venerdì, 29 marzo, 2024
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I MAGNIFICI ANNI SETTANTA. -di Grazia Pulvirenti

“Dreigroschenoper”, Berliner Ensemble. Foto JR Berliner Ensemble “Dreigroschenoper”, Berliner Ensemble. Foto JR Berliner Ensemble

Vi propongo alcune riflessioni in merito alle cifre registiche che trasmigrano da un’epoca all’altra, come in una forma di Nachleben (revival) alla Warburg. Partiamo dalla considerazione che negli anni Settanta si è ormai affermato in Europa il cosiddetto Regietheater. Di fatto, chi ha visto gli spettacoli di quegli anni d’oro, ha assistito a operazioni estremamente interessanti: dagli spettacoli di Patrice Chéreau alle invenzioni di Peter Sellars, dalle sperimentazioni di David Alden, dalle “tedeschissime” regie di Harry Kupfer, alle raffinate scelte di Jonathan Miller
Tanto ricco di innovazioni, spunti e provocazione fu quel teatro, che ad esso hanno guardato con insistenza crescente, a volte ossessiva, i vari pseudo-sperimentatori degli anni successivi, soprattutto paradossalmente i più recenti (noblesse oblige: non si fanno nomi). In Italia soprattutto, dove nell’ultimo decennio abbiamo assistito a una “pseudo-modernizzazione” delle scene, soprattutto nell’ambito dell’opera lirica, che non ha fatto altro che portare a un bouillon riscaldato di quanto in realtà è orami trapassato remoto, impiattato come innovazione. Ed ecco infuriare regie che si distinguono per un apparente épater le bourgeois, atteggiamento che non porta a nuove idee, a una nuova progettualità, a una effettiva ricerca, ma alla citazione di clichée che, uno sguardo alle scene europee sa ormai leggere come inflazionati e superati. Eppure nell’italica patria si grida alla novità, alla rottura, alla modernità, mentre abbiamo per lo più solo assistito alla recupero di mode, incentrate sull’idea dell’attualizzazione, in pochi casi eccellentemente condotta, che per lo più si è frantumata nel citazionismo.
Eppure in quegli Anni Settanta in Italia si era davvero all’avanguardia: alla riflessione partecipavano con pratiche fortemente differenti da Strehler al Piccolo, a Ronconi, da Puggelli allo stesso Piccolo, al Teatro Uomo e ai Filodrammatici, a Castri, dal progetto del “teatro delle cantine” a Carmelo Bene etc. E quel teatro è ancora fonte di ispirazione, semplicemente perché radicato nella ricerca autentica, che ha regalato idee e piste tutte ancora da percorrere. A quegli anni sembra guardare il nuovo allestimento di Barrie Kosky della “Dreigroschenoper” al Berliner Ensemble, dove questo straordinario “play with music” incentrato sulla traduzione di Elisabeth Hauptmann della “Beggar’s Opera” di John Gray ebbe il suo debutto nel 1928. La centralità del titolo nelle scelte dei vari direttori che si sono susseguiti alla guida dell’Ensemble berlinese è imposta dalla storia stessa di questo teatro. E ovviamente per ogni nuovo regista (il precedente allestimento era stato curato da Bob Wilson) è una sfida impari confrontarsi con quanti lo hanno preceduto, come fu per Damiano Michieletto il suo allestimento del 2016 al Piccolo.
E il regista australiano ha vinto al sua scommessa. Con un occhio al teatro italiano proprio degli anni Settanta. Rifiutando la facile riduzione dell’opera a una forma di cabaret infarcita di intellettualismi e critica sociale, l’allestimento è ambientato sui vari piani di una impalcatura in ferro, all’interno della quale gli artisti guizzano come anguille da una “scatola” all’altra, con la dimostrazione di un’enorme prestanza fisica. Il graticcio di scale e cubi e parallelepipedi si staglia su dei fondali illuminati (in stile pieno stile strehleriano) che consentono il continuo cambiamento delle atmosfere, lasciando a vista lo spazio del palcoscenico. La struttura stessa della scena, disegnata da Rebecca Ringsts, consente al regista un dinamico gioco fra rappresentazione di una intera società marcescente e storie individuali, amori e affetti contrastanti, che mettono in gioco la psicologia delle differenti figure femminili amate da quel rozzo Don Giovanni del Novecento che è Mackie Messer. La scelta di Kosky, con i suoi tagli e la riduzione della tessitura a una drammaturgia estremamente incalzante e ricca di sfaccettature, riscatta l’opera da ogni sua musealizzazione successiva, le restituisce brio, estro ed impatto emotivo. Il personaggio di Mackie Messer, egregiamente interpretato da un sanguigno Nico Holonics, non è il tipico stereotipato villain, ma un volgare e brutale uomo criminale di periferia, studiato non su modelli astratti, ma su una serie di atteggiamenti desunti dalla vita reale della criminalità da suburbio trasformati in stereotipi. L’esuberanza fisica dell’attore conferisce inoltre una vitalità incontenibile e straripante al personaggio, che appare veritiero e non un prototipo del male. Egregiamente indagate a livello psicologico sono le figure femminili del consumato amante, dalla Polly innamorata e combattiva di Cynthia Micas alla deliziosa e affascinante Jenny di Bettina Hoppe, fino alla fintamente infantile Lucy di Laura Balzer. Josephin Platt è “der Mond über Soho” e fornisce un’interpretazione graffiante e onirica del celebre song “Und der Haifisch, der hat Zähne”, ripetuto anche nelle battute finali dell’allestimento. Come demiurgo ormai spezzato dalla fatica di vivere e dalla malinconia, da un bisogno manifesto di essere ammirato e amato, appare il Peachum di Tilo Nest, a cui si affianca la consorte interpretata da Constanze Becker, in un’alternanza di remissività al marito e ribellione. Illusione e disincanto, consapevolezza del degrado della società umana e speranza utopica di riscatto nell’amore costituiscono le coordinante dell’indagine compiuta da Barrie Kosky attraverso le pieghe di un testo che non smette di sedurre e coinvolgere emotivamente le platee, grazie alle musiche di Kurt Weill, egregiamente interpretata, in questo casso, dalla bacchetta di Adam Benzwi.

