lunedì, 14 luglio, 2025
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I CORPI NOSTALGICI DELLA BIENNALE TEATRO 2025. Resoconto di Nicola Arrigoni

"SYMPHONY OF RATS" – The Wooster Group - ph. Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia "SYMPHONY OF RATS" – The Wooster Group - ph. Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia

C’è voglia di riconsiderare il passato recente, per definire una via possibile da tracciare per il futuro del teatro, in cerca di quei maestri che seppero innovare e dimostrare come il teatro potesse essere e sapesse essere termometro delle utopie, delle voglie di cambiamento di una generazione. Su quella generazione di giovani sperimentatori oggi – a distanza di mezzo secolo – si interroga la Biennale Teatro 2025, diretta dal una star di Hollywood, Willem Dafoe, che dedica una mostra all’edizione della Biennale del 1975, diretta da Ronconi, regista morto una decina d’anni fa. In tempi di incertezza, di non capacità di incidere sulla realtà, di ripetizione dell’identico lo sguardo rivolto a ciò che è stato sembra dare sicurezza, offrire coordinate di senso, in attesa che nuovi significati e significanti si palesino all’orizzonte. 

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Pietrangelo Buttafuoco, Elizabeth LeCompte, Willem Dafoe Leone d'oro. Foto Andrea Avezzù - Courtesy La Biennale di Venezia

Il Leone d’Oro alla carriera alla regista statunitense, Elizabeth LeCompte, fondatrice del Wooster Group, compagnia all’interno della quale si è formato e ha operato lo stesso Dafoe, ben esprime questo desiderio di recuperare la lezione di quel teatro politico, duro e puro, di rottura per vedere se, rispolverando la lezione dei padri si possa immaginare un teatro dei nipoti nuovo, graffiante, non rassicurante. 

«È una storia personale, individuale, e al tempo stesso di gruppo, collettiva. Il lungo viaggio artistico di Elizabeth LeCompte, regista e drammaturga o, come lei ama definirsi ‘creatrice di teatro’ è indissolubilmente legata a quella del Wooster Group, la storica compagnia fondata con Spalding Gray agli inizi degli anni Settanta del Novecento», parte così la motivazione al Leone d’oro letta dal direttore artistico, ex marito e collaboratore di LeCompte che subito lo rimprovera, gli dice di leggere più piano e scandire meglio il testo. Lui esegue e parte l’appaluso per un siparietto familiare che dà all’intera cerimonia quel pizzico di imprevedibilità e di irregolarità che ben s’attaglia al personaggio della regista statunitense che non nasconde di aver voluto sempre stare altrove rispetto al mainstream. 

Nel ringraziamento per il premio alla carriera c’è un’intera estetica e politica della scena: «Il Wooster Group è ed è sempre stato un esperimento continuo: una collisione di corpi, macchine, testi e fantasmi. Smontiamo le cose... e poi vediamo come potrebbero rimettersi insieme... per creare qualcosa di nuovo – ha spiegato -. E se questo vale un Leone d'Oro, allora lo accetto... a nome di ogni collaboratore, di ogni tecnico pazzo, di ogni attore che si è mai chiesto: E se provassimo in questo modo...? E quindi merito questo premio solo in parte. La parte più importante spetta ai miei colleghi del gruppo. Mi hanno dato tutto quello che ho. Il modo in cui lavoriamo insieme è straordinario e sono molto, molto fortunata». 

In queste parole c’è la perfetta descrizione di quanto accade in Symphony of rats del Wooster Group, ripresa del testo di Richard Foreman, portato in scena nel 1988. Non un semplice remake – ha detto la regista – ma una creazione nuova, un lavoro che performer e regista hanno condiviso come loro abitudine col pubblico, una creazione o ri-creazione partita nel 2021. Basterebbe considerare questo lasso di tempo 2021 – 2025 per dire di un processo creativo, del fare, tentare e ritentare che sta alla base di un lavoro non facile, assai stratificato, eseguito con assoluta perfezione performativa. 

La messinscena va in cerca di un bandolo della ingrovigliata materia del nostro presente e lo fa nel gioco leggero e comico di un musical, di una riscrittura del testo per recitarcantando che mostra abilità tecniche, gioca su molteplici registi linguistici, restituisce la complessità di un mondo perso in sé stesso e che non può che giocare la carta del paradosso per sopravvivere. Un presidente degli Stati Uniti riceve messaggi per vie misteriose e non sa se fidarsi o meno. Ci si trova in un luogo che assomiglia a un’astronave, a un laboratorio, a uno di quei garage americani pieni di mille cose in cui la creatività si fa feconda. Il racconto è evidentemente un pretesto e rifugge da qualsiasi logica narrativa. Il presidente degli Stati Uniti è oggetto, è cavia di quel luogo/laboratorio in cui regista interno è una voce e un occhio mediatico, quell’Intelligenza artificiale che tutto governa. Ipotesi, supposizioni che emergono a ripensare a Symphony of rats che soffre di una sorta di distanza culturale fra chi appartiene alla civiltà anglosassone e statunitense e chi no. In sala a ridere e a divertirsi assai sono gli spettatori anglosassoni, gli altri osservano, stupiti, meravigliati da una precisione esecutiva ragguardevole, ma costretti a rimanere fuori, a non poter godere appieno di quanto accade. Si colgono riferimenti espliciti a film più o meno noti, a serie tv, citazioni pittoriche e ciò dà conto di una complessità direttamente proporzionale agli oggetti in scena, alla capacità degli attori di lavorare con essi, fino a farsi essi stessi oggetti di quel laboratorio di umanità alla deriva cui non resta che cantare l’inno all’assurdo del nostro vivere. 

