La Jihad, le donne, i lupi e Piero della Francesca
Dialoghi possibili e partecipati a Inteatro Festival 2017
di Nicola Arrigoni
C'è nel programma di Inteatro una doppia tendenza: da un lato leggere i linguaggi performativi, la danza nello specifico, nella loro tensione semantica, dall'altro riflettere sulle dinamiche relazionali messe in atto, con uno sguardo ai nodi cruciali del nostro presente. In questa doppia prospettiva si può leggere uno degli appuntamenti più forti dell'intero festival, diretto da Velia Papa: Nessuna conversazione degna di rilievo di Roger Bernat. Tutto parte dalle intercettazioni telefoniche che interessarono alcuni abitanti di Ceuta (città autonoma spagnola nel nord del Marocco) partiti per andare in Siria. Tali materiali furono la base del processo che nel 2012 vide condannate undici persone per appartenenza a una rete di reclutamento per lo stato islamico. Questo il dato di cronaca. In scena Roger Bernat mette tre attrici al leggio: Ernesta Argira, Alessandra Penna e Giulia Salvarani. Ogni spettatore è munito di cuffiette audio. Attingendo alle intercettazioni ognuna delle tre donne propone delle storie, storie di donne al telefono con i loro uomini, brandelli di conversazioni in cui il martirio, la paura, la religione, la guerra entrano come filtrati da un privato che si mischia con il sostegno al terrorismo, la condivisione di una 'guerra' che sta sullo sfondo, il sentimento di rivalsa nei confronti dell'Occidente, strisciante e più forte di ogni dogma. Lo spettatore è libero di costruire il suo testo, di scegliere quale storia seguire, narrazioni in cui Roger Bernat decide di inserire una corposa digressione legata alla Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo offrendo un parallelismo storico che forse può parere semplicistico, magari un po' forzato ma che mostra come certe azioni terroristiche non siano prerogativa del nostro inquieto presente. L'effetto prodotto da Nessuna conversazione degna di rilievo è doppio. Da un lato emerge il ruolo femminile nella strategia del terrore in cui l'azione di sostegno e reperimento fondi convive con l'aspetto intimo della cronaca di martiri annunciati, eppure al loro compiersi sempre inattesi, il tutto in una prospettiva al femminile che sa essere dolente e potente al tempo stesso, assoluta e forte come tenera e disarmante più che disarmata. Dall'altro lato il ruolo autorale giocato dallo spettatore fornisce la partigianeria dello sguardo e del racconto, segna la consapevolezza che la ricostruzione di fatti e azioni è sempre e comunque parziale, anche se basata su dati di realtà, come possono essere le intercettazioni telefoniche. Un bel pungolo alla coscienza e alla ricerca di un'oggettività dei fatti impossibile.
In questa scia della partecipazione consapevole si pone anche Il Cromlech (Psicodramma 4) di Oscar Gomez Mata che utilizzando il confronto uno ad uno fra performer e spettatore chiede di costruire una installazione collettiva nel parco di Villa Nappi, una sorta di monumento megalitico preistorico affidato agli officianti laici di uno psicodramma in cui il dio da omaggiare non è nei cieli, ma nell'intimo dell'anima di ognuno dei partecipanti. L'installazione del Cromlech si è legata alla quinta edizione di Paesaggio. Ambiente. Creatività che ha visto operare nel giardino di Villa Nappi gli artisti Alisia Cruciani con Macro.panorama_Ciò che non vedo all'orizzonte, Valerio Giacone con Sic Vos non vobis e Monica Pennazzi con Trame silenti. I tre artisti con le loro installazioni hanno fatti vivere il parco della villa – un ex convento di raro fascino oggi residenza per artisti ospiti di Marche Teatro – in cui segni labili in cera hanno fatto da indizi nei confronto di un divenire naturale, abitato da presenze. Sassi bianchi, tane scavate e poi l'ombra di un lupo bloccata nel cuore del parco in una fontana senz'acqua, ombra di sassi, ombra leggera che apre scenari di una natura che vive e respira, si ribella e trionfa sui confini posti dall'uomo e dalla cultura. Quest'ultima installazione realizzata da CH RO MO.