Elisir 045 Monika Rittershaus
”Elisir d’amore”, regia Percy Adlon. Foto Monika Rittershaus

Un esempio, per contro, di una pessima caduta di stile nella regia che cerca l’innovazione nella “stranezza” delle idee e nella loro incongruenza rispetto al testo, è fornita dall’”Elisir d’amore” per la regia di Percy Adlon, uno spettacolo del 2002, che non fa altro che proporre micro-trovate, come il continuo apparire di personaggi con maschere teriomorfe, che attraversano arbitrariamente la scena in degli assolo di dubbio gusto. Il kitsch montano, la rozzezza della comunità che indossa costumi assi brutti oltre che inutili alla totalità della scena, anche’essa di scarsa efficacia di Frank Philipp Schlößmann, annoiano più che divertire. Con buona pace dell’innovazione che culmina nella roulotte color oro di Dulcamara a forma di cuore.
L’unico vero motivo di interesse della serata è stata la fantastica interpretazione di Erwin Schrott, godibile in ogni momento, a volte sulle righe, ma il ruolo di Dulcamara lo consente. Al suo fianco una compatta compagnia di canto di buon livello, con una nota particolare di plauso per il Nemorino di Bogdan Volkov e una di demerito per la troppo esile Adina di Hera Hyesang Park. Convincente infine la direzione di Speranza Scappucci, che punta molto sulla brillantezza e l’allegria. Il bisogno di sorridere e ridere emerge dalle scelte registiche delle due opere qui discusse. Forse per contrastare la mestizia e la malinconia di questi nostri tempi.

Grazia Pulvirenti

Ultima modifica il Lunedì, 28 Novembre 2022 15:17

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