6a HAMLETS CLOUD by Eugenio Barba ph. Stefano di Buduo
HAMLET’S CLOUD by Eugenio Barba – Foto Stefano di Buduo

Nel segno di una Biennale dei maestri e della ricerca e rivoluzione teatrali divenute tradizioni si pone il lavoro di Eugenio Barba e del suo Odin Teatret, Le nuvole di Amleto. «Nel 1596, Hamnet, l’unico figlio maschio di William Shakespeare, muore all’età di undici anni. Cinque anni dopo Shakespeare perde il padre e durante il periodo di lutto scrive La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca, in cui il fantasma del re di Danimarca appare al figlio Amleto, lasciandogli il compito di vendicare la sua morte»: nelle note di sala c’è il senso di un’operazione che si vuole interrogare sull’eredità dei padri, sulle colpe paterne che ricorrono sui figli, sulla possibilità o meno delle giovani generazioni di affrancarsi dalla prospettiva della vendetta e del sangue con facili e un po’ retorici riferimenti iconici ai soldati bambini. Tutto questo si compie e accade utilizzando i codici multiculturali ed estetici di quel terzo teatro che Eugenio Barba ha fatto crescere e coltivato nell’arco di un’intera esistenza. La sua attrice Julia Varley è narratrice interna, è William Shakespeare ma anche Elisabetta I, è colei che traccia le fila di quella storia tradotta in azioni fisiche e citazioni etno-musicali che strizzano un po’ troppo l’occhio al folclore e all’approssimazione. Non c’è il rigore dei riti, neppure la pulizia della performance teatrale, ne Le nuvole di Amleto c’è un teatro che sopravvive a sé stesso, che si propone come reperto nostalgico di un tempo che non c’è più, di un’esperienza umana e culturale, oltre che politica che appartiene ad anni irrimediabilmente passati. Il senso di tutto questo? Forse l’unico senso sta nell’offrire la lezione di un maestro, di un artista che seppe portare a compimento estetico ed etico le insofferenze dei giovani di sessant’anni fa a chi negli anni Sessata e Settanta non era nato. Le nuvole di Amleto che guardiamo fuggire vie veloci con estrema nostalgia è da leggersi come omaggio alla memoria e un affettuoso incontro con Eugenio Barba.

3d.Romeo Castellucci i mangiatori di patate
MANGIATORI DI PATATE by Romeo Castellucci. Foto Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia

In tema di semantica teatrale il linguaggio che non tiene, la ventriloquia che si compie in afasia trovano casa ne I mangiatori di patate di Romeo Castellucci. Il pensiero va a quell’Amleto aurorale di un giovanissimo Castellucci che nella veemente esteriorità della morte di un mollusco recupera l’atto del linguaggio come dimostrazione di esistenza e costruzione di senso. Quel linguaggio cercato dal mollusco Amleto della Societas Raffaello Sanzio dei primi anni Novanta si è come cristallizzato nelle azioni performative e installative di Castellucci, assurto a intoccabile sacralità estetica, che, ispirato dal lazzaretto di Venezia, luogo di cura, ma anche isola su cui si coltivavano le patate per la città, ha costruito I mangiatori di patate, scomodando Van Gogh che nulla c’entra, o almeno pare. Ciò che propone l’azione di Castellucci è un viaggio all’inferno del nostro dolore, è un viaggio al cospetto di quei corpi rinchiusi in sacchi neri rimasti impressi nella memoria recente del dramma pandemico. È il buio di una fatica e di un lavoro che aliena. Un gruppo di minatori emerge dall’oscurità, preceduto dall’apparizione di un Angelo della Storia che alla fine dell’azione, mozzato della sua testa, non potrà più guardare le rovine che si lascia dietro il vento di un progresso cieco e autolesionista. È una sorta di via crucis quella che propone Castelucci in cui quel corpo nel sacco nero si svela essere corpo di donna d’un bianco diafano, corpo affamato di una impossibile resurrezione, data dalla tecnica che si traduce in un dire non comprensibile. I mangiatori di patate è un lavoro che segue la vocazione di Romeo Castellucci, impegnato a concentrare pensiero e realtà contemporanea in immagini che si vogliono forti, ma non nuove, icastiche forse, un segno da incidere nella memoria dello spettatore, ma effimero come il tentativo di stupire.

