allora Warlikowski non può che partire dal Covid, dalla situazione pandemica che ha caratterizzato l’intero pianeta e raccontare come: «questo premio arrivi in un momento speciale per il nostro teatro – e in un momento senza precedenti per il teatro in generale – ha raccontato -. Qualche settimana fa, abbiamo presentato in anteprima la nostra produzione di The Odyssey. Purtroppo, il membro più anziano della nostra compagnia, Zygmunt Malanowicz, che era stato scelto per il ruolo di Ulisse, è morto di Covid prima della serata di apertura. Zygmunt, questo premio va anche a te». La morte rimossa è ritornata ad essere percepita come parte della vita con l’avvento del Covid-19, la morte ha fatto irruzione nella dittatura di un eterno presente a cui siamo tutti condannati; è la morte che chiede il conto e si fa bella per capire come viva la comunità dei viventi, salvo poi essere spettatrice e motore primo della distruzione di quella comunità in cui vorrebbe vivere, che detto della morte ha qualcosa di assurdo. Di tutto questo tiene conto non solo lo spettacolo We are Leaving, ma la stessa concezione del teatro del regista polacco.

biennale 21 02

Ed è paradossalmente in questo che il teatro in generale – e quello di Warlikowski in particolare – appare potente: «Mi sono chiesto cos'altro è ‘morto di Covid’: quanto abbiamo perso irrimediabilmente. Per prima cosa, il regno della memoria sta diventando sempre meno accessibile per noi – ha detto nel discorso di ringraziamento per il Leone -. Viviamo solo nel presente; e più siamo giovani, più ci immergiamo in una versione virtuale di quel presente. Non è solo che le cose stanno diventando irreali al giorno d'oggi. Sembra che ci importi meno anche del passato, di tutte le cose che hanno plasmato la nostra cultura, i nostri pensieri, i nostri traumi e i nostri sogni. Dimentichiamo quanto fosse importante un tempo cercare le cose che non si vedono e provare a registrare i brevi scorci che ci sono stati dati – imperfettamente, forse, ma credendo che sia assolutamente necessario farlo. Tuttavia, se ci isoliamo dalla nostra memoria, non saremo più in grado di comprendere il mondo in cui viviamo, che diventerà un insieme casuale di eventi, costrutti, opere e sensazioni caotiche. Sarai cosa hai vissuto?».
Il teatro, il luogo meno definito della vita
La memoria, il senso di comunità – temi presenti nello spettacolo presentato in Biennale -, ma anche la responsabilità di fare e concepire il teatro sono aspetti da cui il regista non può prescindere. Alla richiesta di come costruisce il suo teatro, come sceglie i testi, Warlikowski ha accennato all’insufficienza dei testi, anche nei grandissimi: «Tu leggi Shakespeare, ma poi vederlo è un’altra cosa. Ariel, Caliban, lo spettro di Amleto sono presenze che leggi, ma poi come vivono sulla scena? ti chiedi come fare – ha raccontato il regista polacco -. Esattamente come nella vita, provi a capire quello che sta accadendo, ma alla fine accade qualcosa, succede qualcosa che forse era nella tua testa, ad un certo punto si rivela in tutta la sua vitalità e realtà. Per questo il teatro è spettacolo, deve essere qualcosa che ci provoca, che ci disturba, che può aiutarci ad andare in luoghi e tempi con non avremmo mai osato frequentare». Da qui la necessità di sovvertire anche gli spazi teatrali: «non mi piacciono le poltrone rosse, dobbiamo avere il coraggio di usare altri spazi, il teatro vive di spazio e ce ne siamo resi conti col Covid – afferma -. Anche io con la mia compagnia abbiamo provato in spazi diversi da quelli teatrali, poi quando mi sono ritrovato in teatro ho avuto paura, ho avuto l’impressione che quello spazio non mi appartenesse, non fosse abitato dai fantasmi, non fosse più abitabile. Abbiamo dovuto ricominciare ad abitarlo». E in questa necessità di abitare lo spazio si spiega anche il lavoro con i suoi splendidi attori e il rapporto che Warlikowski ha col tempo: «Gli attori non sono i meri esecutori di mie idee, di mie intenzioni, così come non si limitano a dire un testo, con loro io costruisco il mio teatro, con loro condivido la responsabilità di ciò che faccio – ha detto – e loro stessi hanno una responsabilità autorale in quello che fanno e sono. Per questo dico che il teatro è spettacolo, lo è perché accade lì, davanti agli spettatori e fra di noi che lo facciamo, accade e spesso accade qualcosa che nessuno di noi si era immaginato, accade in chi lo fa e in chi ci guarda, va al di là della nostra immaginazione o di quello che abbiamo pensato, semplicemente, come la vita».
