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96° ARENA DI VERONA OPERA FESTIVAL - “Turandot”, regia Franco Zeffinelli. - di Federica Fanizza

“Turandot", regia Franco Zeffirelli. Foto ENNEVI “Turandot", regia Franco Zeffirelli. Foto ENNEVI

TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
musica di Giacomo Puccini
Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 25 aprile 1926

Turandot Anna Pirozzi
Imperatore Altoum Antonello Ceron
Timur Giorgio Giuseppini
Calaf Gregory Kunde
Liù Vittoria Yeo
Ping Federico Longhi
Pong Francesco Pittari
Pang Marcello Nardis
Un mandarino Gianluca Breda
Il Principe di Persia Ugo Tarquini
Verona Arena 30 giugno 2018

In Arena a Verona, la immaginifica favola di "Turandot" di Giacomo Puccini disegnata da Franco Zeffinelli nel suo consolidato storico allestimento.

Un'Arena gremita in ogni ordine di posto, un titolo popolare con un allestimento evocativo e rassicurante, serata calda e serena, ecco alcuni elementi perchè si rinnovi il rito dell'Opera in Arena: é toccata alla Turandot terza opera in questa stagione 2018 in prima rappresentazione sabato 30 giugno 2018 affinchè si rinnovasse questo rituale.
L'azione dell'opera si svolge «A Pekino – Al tempo delle favole»: dice il libretto di Turandot di Adami e Simoni recuperata da Carlo Gozzi, attraverso la traduzione da Friedrich Schiller fatta nell'800 da Andrea Maffei. I due librettisti collocano l'opera in un preciso contesto, immaginifico e arcano, che Puccini regala al mondo come ultimo suo capolavoro lasciandolo incompiuto, per il sopraggiungere della morte, con un ingranaggio perfetto sia teatralmente sia drammaturgicamente (perlomeno fino alla morte di Liù). Come favola deve esse trattata, ottenuta amplificando l'incanto del fantasmagorico esotismo del lontano Oriente attraverso la potenza dell'immaginazione, figurando visioni sceniche smisurate, immensamente dilatate rispetto a quelle del testo stesso e calate in un'atmosfera allucinata e caleidoscopica (e non di rado crudele) che Puccini esalterà straordinariamente a cominciare da quella citazione di Pong circa "le infinite ciabatte di Pechino".
Per la Turandot di quest'anno, l'Arena di Verona, si è affidata allo "storico" allestimento di Franco Zeffirelli (risale al 2010 e già riproposto nel 2012, 2014, 2016), uno spettacolo che ricolloca l'opera al tempo delle favole lontane del tempo e in uno spazio geografico collocabile del "favoloso" (insteso come meraviglioso) Oriente: se al teatro spetta "il fin della meraviglia" e dello stupore, ecco che la sapiente gestione degli spazi teatrali fatta da Zeffirelli prendispone il tutto al fine del "gran colpo di scena" che giunge puntuale al cambio scena che separa il terzetto dei dignitari dall'entrata dell'Imperatore Altoum: dal buio, tetro e inquietante racchiuso da una paravento in cui si muove il popolo anonimo e cencioso, ecco che si spalanca la luce di un palazzo interamente d'oro, stupendo negli infiniti dettagli e reso ancor più magico dall'invasione di costumi brillanti e coloratissimi dove domina l'oro e l'argento. Sarà cartapesta, gesso, cartone dipinto (o polistirolo), più volte visto e rivisto ma il colpo d'occhio sa ancora suscitare stupore e meraviglia in una perfetta unitarietà tra ricchezza degli apparati scenici e la musica che Puccini offre. E gli spettatori dagli spalti accolgono questa apparizione con ovazioni scena aperta. Questa è l'Opera che sa farsi amare! Il tutto funziona, a partire dai suggestivi e rievocatici costumi di Emi Wanda, insieme agli ottimi movimenti coreografici creati da Maria Grazia Garofoli e il disegno luci, creato da Paolo Mazzon che hanno rimarcato il lavoro sulla linea di demarcazione tra la città celeste e l'umanità di Pechino. Così come la parte musicale, affidata alla concertazione del maestro Daniel Oren, che sa gestire il difficile spazio areniano. Ha saputo esprimere grande capacità di cogliere e di far percepire al pubblico, complice una serata di assenza di vento, tutti colori orchestrali, fatti di quegli abbandoni lirici che Puccini pretende, e di momenti di forza al limire della tonalità. Daniel Oren è maestro nel far lavorare i cantanti negli ampi spazi dell'antiteatro con i tempi che permettono alle voci di prendersi i loro ritmi, con l'orchestra che senza perdere il senso della musica riesce ad infondere una sorta di omogeneità di resa e di interpretazione. I principali artefici della riproposta della Turandot di questo 2018 sono stati senza dubbio i tre protagonisti principali. Al soprano Anna Pirozzi, che debuttava in arena nel ruolo della Principessa (dopo averlo messo in voce l'anno scorso a Tel Aviv) spetta il merito di aver contribuito alla riuscita della serata. Voce areniana, ovvero, voce che si fa ascoltare senza perdere smalto e colore; più lirico spinto che drammatico, ha saputo disegnare una principessa intima ma austera sia nella linea di canto che nella scena, in una situazione che registicamente è molto statica. Accanto a lei il Calaf di Gregory Kunde che ha saputo delineare un principe ignoto con grande maestria e padronanza; certo il tenore statunitense non può più contare su perfetti mezzi vocali, ma ha saputo usare gli strumenti del mestiere che in Arena sono permessi, dimostrando ancora la tenuta vocale, con notevole proiezione del suono, la facilità nel registro acuto, la correttezza della linea del canto, nonchè controllo della scena. Ha risolto la sua parte allargando l'emissione del canto, non rischiando nella parti più acute ma sapendo abilmente aggirare le difficoltà cogliendo un successo personale tale da meritarsi la richiesta di bis, concesso, di "Nessun dorma" un bis riuscito meglio ancora che nella prima esecuzione, non risparmiandosi nel corso del duetto finale con Turandot. Interessante la Liù delineata da Vittoria Yeo intima non patetica e generosa vocalmente nel ruolo che Puccini musicalmente la delinea di devota innamorata silenziosa fino alla morte. Funzionali i tre dignitari Ping (Federico Longhi), Pong (Francesco Pittari), Pang (Marcello Nardis) veri deus ex machina di tutta la vicenda tra l'altro elementi sempre presenti in scena. Nobile e d'autorità il canto del basso Antonello Ceron come Imperatore, come degno re spodestato il Timur di Giorgio Giuseppini; da segnalare per il suo intervento preciso, il Mandarino di Gianluca Breda. Uno spettacolo dove è lecito credere che il mondo delle favole sia reale e si materializzi sotto i nostri occhi: basta chi lo sappia creare.

Federica Fanizza

Ultima modifica il Martedì, 03 Luglio 2018 09:52

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