5d Call Me Paris Photo Philip Frowein Alina Stiegler Jule Böwe
Call Me Paris. Foto Philip Frowein Alina Stiegler Jule Böwe

In un certo qual modo – comunque – il tema della Biennale 2025, Theatre Is Body. Body Is Poetry si ritrova in tutti gli allestimenti delle prime giornate. C’è nel lavoro di Elizabeth LeCompte e del Wooster Group in Symphony of Rats in cui il corpo del presidente è oggetto oltre che essere soggetto dell’azione, c’è nella fisicità danzata e folclorica del lavoro di Barba, c’è nella sofferenza del corpo incurabile della performance firmata da Castellucci. Il corpo violato ed esposto è oggetto e soggetto del lavoro pop di Yana Eva Thönnes, Call me Paris che ha debuttato alla Biennale ma sarà in stagione all’Arena de Sole di Bologna il 21 e 22 marzo. Call me Paris porta in scena la storia di Paris Hilton nota ereditiera e it-girl, sedicente inventrice del selfie e protagonista forzata di 1 Night in Paris, sex-tape divulgato dall’ex fidanzato e quella di una ragazza tedesca di Bergisch Gladbach, soprannominata Paris, che si trova protagonista di una sua personale versione di 1 Night in Paris.  Un enorme letto con lenzuola di raso rosa, intorno a questo talamo degno di un film porno si muovono tre biondissime e un uomo, corpi di un racconto estremamente verboso che racconta la violenza subita dalla ragazzina, il furto dell’identità digitale della Hilton, vittima della diffusione del video hard. Tutto in Call me Paris rimane sospeso in una narrazione politicamente corretta che vorrebbe denunciare la violenza e non lo fa, vorrebbe riflettere, forse, sul mercato dei corpi e l’azione dell’immagine moltiplicata dai media, ma non emerge. Ciò che si fa e si racconta intorno a quel letto di raso rosa rimane lì, sospeso, molto di plastica, troppo distante per indignare, troppo descritto per dare allo spettatore la possibilità di aggiungere a ciò che accade il proprio sguardo inquieto. Forse è l’effetto voluto: Paris Hilton è una Barbie fuori tempo massimo e non può che rimanere lì bambolina di plastica senza cuore e senza anima. Ed allora il corpo non è poesia ma diviene solo strumento, oggetto inanimato su cui giocare le proprie fantasie. Se così è l’obiettivo di Call me Paris sarebbe raggiunto, ma forse è solo una deduzione a posteriori, così come quella fatina che sta immobile davanti al letto col corpo del maschio riverso sa di un intervento favoloso o drammatico che spetta al pubblico completare. 

Symphony of rats, testo di Richard Foreman, regia di Elizabeth LeCompte, Kate Valk, con Niall Cunningham, Jim Fletcher, Ari Fliakos, Andrew Maillet, Tavish Miller, Michaela Murphy, Guillermo Resto, scenografia Elizabeth LeCompte, design sonoro e musica Eric Sluyter, design video Yudam Hyung Seok Jeon, design luci Jennifer Tipton, Evan Anderson, produzione Wooster Group, al Teatro alle Tese, 31 maggio 2025.

Le nuvole di Amleto, testo di Eugenio Barba con citazioni dall'Amleto di William Shakespeare, drammaturgia e regia di Eugenio Barba, con Antonia Cioază, Else Marie Laukvik, Jakob Nielsen, Rina Skeel, Ulrik Skeel, Julia Varley, luci di Stefano Di Buduo, consulente del film Claudio Coloberti, scenografie dell’Odn Teatret, produzione Odin Teatret, Théâtre du Soleil, ERT - Emilia Romagna Teatro Fondazione, Tieffe Teatro Milano, al padiglone 30 di Porto Marghera, 2 giugno 2025. 

I mangiatori di patate di Romeo Castellucci, musica e voci di Scott Gibbons, Oliver Gibbons, drammaturgia di Piersandra Di Matteo, con Luca Nava, Sergio Scarlatella, Laura Pante, Vito Ancona, Jacopo Franceschet, Marco Gagliardi, Vittorio Tommasi, Michela Valerio, produzione Societas, al Lazzaretto di Venezia, 1 giugno 2025. 

Call me Paris, testo e regia di Yana Eva Thönnes, drammaturgia di Nils Haarmann, scene di Katharina Pia Schütz, costumi di Elke von Sivers, design sonoro di Ville Haimala, luci di Marcel Kirsten, con Jule Böwe, Holger Bülow, Ruth Rosenfeld, Alina Stiegler, produzione La Biennale di Venezia, Schaubühne Berlin, Emilia Romagna Teatro ERT – Teatro Nazionale, al teatro Piccolo Arsenale, 1 giugno 2025.

 

Ultima modifica il Mercoledì, 11 Giugno 2025 10:36

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