We are Leaving… commedia umana con otto funerali
E tutto questo è evidente, palpabile, potente in We are Leaving, un lavoro che – soprattutto nella prima parte – vive per apposizioni, per intrecci di situazioni che coinvolgono una comunità di madri e figli, mogli, mariti, amanti, una prostituta, una turista americana, un superdotato e un becchino. C’è voglia di partire, di andare in Svizzera, di cambiare vita, c’è la memoria, ci sono madri che condizionano i figli fino alla morte, figli che rivelano la loro omosessualità e ritrovano nuova vita, padri tardivi e amanti impenitenti, ci sono le famiglie Shuster, Gelernter, Globczik, Hoffszetter e suo figlio, Czkori, sua moglie e suo fratello gobbo e una serie di personaggi che intrecciano le loro vicende con quelle famiglie ebree, in un tempo che sembra non conoscere la prospettiva né del passato, né del futuro. In tutto ciò si intravvede l’ironia israeliana (la figura della mamma nella cultura yddish ha qualcosa di terribile ed esilarante ci ha insegnato Moni Ovadia), ma anche la necessità politica di affrontare alcuni argomento tabù come l’omosessualità e il cambiamento di genere che sono tabù in Polonia Ma al di la di contestualizzazioni di tempo e spazio ad andare in scena è una comunità ebraico/polacca che vive senza chiedersi il perché, che si lascia vivere a volte o che cerca una possibile reazione per realizzare veramente sé stessa. A cadenzare gli accadimenti o non accadimenti sono le morti improvvise, cercate o indesiderate di tutti i personaggi, ad uno ad uno cadono, sotto lo sguardo di Angela, turista americana che con il suo smartphone e asta per i selfie filma tutto, ospite estraneo, regista interno di uno spettacolo che semplicemente si chiama vita. In una scena che ora è un night, ora sembra essere l’androne di una sorta di camera mortuaria va semplicemente in scena l’esistenza. Sullo sfondo una serie di porte a vetri dietro le quali si svolgono gli otto funerali che cadenzano la storia di questa comunità in perenne partenza da sé stessa o semplicemente transeunte, in cammino verso la morte come la vita di ognuno di noi.. Krzysztof Warlikowski non si limita a costruire uno spettacolo, ma porta in scena un rito, porta in scena la vita con le sue violenze, i suoi amori e i suoi dolori, il sesso che prorompe come atto ultimo e carnale, piccola morte in orgasmi rubati in un night. Si assiste a tutto ciò prima disorientati, poi quando si riesce a farsi risucchiare dal flusso, quando non ci si chiede chi è chi, ma si vivono le situazioni di quelle donne e quegli uomini che si limitano a vivere allora ci si ritrova a rispecchiarsi e nel chiedersi: «Ma cosa accade?» si finisce con l’intuire che il regista polacco ci chiede di farci la domanda che è alla base dell’esistenza di ognuno di noi: che senso ha tutto questo, se il finale è sempre lo stesso, la morte? Ma alla fine il teatro – e solo il teatro può farlo – ci regala una dolcissima catarsi, mentre la turista americana filma, influencer mortifera, ovvero di colei che cercando la vita documenta la morte. E alla fine lo sfilare degli attori con un ghiacciolo in mano ha un che di liberatorio, è una resurrezione dolcissima e che il senso sia di godersi quel ghiaccioli fino all’ultimo, proprio come la vita?

Ultima modifica il Lunedì, 05 Luglio 2021 18:24

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