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SIRACUSA TEATRO GRECO 2020 - "Da Medea a Medea" e "La vedova Socrate". -di Valeria Minciullo

Maria Pia Ballarino (per Medea) e Gianni Carnera (La vedova Socrate) Maria Pia Ballarino (per Medea) e Gianni Carnera (La vedova Socrate)

Da Medea a Medea
Con: Lunetta Savino
Testi di Euripide (traduzione e adattamento: Margherita Rubino) e Antonio Tarantino
Musiche dal vivo: Rita Marcotulli
Cura registica: Fabrizio Arcuri

La vedova Socrate
Con: Lella Costa
di: Franca Valeri
liberamente tratto dall’opera: “Der tod des Sokrates” di Friedrich Dürrenmatt
per gentile concessione di: Diogenes Verlag AG
regia di: Stefania Bonfadelli
Produzione: Centro Teatrale Bresciano
Progetto a cura di: MISMAONDA
con: INDA Istituto Nazionale Dramma Antico

Da Medea a Medea e La vedova Socrate.
Dalla stagione 2020 Per voci sole del Teatro Greco di Siracusa

Parecchi anni fa ebbi l’occasione di assistere alla rappresentazione di una tragedia greca al Teatro Greco di Siracusa, era un tardo pomeriggio di primavera. Nei miei ricordi, un cielo dalla luce perfetta, e benché a quel tempo non fossi ancora consapevole della magia a cui stavo presenziando, rimasi affascinata dall’aria sacrale che pervadeva quello spazio aperto, dall’imponenza della scenografia, dalla solennità della recitazione, dal trucco degli attori e dai loro lunghi, ricercati, vestiti.
Essere originaria di un paesino alla parte opposta della Sicilia non ha però agevolato il mio ritorno in quel luogo per rivivere l’esperienza, e non so bene, negli anni, che evoluzione abbiano avuto le stagioni teatrali che lì si sono susseguite, tutte comunque volte a riportare sulla scena originaria il dramma antico; so, però, che quest’anno, a causa dell’“imprevisto Covid”, la fondazione INDA, che già dai primi del Novecento porta avanti questa missione, ha dovuto ripensare a una stagione diversa da quella tradizionale e non paragonabile a ciò che avevo visto in passato.

Per voci sole: una stagione che riparte ripensando al mito

Si è aperta, infatti, il 10 luglio, la rassegna Per voci sole, una serie di monologhi - riscritture di tragedie greche - dove la classicità si è spogliata dell’aura grave e mitica per essere consegnata al pubblico in una forma più accessibile e “dialogante”. L’inaugurazione, affidata al maestro Nicola Piovani col dramma musicale L’isola della luce, pare aver seguito la scia di quella solennità, sfumatasi nelle settimane successive con due spettacoli dal tono più modesto: Da Medea a Medea e La vedova Socrate.
La scelta per l’interpretazione dei due ruoli è ricaduta su due attrici ben note al grande pubblico, poiché anche volti televisivi, e cioè – rispettivamente – Lunetta Savino per le parti delle due “Medee” (quella classica di Euripide, e la più moderna tratta da Cara Medea di Antonio Tarantino), e Lella Costa che ha recitato un testo liberamente ispirato a La morte di Socrate di Friedrich Dürrenmatt riscritto da Franca Valeri, la stessa che lo interpretò nel 2003 e qui omaggiata a una settimana dal suo centesimo compleanno. In realtà, è stata proprio la Valeri a suggerire l’attrice milanese alla figlia adottiva e regista dello spettacolo, Stefania Bonfadelli, ritenendola perfetta per la parte.

