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Piccole apocalissi al termine della notte. KILOWATT FESTIVAL di Sansepolcro come antidoto al Covid-19. -di Nicola Arrigoni

"Trent'anni di grano". Teatro delle Ariette "Trent'anni di grano". Teatro delle Ariette

L’appuntamento è davanti al Teatro della Misericordia, adeguatamente distanziati, con mascherina, si attende Luca Ricci, direttore, insieme a Lucia Franchi, di Kilowatt Festival. L’energia della scena contemporanea, giunto alla sua diciottesima edizione. Luca Ricci accompagna i suoi ospiti alla scoperta dei luoghi e capolavori di Piero Della Francesca nella sua Sansepolcro. E il Teatro della Misericordia – un tempo chiesa - è il luogo dove fu custodita la Madonna della Misericordia dipinta da Piero Della Francesca, uno spazio di accoglienza per malati e pellegrini. La Confraternita della Misericordia commissionò a Piero della Francesca l’opera ora custodita nel museo civico della cittadina toscana. Nell’estate pandemica dei festival ritrovati, partire dal Teatro della Misericordia è fare i conti con l’accogliere l’altro, l’essere prossimi, il sentirsi comunità aperta. Tutto ciò stride con la condizione di distanza e mascheramento che impone il contesto pandemico. Luca Ricci è vigile, ad ogni spettacolo conta i posti, si assicura che le sedie siano distanziate, chiede al pubblico in fila di mantenere le distanze, indossa e fa indossare la mascherina. Atti di responsabilità nei confronti degli ospiti e degli artisti che definiscono fino a dove è possibile spingersi nell’estate teatrale 2020. Eppure a Sansepolcro, nel giardino del Teatro della Misericordia, nello spazio streaming in cui su sdraio con tanto di ombrellone si può assistere agli spettacoli in video, nei chiostri di antichi conventi tutto porta a ricominciare, a tornare a condividere quella chiamata laica che è il teatro, fatto di visione e condi-visione. Viaggio al termine della notte Kilowatt – il titolo della diciottesima edizione del festival fa riferimento ovviamente a Louis Ferdinad Céline - esprime anche una visione possibile, un augurio che ci porti fuori dalla pandemia, attraverso e grazie al teatro, all’epifania della scena, alla fine della notte del Covid-19 per risorgere a nuova vita… E l’immagine del Cristo risorto di Piero della Francesca infonde fiducia e proietta in una visione altra, indicata dallo sguardo del Cristo che guarda lontano, oltrepassa noi spettatori della sua resurrezione, mentre i soldati e il mondo dormono inconsapevoli.

"Oriri". Foto Elisa Nocentini

Siamo tutti un po’ visionari – La condizione dei 38 spettatori visionari che nell’arco dell’anno esaminano e selezionano alcuni degli spettacoli che poi Luca Ricci e Luisa Franchi inseriscono in cartellone appartiene a tutti: spettatori/visionari, operatori/visionari, critici/visionari. L’emozione e l’impressione sono quelle di chi torna a stupirsi di un incontro che prima del Covid-19 era diventato scontato, abituale, bulimico e quasi stanco nel suo ripetersi. Ora – forse – non è più così e sembra esserci l’emozione della prima volta, la possibilità di riassaporare quel teatro che si fa nel qui ed ora. Rimangono le sedie distanziate, gli sguardi dietro le mascherine, rimane il sentirsi comunque soli, in difensiva rispetto a quanto accade, manca il contatto, la prossimità… conquiste che sono da venire, forse proprio al termine della notte pandemica. «Nessun eroismo nel fare il festival – afferma Luca Ricci -, ma solo la necessità di trovare un modo per continuare la nostra professione, il nostro mestiere, offrendo al pubblico e alla comunità quello che sappiamo fare e il piacere di ritrovarci davanti all’arte multiforme della scena. Dopotutto mio fratello fa il parrucchiere ed è tornato al lavoro con tutte le precauzioni del caso e le paure che la condizione che viviamo ci impone. Non vedo perché il mondo del teatro debba piangersi addosso e non reagire, come hanno fatto molte altre categorie. Con tutte le limitazioni, noi ci abbiamo tentato». E visto il risultato la raggiunta maggiore età di Kilowatt Festival è stata ampiamente conquistata sul campo. Anche questa è una visione, una visione che ha tentato di andare oltre la pandemia e, per certi versi, la paura. Nelle calde sere di Sansepolcro i racconti, le visioni, i tanti e quasi esclusivi monologhi, hanno intessuto un dialogo solipsistico con ogni spettatore, un po’ come è accaduto nella mostra Carta Carbone di Roberto Latini, autor/attore di un teatro solitario che l’artista ha voluto condividere con i suoi spettatori. In una scatola lignea, lo spettatore è davanti allo specchio, chiamato a ripetere le parole di Roberto Latini – riscrittura latiniana del monologo di Amleto – poi come una creatura bernhardiana si siede su una poltrona e ascolta la propria voce… un riflesso uditivo che inquieta, diverte e forse offre un’altra visione di noi stessi, con il medesimo stupore che si avverte quando ci si ritrova ad ascoltare le propria voce registrata. Visioni solitarie, visioni condivise nelle riunioni settimanali degli spettatori/visionari che, anche durante il lockdown, hanno svolto il loro compito di selezionatori, di impietosi critici di video, progetti teatrali, analizzati, vivisezionati e poi scelti.

