PASOLINI: “RICORDANDOCI DI RICORDARE”
In sere del passato e sferzante teatralità
di Angelo Pizzuto
Le memorie del cuore aiutano a superare le cattive reminiscenze
Gabriel García Márquez
Oltre che vano, sarebbe un errore - credo - cercare di districarsi fra il Pasolini regista di cinema, il poeta friulano (e civile), l’autore di teatro, lo scrittore ‘corsaro’, con un’appendice mai ben approfondita di disegnatore a puntasecca. Quindi di un Pasolini suddivisibile e ‘sezionabile’ solo in ambito accademico, divulgativo ma del tutto auto-inter-dipendente nella sua prassi di artista eclettico, struggente, ‘bulimico’ di conoscenza, come solo durante il Rinascimento vi fu traccia ed esempio.
Ragione per la quale anziché cedere alla tentazione del compendio accademico, specie per quel che concerne le nostre competenze (le relazioni fra teatro e cinema), preferisco espungere, divagare fra alcune riflessioni o note a margine che ritrovo ripercorrendo le ultime occasioni di “incontro” giunte, a sostegno del teatro pasoliniano, dalla sua stessa lezione filmica (e\o drammaturgica) e dalla cura ad esso rivolta da alcuni protagonisti (famosi e no) della scena italiana.
Appunti da La ricotta nella scarna, appassionata versione di Fassari e Battista
Immaginato agli inizi degli anni Sessanta e sceneggiato nel 1962 (quindi, dieci anni prima che Elio Petri e Ugo Pirro constatassero l’impossibilità della classe operaia di “accedere al Paradiso”) La ricotta di Pasolini è, in prima istanza, una sceneggiatura in forma di racconto, fertile di un’immaginazione e forza evocativa che sarebbero di per sé esaustive anche senza la visualità dell’immagine filmica in cui il poeta-eretico radicalizza le riflessioni teoriche messe a punto nei tanti tipi di ‘scrittura’ diversi dell’immagine riprodotta (ma ad essa indirizzati). Come, ad esempio, il principio di ‘narrazione cinematografica’ quale sintassi autonoma (rispetto a quella della narrazione vergata e orale), conforme alle ‘partiture di preparazione al film’ (dal soggetto ai sopralluoghi), concepiti come vera e propria liturgia di introduzione alla natura collettiva - non più ‘ripensabile’ - della realizzazione filmica: nel momento del suo ‘distacco’ dall’artefice letterario al contributo di chi ne assumerà le responsabilità esecutive (direttore della fotografia, attori, maestranze). Dubbi, travagli, incertezze densi di analogie con la lacerazione, l’esaltazione, lo smarrimento che si accompagnano ad ogni ‘creatura’ che venendo a (questo) Mondo - "lacerando il ventre della madre” - viene strappata a quello delle Idee platoniche.
Dal progetto alla prassi, La ricotta (che andò in scena al Vascello di Roma, mezza dozzina di anni fa) divenne uno dei quattro episodi del film Ro.Go.Pa.G. – Laviamoci il cervello, laddove Pasolini veniva affiancato ad autori di culto quali Rossellini, Godard e al ‘giovane’ Gregoretti. Trattandosi di una crudele allegoria incastonata come ‘film nel film’, la vicenda si compie, come triste rapsodia, nel corso delle riprese di un ‘peplum’ sulla Passione e la Deposizione del Cristo, in braccio a Maria, alla Maddalena e agli apostoli radunati sul Golgota.
A un figurante di nome Stracci è assegnato il ruolo di uno dei due ladroni crocefissi al fianco di Gesù; e ad egli “spetta realmente morire" (a ciascuno la sua croce) a causa di una congestione addominale per eccesso di fame e di cibo. Del resto - commenterà Orson Welles, magnifico e indolente regista del film in lavorazione, circondato da giornalisti melliflui e panciuti produttori - “Povero Stracci…non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo”. Così enucleando il senso di una morte narrata in un perfetto intarsio di tensione morale e ‘ridicolizzanti’ sequenze con fotogrammi accelerati tra vocazione pittorica (primi piani di facce liete e lombrosiane, citazioni da Caravaggio, Pontormo, Mantegna) e vilipendio della religione farisaica (che costò a Pasolini una condanna penale e il sequestro dell’opera).
Dotato di cruda compostezza cronistica, il rito che Antonello Fassari e Adelchi Battista ne desumono asseconda quel teatro di ‘parola’ e ‘straniazione critica’ perorato da Pasolini nella prefazione ad Affabulazione, Orgia e Bestia da stile. Ovvero: su spogli elementi scenografici che rimandano ai residuati di un set cinematografico ‘povero e desolato’, il teatro di narrazione professato da Fassari lavora per sottrazioni e prosciugamento di orpelli, emozioni, consolazione e il ‘racconto’, costernato e neutro della sceneggiatura ‘tale e quale fu scritta’, esalta lo spessore politico e poetico della serata. In essa si trasfigura, con laico disinganno, il rapporto tra ‘assoluto e profano’, tra ‘poveri cristi’ e calvario reale di chi affonda nell’indigenza ‘famelica’ senza (nemmeno) l’idea di chiedersi chi sono i suoi veri aguzzini - ad estremo sfregio della dignità umana, triturata in catene di montaggio tra (induzione ai) consumi e (momentaneo) valore d’uso. Perchè, se tutto e tutti hanno un prezzo, a pochi (privilegiati? predestinati?) è riconosciuta la qualità del proprio "restare o andarsene”. Senza fronzoli e vittimismo, come del resto sarà per Stracci, umiliato ed intruso come l’Accattone di Franco Citti e dell’esordio di Pasolini regista.
