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STRESA FESTIVAL, 57 esima edizione - "Invenzione a due voci" Incontro con Gianrico Carofiglio. -di Franco Acquaviva

Gianrico Carofiglio Gianrico Carofiglio

STRESA FESTIVAL, 57 esima edizione

Invenzione a due voci
Incontro con Gianrico Carofiglio
Con la partecipazione di Gianluca Petrella al trombone

Stresa, Regina Palace Hotel 25 luglio 2018

E' molto interessante il modo in cui i festival estivi reinterpretano o vengono a patti coi luoghi, strategicamente ne inglobano alcuni oppure ne sfiorano altri. Talvolta un festival è magnificamente in grado di entrare in contatto intimo con un pezzo di città o di paesaggio, specie quando sa progettare con un ambiente più che incorniciarvi un evento. D'altronde la forza di certi contesti urbani, di certi spazi, spesso è tale da suscitare senza troppi sforzi l'intervento del progettista: se talvolta egli deve fare opera di recupero alla sensibilità collettiva di una sala o di una struttura, disabitata o il cui uso sia altrimenti destinato, in altri casi può trovarsi di fronte a siti di per sé parlanti, dotati come sono di una forza intrinseca. Chi sia anche solo passato una volta da Stresa sa che percorrere il suo lungo boulevard (e lo dico intenzionalmente alla francese), costellato di grandi alberghi dell'epoca in cui in villeggiatura qui ci veniva l'aristocrazia europea del XIX secolo, vuol dire già di per sé entrare in un teatro dove ogni sguardo può inquadrare una diversa prospettiva, catturare fughe, intercettare colonne, archi, capitelli, imbattersi in prati che sembrano tappeti intessuti, in mosaici murali, vetrate, globi, fontane, statue – e magari cogliere in lontananza, nei dehors dei ristoranti aperti sulla luna piena, fugaci apparizioni di maître in smoking nero che si chinano su tavoli sovrastati da enormi lampadari di cristallo. Un teatro d'opera en plein air insomma. La sua metafora urbanistica. Così, se da una parte il lago distende nella vastità i suoi flussi orchestrali sempre nuovi di luci e sussurri, dall'altra i grandi alberghi turriti erigono le loro elaborate architetture come tenori in pompa magna che elevino i loro acuti, le loro arie soavi o enfatiche. Salvo poi scoprire, ma è parte dello stesso fascino, Rigoletto in una selva di rampicanti raffazzonati, in un cancello corroso, in un cortile incolto in fondo al quale piange le sue persiane divelte la facciata mezza crollata di una villa in altri tempi florida – e qui verrebbe voglia di vedere all'opera la creatività di un progettista audace che fosse in grado di riaprire temporaneamente luoghi così alla fruizione pubblica, fosse anche solo per allestirvi uno spettacolo di fantasmi. Insomma, lo si è capito, questo festival ha il vantaggio di muoversi tra suggestioni paesaggistiche straordinarie, distribuite tra Stresa e un certo numero di altre sedi di incomparabile fascino (come l'Eremo di Santa Caterina del Sasso o le Isole Borromee). E così la collocazione dell'incontro con Gianrico Carofiglio, che legge dal romanzo Le tre del mattino, uscito nel 2017 per Einaudi, è in un vasto e alto salone prateggiato da una spessa moquette rosso e oro, adorno di stucchi dorati, al secondo piano interrato del Regina Palace Hotel (e l'albergo è già un romanzo dell''800!).
Qui si potrebbe aprire un discorso parallelo sul fenomeno della lettura ad alta voce da parte degli autori. Nessuno come loro è in grado di dar vita alle proprie parole? In parte è vero, specie se si pensa alle deformazioni grottesche (dai presunti melologhi ai birignao), che talvolta gli attori sovrappongono alla parola di uno scrittore. Poi, certo, ognuno ha le sue virtù e le sue magagne. Bisogna dire, a esser sinceri, che Carofiglio mostra subito le seconde: comincia quasi afono e con una precipitazione che lo induce a fondere gruppi di parole in un flusso quasi indistinto. Quando uno spettatore, in una pausa, con candida foga, rivendica ad alta voce il diritto di capirci qualcosa, solleva nel pubblico qualche risatina ironica, ma certo non ha tutti i torti. La squilla sortisce il suo effetto: dalla regia aumentano il volume del microfono e Carofiglio capisce che deve rallentare e scandire meglio.
Entriamo così a poco a poco nella storia di un padre e di un figlio. Il primo cinquantenne, il secondo diciottenne, si ritrovano a dover passare insieme quarantotto ore durante le quali il figlio dovrà restare privo di sonno a verifica dell'avvenuta guarigione da una certa malattia, si presume di origine neurologica. Precisiamo subito che non abbiamo letto il libro, e che entriamo nella storia esclusivamente dalla porta della drammaturgia che ha confezionato lo stesso Carofiglio per questa serata. Sono circa sei brevi sezioni attinte dal romanzo a descrivere la vicenda dei due personaggi. Non anticipiamo le varie situazioni presentate, che inquadrano diversi momenti della riscoperta della figura paterna da parte del giovane. Ma dicevamo della lettura ad alta voce. Se abbiamo cominciato con le magagne, urge ora evidenziare le virtù. Ebbene, bisogna riconoscere che Carofiglio riesce a creare, con il procedere della lettura, un'atmosfera intima, ovattata, familiare, complice lo splendido lavoro al trombone di Gianluca Petrella, che fraseggia agile con base elettronica, tra improvvisazone e ripresa struggente di temi standard del jazz. Così, quello che al principio era apparso come un problema – la tendenziale afonia del nostro – diventa come un ingrediente della storia, la sua specifica pronuncia, proprio per la piega dolcemente nostalgica che essa prende da un certo punto in poi. Chissà, con un thriller forse la cosa non avrebbe funzionato, ma qui lo spettatore si sente avvolto da quella tenera confidenzialità che la scrittura stessa evoca, e che alla fine i quasi timidi modi di Carofiglio, ancorché scenicamente un po' goffi, inducono nel folto pubblico.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Domenica, 29 Luglio 2018 12:10

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