Due spettacoli distanti che avvicinano il pubblico

In Da Medea a Medea, il suono grave del pianoforte, vibrante sotto le dita di Rita Marcotulli, voltata di spalle al pubblico, accompagna l’entrata in scena della Savino, che varca la platea, passando tra le sedie distanziate, con portamento sicuro. Le luci inondano di rosso il teatro come un mare di sangue e di vendetta. Anche l’abito vi si fonde, lungo e scarlatto. Ma già dalla sua salita sul palco capisco che la rappresentazione sarà qualcosa di ben diverso da ciò che mi aspetto. La fascia rossa a tenere i capelli biondi e i grandi occhiali da vista indossati mi restituiscono un’immagine diversa dalla classica Medea che sono solita immaginare; la presenza del leggio distrae Lunetta dalla parte, gli angoli dei fogli un po’ svolazzano per il vento, ma nei momenti in cui entra davvero nel ruolo, senza distrazioni, l’attrice riesce a coinvolgere meglio lo spettatore. È comunque, come già detto, una figura meno severa e più familiare rispetto al mito, predisposta a instaurare maggiore complicità col pubblico, che perde quello sguardo riverente - ma anche emozionato – che avrebbe probabilmente davanti a una tragedia greca rappresentata alla maniera classica. La musica del pianoforte rende ora più austero lo spettacolo, ora più leggero, come quando accompagna la voce di Medea in una canzone dallo stile rap.
Più credibile, invece, l’interpretazione della seconda Medea, quella di Tarantino, anch’essa colpevole di aver ucciso i figli, ma in preda all’impulso e alla disperazione data da uno stato di degrado ed emarginazione, a differenza della Medea greca che, pur altrettanto disperata, agisce con lucida consapevolezza, calcolando ogni mossa; qui lo sfondo è quello della Seconda Guerra Mondiale, dove la donna è condotta fino al campo di concentramento di Sobibór, poi costretta a prostituirsi, e infine tornata in Italia da ex-galeotta a sfogare la sua frustrazione su un moderno Giasone, divenuto magazziniere di un silurificio di Pola. Il vestito rosso si accorcia, al posto delle lenti da vista, gli occhi nudi e sfatti di trucco pesante, le gambe scoperte dentro le calze a rete, e questa nuova Medea perde la stoffa e la fierezza del mito, si mostra sguaiata e smarrita, mescolando la cadenza marcatamente pugliese, propria della Savino, con l’intercalare della parola veneta “mona”; ma appare molto più lontana di quanto lo era stata quella euripidea, nonostante il ruolo affidatole sembrasse più improbabile.
Anche ne La vedova Socrate, il testo, lo stile recitativo e la messa in scena favoriscono una maggiore vicinanza con la platea. Lella Costa è una Santippe dei giorni nostri, che si rivolge al pubblico dalla sua bottega di antiquariato con fare signorile, lontano dalle sue origini popolane, vestita con un ampio abito dalla fantasia bianca e nera e una lunga stola che sposta e acconcia in modi diversi. Il monologo qui, a differenza di Medea che rimane un’eroina tragica, vira verso il comico e il satirico, dove le figure di filosofi - compresa ovviamente quella del marito – e dei personaggi che ruotavano intorno a Socrate vengono smitizzate e ricollocate nella mediocrità del quotidiano attraverso un racconto dettagliato che non risparmia nessuno: il tiranno Dionigi, il commediografo Aristofane, l’entourage del marito, e soprattutto Platone, descritto come uno spione insopportabile che trascriveva i pensieri del marito appropriandosene liberamente. E, d’altronde, pure lo stesso Socrate è riportato alla memoria come un ubriacone, persino puzzolente, e non così saggio come venne conosciuto al tempo e tramandato ai posteri. Dal suo punto di vista di moglie - che la Valeri ha definito quello, essenzialmente, di una massaia - la filosofia di cui disserta il marito è noiosa e inutile, ed è per questo che vi contrappone un pragmatismo fatto di lezioni spicce e consigli più elementari. Anche qui Santippe si serve delle cadenze dialettali per accentuare lo stile ironico e canzonatorio, imitando, ad esempio, un Dionigi dall’accento siculo o strascicando le parole come farebbe un Socrate nato e cresciuto in Romagna. E le esitazioni di Lella Costa, persino le sue defaillance di memoria quando per l’emozione data dal contesto dimentica due volte la parte, sono in realtà superate con grande professionalità e ironia, tanto da non apparire come interruzioni imbarazzanti della performance.

Femminismo e riscatto nelle due opere: similitudini e differenze

Oltre al carattere confidenziale che accomuna due spettacoli così diversi tra loro, possono essere anche rintracciati dei punti di contatto tra i personaggi femminili. La Medea di Euripide (più che quella di Tarantino) e Santippe rappresentano infatti due donne che vogliono affermare il proprio ruolo, non accettando di incasellarsi in quelli che la società richiede al loro genere di appartenenza. Medea dice che preferirebbe piuttosto combattere che partorire una volta sola, e che la condizione della donna sposata è ben più limitante rispetto alla libertà concessa agli uomini di evadere dall’insoddisfazione, mentre Santippe ritiene di volersi occupare anche di attività considerate più consone al sesso maschile, rimarcando l’importanza della fluidità tra i generi. In tutti e tre questi personaggi c’è poi un certo risentimento, che arriva fino allo sdegno, nei confronti degli uomini. Se possiamo immedesimarci nella Medea classica, disonorata e tradita dopo aver dato tutto per amore, e comprendere la rabbia e lo smarrimento della Medea abusata di Tarantino, Santippe ci spiazza e sembra provarci gusto a uscire allo scoperto e a riportare in modo pungente e sarcastico le vicende del suo ambiente, dando un quadro di sé più esaustivo rispetto alle poche notizie tramandate sul suo conto, ovvero di essere null’altro che una moglie bisbetica e insopportabile. D’altronde, ciò che le anima sono sentimenti di diversa natura. Le due Medea sono visibilmente sofferenti, nonostante i temperamenti opposti, avendo creduto con ingenuità alle promesse dei loro uomini; Santippe, invece, è una vedova tutto sommato felice, per nulla ipocrita, che dichiara di non essere stata innamorata del marito e che anzi sembra quasi averlo detestato, tanto che mentre Medea vorrebbe recuperare la dignità, a Santippe basta il riscatto di un’esistenza tranquilla e agiata e “un patrimonio in diritti d’autore” richiesti a quel ladruncolo di Platone.

Valeria Minciullo

Ultima modifica il Mercoledì, 05 Agosto 2020 21:39

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