Elena Burani in "Piume"

Nel segno della visione si pongono le performance di Elena Burani, Piume e di Oriri di Bambula Project. Piume di Elena Burani strizza l’occhio al nouveau cirque e al visual theatre e lo fa affidando alla comicità la storia di solitudine e attese di una donna che si confronta e dibatte con una sorta di alter ego, quel cappotto che è passe-partout per uscire nel mondo, alter ego, forse sogno di un’anima gemella che si scioglie nell’abbraccio di un farsi l’uno per l’altra. Oriri di Bambula Project con Paolo Rosini e Chiara Tosti è un viaggio visivo nell’atto di nascere, la coreografia è un tutt’uno con un impianto scenico che gioca su chiaroscuri, sul bianco e sul nero portando avanti l’idea di un lento processo dal due all’uno, del maschile e femminile, del doppio che partorisce l’unico, del duplice che si fa unico corpo e un solo respiro. Le parentele sia coreografiche sia iconiche sono da situarsi in un già visto coreutico/televisivo fra Momix, Kataklò e più in generale quel visual theatre che sembra l’orizzonte entro cui leggere un lavoro di elegante maniera che appaga l’occhio e la visione.

"Eracle l'invisibile". Foto Luca Del Pia

La paternità è fragile – Due lavori diversi, l’uno con la forza della distanza e della comicità dolente, l’altro tutto interno al racconto, documentario intimo e lacerante del rapporto fra padre e figlia: sono questi i due approcci per un unico tema: la paternità, meglio l’essere padre. Eracle, l’invisibile del Teatro dei Borgia con Christian di Domenico è un lavoro che inquieta, che fa dire: il teatro è umano perché parla di me, del mio intimo, del non detto, del dolore, della vita. Quando non fa questo è intrattenimento, è svago… è altra cosa. A questa riflessione conduce Eracle, l’invisibile, storia di un uomo che ha raggiunto la felicità e se la vede liquefare fra le mani. Fabrizio Sinisi costruisce per Christian di Domenico una partitura verbale che sa tenersi in equilibrio fra dramma e leggerezza, ironia e dolore, questa almeno è la sensazione che se ne riceve dalla messinscena e interpretazione attoriale. Un uomo è intento a preparare sacchetti, forse per una mensa, in sottofondo una radio. Quell’uomo si racconta, lo fa in una maniera un po’ goffa, con un pizzico di saccenteria e con la voglia di dire quanto vale, un po’ gradasso, ma più per difesa che per offesa. Sappiamo che è uno in gamba, è uno bravo, il più bravo. Fa, o meglio faceva, il professore, molto stimato dai colleghi e dagli studenti, sposato, la moglie lavora da un importante avvocato, hanno una bella casa, lui arrotonda lo stipendio con le lezioni private. I due stipendi insieme permettono alla coppia e alla loro figlia di fare una vita agiata, senza eccessi, ma in grande tranquillità e concedendosi qualche soddisfazione… fino a che. C’è sempre un termine post quem, dopo di che tutto finisce col non essere più come prima… Fino a che una studentessa lo accusa di aver subito ‘violenza’… poco importa che si sia inventata tutto. Da quel momento quella vita normale diventa un incubo, un giocare in difesa, un confrontarsi con l’incredulità di chi prima stimava il professore e l’uomo. Arrivano il divorzio, il licenziamento da scuola, l’affitto da pagare, gli alimenti, il rischio di non poter più vedere la figlia, i debiti, la solitudine, la disperazione… Eracle, l’invisibile ti conquista pian piano, si insinua con il suo carico di dolore e disperazione. Christian di Domenico sa essere narratore e protagonista, sa porre le parole con la giusta leggerezza, col sorriso mesto e ti porta con sé, laddove non vorresti andare, in quel senso di impotenza che la vita regala e dispensa, proprio quando tutto sembra andare via liscio. Eracle, l’invisibile – malgrado qualche dettaglio di troppo che nel racconto della felicità quotidiana andrebbe asciugato – rimane appiccicato addosso e l’applauso diventa anche un modo per scrollarsi di dosso quell’urlo strozzato di rabbia che Eracle ci affida nel suo natalizio congedarsi.