Sguardi verso un orizzonte che lo sguardo esclude – siamo pur sempre vicino a Recanati – sguardi che interrogano. Ed è quanto accade nella performance di Nicola Galli, Delle ultime visioni cutanee. Il giovane danzatore e coreografo si affida ad un impianto installativo per disegnare uno spazio intimo: la camera di un ragazzo poco più che ventenne. In quell'habitat a crescere e mutare è lo stesso danzatore, a doversi raffrontare con lo spazio e con la prospettiva geometrica non solo spaziale è lo stesso Nicola Galli che col suo corpo si fa egli stesso segno nello spazio. Una doppia lampada con cui si evoca il percorso del sole dall'alba al tramonto, alcuni cavalletti che sostengono un tavolo luminoso su cui rotolano palline bianche, il tutto replicato in una sorta di doppio miniaturizzato. Sospeso al centro dello spazio scenico un uovo, memoria di Piero Della Francesca, dà la centratura ad un lavoro costruito su simmetrie rinascimentali, su piccoli gesti di un teatro che vive di un respiro intimo ed esplode in un gesto coreografico, sostenuto dalla partitura di canzoni del Rinascimento italiano. L'effetto è di detonante bellezza, il volto perlaceo di Nicola Galli ricorda alcuni volti del miglior cinema di Bergman... Ma sono le suggestioni iconiche che offre Delle ultime visioni cutanee a far pensare che sia necessario tenere d'occhio il giovane danzatore ferrarese che mostra una cultura non comune, ma soprattutto una capacità vera e non epidermica di fondere pensieri e idee, riferimenti culturali a nuovi codici che intriga e colpisce l'intelligenza dello guardo di chi accetta la convocazione in quella camera intima di un adolescente inquieto e quasi angelico.
Un'inquietudine che rischia di girare a vuoto – invece – nel lavoro essenziale e un po' troppo algido di Claudia Catarzi con il suo Studio davanti a una testa. E se il riferimento – lo si apprende dalle note di sala – va all'opera di Amedeo Modigliani, alla prova del palcoscenico tutto ciò appare più intenzionale che realizzato. Il disegno coreografico di Catarzi sembra avere tante parentele con certa danza firmata da Virgilio Sieni, sicuramente con Sieni condivide una certa natura cerebrale che solo accidentalmente si lega allo studio su una testa, laddove la natura a sé stante delle teste di Modigliani viene evocata in un lavoro che forse deve ancora trovare la sua centratura. Una divertita centratura dimostra di averla Mash di Annamaria Ajmone e Marcela Satander Corvalàn. Il punto di partenza è musicale: il mashup indica una composizione realizzata miscelando fra loro due o più samples. La stessa idea muove la coreografia di Ajmone che va a pescare dal cabaret degli inizi '900 piuttosto che dalle performance di shock rock anni '60 per costruire un lavoro di grande potenza e di grande energia. Costruito su un tappeto sonoro sorprendente e per certi versi spiazzanti, giocato su diverse coloriture musicali oltre che coreografiche, Mash mostra come la danza sia soprattutto movimento e tecnica, si compia nella capacità di dire e divertire attraverso il linguaggio atletico del corpo, attraverso la presenza scenica di due danzatrici che dimostrano di non risparmiarsi, che si danno al pubblico e dalla platea ricevono il calore di un applauso lunghissimo. Allora sembra pleonastico chiedersi se le premesse semantiche e linguistiche che stanno all'origine di Mash abbiano una loro riconoscibilità, ciò che interessa è la capacità di contagio, è il piacere e la partecipazione che la danza di Ajmone e Corvalàn sanno restituire a chi guarda. In questo di più di energia vitale si è chiuso Inteatro Festival 2017, una vetrine preziosa e curiosa di suggestioni tersicoree, di azioni sceniche che sanno stupire e appassionare con la discrezione di piccoli/grandi pensieri su un'estetica prossima ventura. (2./fine)