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Less is more. Sulla "Lehman Trilogy" al Gillian Lynne Theatre di Londra. -di Grazie Pulvirenti

"The Lehman Trilogy", West End 2023. Foto Mark Douet "The Lehman Trilogy", West End 2023. Foto Mark Douet

Less is more
Sulla Lehman Trilogy al Gillian Lynne Theatre di Londra

Less is more. Un’opera epica come la “Lehman Trilogy”, seppur ridotta per le scene londinesi a partire dal testo di Stefano Massini da Ben Power, ha un impianto epico, una moltitudine di personaggi, un attraversamento di anni, anzi secoli. Narra una storia che si dipana fra il 1844, anno di arrivo in America del primo Lehman, Hayum, fino al collasso della Lehman Brothers Holdings del 2008, che getta il paese nella più ingente crisi finanziaria dopo la grande depressione del 1929. 

E invece di indulgere in un sovraffollamento di personaggi, in una didascalica ricostruzione degli eventi, la strepitosa scelta di Sam Mendes, regista dell’indimenticabile American Beauty, si dirige verso un minimalismo estremo, creando un meccanismo teatrale da orologeria perfetta, nei ritmi, negli intrecci fra le voci narrative e dei personaggi, nei movimenti della scena, un cubo di vetro disegnato con grande eleganza e funzionalità da Es Devlin, nelle interpunzioni musicali dei sound designer Nick PowellDominic Bilkey, eseguite dal vivo da Yshani Perinpanayagam. Tutto confligge dentro un unico blocco multimediale, sullo sfondo delle videoproiezioni di Luke Halls, rigorosamente in bianco e nero, anch’esse sobrie e allusive, senza quella fastidiosa invadenza di molti esperimenti italici, nei quali la volontà di stupire prende la mano a registi e talenti digitali che inondano di immagini fortuite e arbitrarie lo spazio scenico. No, in questo allestimento è tutto ridotto al minimo, alla interazione dei linguaggi espressivi al fine di creare un’opera d’arte in se stessa conclusa, che accoglie e poi fa esplodere la storia. 

Sulle atmosfere cool ed evocative delle immagini a volte statiche, a volte in movimento, con effetti sorprendenti, per cui la dinamica delle stesse ci fa visivamente assistere in certi momenti al crollo verticale dell’attività dei Lehman e di tutta l’economia americana, si staglia il cubo di vetro rotante, ripartito in diversi ambienti, anch’essi in grado di alludere ai luoghi e ai diversi momenti storici dell’epica vicenda. In esso ogni attrezzo, ogni oggetto scenico non è mai di decoro, ma funzionale, come il grande tavolo che diviene luogo della ditta a New York e palcoscenico nel palcoscenico. Le luci di Jon Clark abbracciano il tutto, riuscendo a svolgere una funzione non solo prettamente espositiva, ma anche fortemente espressiva. Il tutto di una eleganza estrema. Una eleganza che non si vedeva da tempo.

Altrettanta eleganza caratterizza la recitazione dei tre mattatori della scena londinese, Nigel Lindsay nei panni di Hyaum, Michael Balogun in quelli di Mendel, Hardley Fraser in quelli di Mayer. Ma non è finita qui. Oltre a questi che sono i protagonisti della prima parte della vicenda, quella pioneristica della fondazione dell’attività a Montgomery in Alabama, i tre attori, danno vita a tutti gli altri personaggi, in un virtuosistico e vorticoso alternarsi di intonazioni, caratteri e idiosincrasie, con un costante gioco fra narrazione e recitazione della parte di ogni specifico personaggio. Basta un pretesto, anch’esso minimale, un paio di occhiali, un mazzo di tulipani, una giacca spostata, messa fuori posto a scoprire una spalla, un’attitude appena accennata a rendere credibile l’interpretazione di ciascun personaggio. Affascinante oltre ogni dire è questo continuo gioco incentrato nella dinamica del cambiamento, del mutamento della recitazione, delle intonazioni, dei ritmi, della gestualità, sapientemente curata da Polly Bennet, in ogni minimo movimento, anche delle dita della mano.

A poco a poco lo spettatore si trova catturato da un incanto, la teatralità che diviene la cifra meta-rappresentativa dello spettacolo, dal virtuosismo dell’abilità attorale, dalla efficacia della gestualità. 

Less is more. Proprio il minimalismo delle scelte registiche riesce a creare uno spettacolo che coinvolge il pubblico a ogni livello, giocando sulla sollecitazione dinamica del corpo, che non può non essere attivamente coinvolto dai ritmi del mutamento e della trasformazione, che dominano la scena. Ed è pure fortemente sollecitato sul piano emotivo, per via degli input contrastanti sul piano della Affektenhehre drammaturgica. Ciascun attore è infatti in grado di far empatizzare lo spettatore con il personaggio cui da vita in quel preciso istante, salvo poi, con una seppur minima contrastante inflessione, e soprattutto mediante l’interferenza epica della narrazione, mettere in crisi ogni possibilità immedesimativa. Per cui il pubblico è costantemente messo in gioco, fra toni narrativi, che sollecitano la valutazione critica, e l’adesione alle diverse istanze emotive dei personaggi. 

Alla fine quel che rende così efficace e affascinante questo spettacolo è proprio l’effetto suscitato dall’intero congegno teatrale, che fa entrare a far parte di una storia, di un mondo, che dalla piccola vicenda di tre fratelli entusiasti e dotati da grande capacità di improvvisazione e intuito nella creazione di capitale, giunge a rappresentare la storia economica, ma anche sociale ed etica, dell’intera America nel corso di ben due secoli. 

Grazia Pulvirenti

Ultima modifica il Martedì, 02 Maggio 2023 11:31

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