"Padre d'amore padre di fango". Foto Luca Del Pia

Padre d’amore. Padre di fango di Cinzia Pietribiasi è, invece, una sorta di docu-drama che cerca nell’oggettività del racconto di offrire una distanza impossibile per un rapporto a tre: padre, figlia ed eroina. Cinzia Pietribiasi racconta il suo amore sconfinato per il padre, padre tossicodipendente che la porta con sé quando va a procurarsi le dosi, che scompare, che si chiude in bagno con strani figuri e poi ne esce trasfigurato. Il pubblico è chiamato a entrare nel racconto della protagonista non solo assistendo a quello che Cinzia Pietribiasi fa e agisce in scena, ma anche visionando spezzoni di super otto di famiglia che mostrano l’attrice adolescente. Ma c’è di più: attraverso una serie di linguette come quelle per la prova dei profumi si chiede al pubblico di usare l’olfatto per percepire gli odori di ambienti ammuffiti, di stoviglie non lavate, di naftalina che di volta in volta l’attrice/protagonista e narratrice evoca. Video familiari, l’uso di una telecamera per spostare il racconto su un piano di animazione d’oggetti, la presenza dell’attrice un po’ androgina – sul modello di Silvia Calderoni dei Motus – fanno percepire che la Compagnia Pietribiasi/Tedeschi ha visto e si è nutrita di molto teatro contemporaneo dai Motus all’esperienza video/drammaturgica di Agrupación Señor Serrano. Sono questi riferimenti estetici che si offrono come paracadute ad una narrazione che sa essere autentica, vera, una confessione al limite dell’impudicizia, una necessita (terapeutica?) di portare fuori di sé quella ferita di un padre troppo amato e troppo schiavo dell’eroina, un racconto personale che viene offerto allo sguardo dello spettatore, ad una visione compartecipe che commuove nel suo essere posta come pura, umanissima testimonianza. Padre d’amore. Padre di fango di Cinzia Pietribiasi funziona perché riesce a coniugare la testimonianza di un racconto intimo con la prossimità emotiva di chi quel racconto non solo lo narra, ma l’ha vissuto. Teatro verità? No. Teatro docu-drama? Forse, ma un documentario costruito sulla pelle di chi narra che è soggetto e oggetto del racconto al tempo stesso. L’effetto? Beh, le lacrime e la commozione di Maria Gabriella che lascia il suo posto con gli occhi lucidi e come lei molti visionari e spettatori in una fresca sera di Sansepolcro.