Due sere a Spoleto, “ritemprando” Pasolini di nuove vitalità
Dalla tragedia del rifiuto alla farsa plautina scaturiti dalla terzultima edizione Festival dei Due Mondi di Spoleto, il cui cartellone di prosa era efficacemente centrato proprio su un tributo a Pier Paolo Pasolini. Gli allestimenti di Porcile, per la regia di Valerio Binasco, e di “Miles gloriosus”, curato da Pier Paolo Pasolini, rappresentano due momenti efficaci, esplicativi, non meramente divulgativi dell’idea di teatro (essenzialmente di ‘parola’: dialettica, monologante, esclamativa, sommessa) che pulsava, in via del tutto teorica, nell’incompiuto ideale drammaturgico dello scrittore friulano. Vigorosamente capace, durante l’estate del 1966, di concepire e redigere le sei tragedie apodittiche e ‘di pura oralità’ (da Pilade a Bestia da stile, precedentemente citati) le quali rappresentano al meglio i conflitti morali, umorali, civico-politici frastaglianti la coscienza dell’unico intellettuale italiano capace, nel Novecento, di intuire, preconizzare le disperazioni, individuali e collettive, del ‘tramonto d’Occidente’.
Entro una sfera di disadattamenti, rifiuti, ripulse individuali di cui Porcile resta l’allegoria più estrema, spietatamente bizzarra, irrorata di grottesco e di raggelata ‘pietas’ umana. Dinanzi a quel ‘figliolo astenico’ che, indifferente ad ogni ideologia o impulso ribellistico, si lascia morire, divorato dalle morfologie suine che ama in spregio ad ogni estetica muscolare, fidiaca, proto-consumustica ed in opposizione alla suadente supremazia del padre che vorrebbe istradarlo, d’intesa con una combriccola di amici bizzarri e affaristi, verso una qualsiasi (‘democratica’) forma di normalità. All’impossibilità di accedervi, Valerio Binasco (contornato da un ottimo cast, che va da Francesco Borchi a Mauro Malinverno, da Alvia Reale a Fulvio Cauteruccio), sottrae ogni presunta istanza di ordine politico-generazionale (la vicenda pasoliniana ha luogo in una imprecisata località della Germania post-nazista, quella dei primi fermenti terroristici) per assegnarle cadenze e sfumature di tono più lievi, liriche, melanconicamente sobrie ed esistenziali. Prospettive raggiunte mediante cesure filmate che rimandano a certe atmosfere ‘spensierate’ dei poco ruggenti anni Sessanta (quelli che Pasolini indagò da giornalista e reporter, a zonzo su una 600) e ad un’introspezione minimalista, antieroica di un disagio giovanile consanguineo degli infranti gabbiani di Cechov, dei tanti “Pel di carota” che non abitano caselle anagrafiche - e persino di quei disorientati ragazzi della piccola provincia americana a contatto con l’orrore dello ‘svezzamento necessario’ così come immaginato da Stephen King nel torrido e ‘pedagogico’ Stand by me (da cui il bel film di Reiner del 1986).
Complessivamente più ‘addomesticabile’, divertita ma convenzionale la rilettura del “Miles gloriosus” (esplicitamente Il Vantone nella vulgata comune) che Federico Vigorito sostanzia di una solida scenografia aderente (alla lettera) alla romanità fescennina dei tempi di Plauto (che Pasolini, con l'aiuto di Sergio Citti, intarsia di una lingua\dialetto fantasiosa, icastica) e alla solida impronta attorale di Edoardo Siravo (militare reduce e spaccone), affiancato da un Ninetto Davoli, di lui servitore. Egli - secondo modalità che ritroveremo nella commedia del'arte e nello Sganarello di Don Giovanni - ne biasima e ridicolizza la vocazione ad arrampicatore sociale, seduttore da quattro soldi, sempre in ragione di un’ascesa di ruolo e di riconoscimento socio-gerarchico che ‘amoreggia’ servilmente con ogni genere di potere e con chi lo incarna.
Sino al punto - intuiva Pasolini, con largo anticipo sui tempi concreti - da usurarne ogni speme ideologica, con utopie al seguito, plasmando e addomesticando la mucillagine umana ai bisogni indotti di chi (pragmaticamente, per egemonia finanziaria e culturale) occupa un posto di spicco nel ‘mondo di sopra’ (Carminati, Buzzi… vi dicono nulla questi cognomi) e lascia che quello ‘di sotto’ marcisca nel servilismo dei sicofanti e utili idioti. Visione dichiaratamente ‘morale’, in spregio alle strategie di ‘riformazione’ dei rapporti di classe e interpersonali, che in Pasolini si eleva di intransigenza e pessimismo storico e che, nello spettacolo di Vigorito, appare - però - esaurirsi in una blanda, ‘frescanzana’ occasione di teatralità mobile ed estiva.