Pietro Angelini "Un onesto e parziale discorso sopra i massimi sistemi"

Monologo di necessità… Diciamolo fuori dai denti, le condizioni di distanziamento sociale in scena e fuori dalla scena conducono a una riduzione del pubblico in sala e a una limitazione degli attori sul palcoscenico, fino alla scelta più ovvia: monologare, monologare, monologare… Così può accedere che la testimonianza di un pentito di mafia diventi un virtuosismo vocal-musicale con l’effetto di una narrazione troppo confusa e poco incisiva e un po’ autoreferenziata nella sua costruzione visiva e drammaturgica. È questo l’effetto di Alla furca di Condorelli_Tingali, monologo liberamente ispirato da Il Pataffio di Luigi Malerba e firmato da Orazio Condorelli. In scena seduto con microfono davanti è Salvatore Tringali. Il riferimento iconico va a Tommaso Buscetta nel maxiprocesso alla mafia. Il provare il microfono, l’abito chiaro, gli occhiali da sole sono segni iconici che appartengono alla memoria visiva dei più, sono l’inevitabile riferimento che contestualizza e – forse – limita. La prova d’attore di Salvatore Tringali non va oltre un certo virtuosismo di maniera e lo svolgimento del racconto appare a tratti confuso, pieno di digressioni sonore che fanno perdere il filo di una narrazione già di per sé flebile e che non buca lo schermo e lascia indifferente chi assiste allo spettacolo. Tutt’altro che indifferenti lascia invece il pur acerbo ma intelligente e desituante lavoro di Pietro Angelini interprete di Un onesto e parziale discorso sopra i massimi sistemi… Pietro Angelini con la sfrontatezza dei suoi 28 anni osa e ti butta in faccia tutto sè stesso. Immobile, vestito in giacca e cravatta, stile maschera di teatro, ma anche manager e imbonitore, affida il suo racconto ad un video in cui con ricerche ripetute su Google, con immagini di scuola e famiglia mette in connessione ciò che è con quello che è stato, ringrazia tutti: dall’homo sapiens alla professoressa del liceo, nella convinzione che tutto si tenga in questo universo, anche nella storia di Pietro Angelini, attore molto ambizioso in cerca di notorietà Il titolo richiama il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo e Galilei e alla fine viene da pensare che al centro di tutto sia proprio Angelini con la sua storia, terra o sole che sia, poco importa, eliocentrico o meno è un dettaglio; e non è neppure un caso che la riflessione sia legata all’immobilità e alla sua impraticabilità…. Con sottinteso il celebre: Eppur si muove. Detto questo Pietro Angelini se ne sta impalato davanti al pubblico per venti minuti buoni, unico movimento quello di un trenino, mentre il video mette in connessione la sua vita con quella dell’umanità intera. Alla premessa del video fa seguito il recital live – un po’ acerbo e a tratti troppo ‘improvvisato’ – in cui il nostro da imbonitore cerca di vendersi come regista del film più corto della storia per costo: 1 dollaro e durata: un minuto. E parte il video di un dollaro che prende fuoco in un minuto. Da qui l’elenco di premi e concorsi e il calcolo economico di ciò che ha fruttato il film, solo incassando 300 euro. Angelini passa poi a spacciare una poesia Pene d’amore, in cui la lacrima lattiginosa del testo mette qualche dubbio su cosa s’intenda per pene fra onanismo e comicità. Economia, soldi, spendibilità, o semplice monetizzazione di sogni e desideri sono al centro di Un onesto e parziale discorso sui massimi sistemi con tanto di richiesta al pubblico di accendere i cellulari e condividere foto e profilo Instagram del nostro artista/imbonitore. Pietro Angelini fa della sua naïveté e per certi versi dell’egotica volontà di essere al centro dell’universo che è di ogni giovane adolescente con la vita davanti, un racconto scanzonato, allegro, pieno, pienissimo di trovate – forse fin troppo – che se lascia perplessi per una certa ingenuità recitativa da un lato, dall’altro rimane impresso. Lo spettacolo ci fa sorridere amaramente su un mondo, su una generazione per cui l’unico metro di giudizio sono i soldi: il pensiero calcolante su cui Angelini ironizza con inquietante consapevolezza di un mondo in vendita sempre e comunque… anche nell’ultimo saluto.

Visionari - Kilowatt Festival 2020

In attesa dell’apocalisse fra precarietà e nostalgia – Sarà per il momento che stiamo vivendo, ma certo la percezione di una minaccia imminente, di una condizione di vita sottoposta alla tensione di un dramma deflagrato o in procinto di scoppiare sono al centro di due allestimenti figurali: Polvere di Collettivo Superstite ed Eve#2 di Filippo Michelangelo Cerredi. Due lavori diversissimi, ma che raccontano di una precarietà asfissiante, opprimente. Nel caso di Polvere un uomo e una donna: Giulio Bellotto e Annalisa Esposito sono prigionieri in una stanza. Dal soffitto cade della polvere, dell’intonaco, si sentono strani scricchiolii. I due cercano di ignorare la cosa prima, di impedire alla polvere di scendere, di ripulire e ripulirsi, ma inutilmente. Trovano, poi, strani reperti, pezzi di statue, ma pian piano quei reperti finiscono con appartenere intimamente a quell’uomo e a quella donna, destinati ad una sorta di metamorfosi statuaria che nulla di buono fa presagire. Lo spettacolo di teatro di figura – a fare scendere la polvere/farina è Riccardo Reina, nascosto sopra il tetto della scatola/casa/prigione – è nato all’interno del corso di alta formazione per il teatro di figura, Animateria, realizzato da Teatro GiocoVita, Teatro delle Briciole, e Teatro del Drago. Con Eve#2 Filippo Michelangelo Ceredi tenta una riflessione – molto criptica – sulla comunicazione utilizzata per forzare le regole democratiche. Tutto ciò rimane un intento e l’azione del performer si sostanzia di una serie di gesti: definire e annullare i confini di uno spazio staccando un nastro adesivo dal tappeto di danza, sfidare una parete grigia che incombe un po’ come il monolite di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick, salvo poi presentarsi in cima con una curiosa e inquietante somiglianza mussoliniana. In tutto ciò che fa Ceredi si avverte una sorta di costrizione, una paura strisciante, un’impossibilità di dirsi e di definirsi… ma queste rischiano di essere solo impressioni, ipotesi per un lavoro troppo cerebrale che finisce solo col respingere lo spettatore.
Il viaggio del Teatro delle Ariette è un viaggio nostalgico, in cerca di quella semplicitas bucolica che se troppo accentuata rischia di diventare oleografica come certe pubblicità del Mulino bianco. Sta di fatto che Paola Berselli e Stefano Pasquini con Maurizio Ferraresi con Trent’anni di grano. Autobiografia di un campo raccontano in forma diaristica una lunga estate – quella del 2019 – in cui il teatro e il lavoro della terra sono un tutt’uno, così come fare spettacolo e cucinare tigelle e poi offrire agli spettatori/commensali salumi, mozzarella e buon vino…. Tutto proveniente (dicono) dal podere delle Ariette. In ciò che Paola Berselli scrive e legge agli spettatori c’è lo scorrere del tempo, il rassicurante susseguirsi delle stagioni, i piccoli e faticosi lavori della campagna, ma soprattutto c’è la necessità di fare i conti con la stanchezza, la vecchiaia e la morte al termine del viaggio. Si assiste a Trent’anni di grano con un po’ di fastidio per il troppo indugiare in una retorica del piccolo e buono, della natura bucolica contrapposta al consumare e al produrre per produrre; ci si sente un po’ fare la lezione, c’è una tendenza a guardarsi l’ombelico e a indulgere su un certo compiacimento… Ci piacerebbe credere in quella fabula, ma è difficile e può più il senso di finzione e artefatto che l’autenticità sbandierata… Rimane, comunque, forte la riflessione sulla morte, sul passare del tempo e in fondo sull’invecchiare che, però, non va oltre l’ovvio, ma certo qualche domanda la pone… Peccato che nell’estate teatrale del Covid le invenzioni agresti del Teatro delle Ariette non siano nemmeno consolatorie, ma solo un compiacente e compiaciuto raccontarsi una favola bella che ieri ci illuse e oggi non ci illude più… E allora il pensiero va al monologo pop di Pietro Angelini, al suo Onesto e parziale discorso sui massimi sistemi che con scanzonata ironia ci dice che al termine della notte – per non soccombere – c’è la necessità di maturare una consapevolezza di come il pensiero calcolante non basti e rischi di inaridirci se non ci viene in soccorso il pensiero meditante…

Nicola Arrigoni

Ultima modifica il Mercoledì, 05 Agosto 2020 21:41

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