venerdì, 19 aprile, 2024
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Di scena le relazioni: palcoscenici da sfogliare. L’impegno di Cuepress per il teatro sociale. -di Nicola Arrigoni

La definizione «Teatro sociale» rischia di essere una tautologia. Infatti il teatro, verrebbe voglia di dire, è sociale di per sé, per definizione, se non per semantica. Non esiste teatro senza lo sguardo dell’altro, non esiste teatro senza relazione fra chi è in scena e chi è in platea, anche se arriviamo da un periodo che ha cercato di scardinare questo hic et nunc del teatro, cercando di frequentare il sempre e ovunque dei new media. Ma questa è un’altra storia. Parlare di teatro sociale – definizione che ha un suo riferimento formale nella pubblicazione de Il teatro sociale di Claudio Bernardi 1- vuol dire far riferimento a tutta quella serie di esperienze legate al disagio e alla cura, ma anche alla socialità, in cui il teatro può fungere da strumento maieutico, se non terapeutico. Oggi più che mai questa facoltà si presenta come un’esigenza da frequentare, forse cavalcare per ricostruire quell’esperienza dell’essere con gli altri che il distanziamento sociale ha arrugginito, causando ferite profonde – di cui bisogna ancora prendere coscienza – nelle fasce più deboli della popolazione.

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E prima di entrare nel merito piace dire di una testimonianza. Diridi Aisha, studentessa di terza liceo scientifico Aselli di Cremona, alla richiesta di come abbia fatto fronte ai due anni di pandemia e cosa le sia mancato in questi due anni, ha dichiarato come «le relazioni sono state annullate, azzerate – ha detto Aisha -. Dopo un primo anno fatto a metà, l’anno scolastico passato fra periodi di dad e periodi, pochi, in presenza ha messo a dura prova il mio equilibrio. Ho trovato nuovi stimoli e entusiasmo per la scuola e la voglia di ricominciare a incontrare gli altri frequentando un laboratorio teatrale, promosso dal mio liceo. Dopo questa esperienza, che continuo anche oggi, mi sono sentita una ragazza diversa, più capace di interagire con gli altri, cresciuta, con maggiore consapevolezza di me». Il teatro sociale – anche in ambito scolastico – è questo: uno strumento non terapeutico, ma maieutico, un’occasione per costruire relazioni in contesti di socialità, rischia di essere allora un puro accidente la condizione eventuale di disagio, se solo ci si rendesse conto delle potenzialità terapeutiche del teatro. Nel teatro sociale la cura è allora il «prendersi cura di», l’I care dei don Milani, il mi interessa e mi interessi. In questa direzione va un recente saggio che offre una sorta di manuale teorico pratico di teatroterapia, firmato da Walter Orioli e pubblicato per Gaglio Edizioni, Teatroterapia. Prevenzione, educazione, riabilitazione e arte della scena: indicazioni operativa (pagine 254, 16 euro).

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Giulia Innocenti Malini, Breve storia del teatro sociale in Italia

Con questa lunga premessa si vuole sottolineare come la riflessione sulle dinamiche relazionali che sottostanno alla semantica teatrale rappresentino un campo di riflessione e di prassi consolidato che ha un suo articolato e ampio spazio di documentazione editoriale. In questa direzione si muove con coerenza documentale la casa editrice Cuepress che in poco tempo e in piena pandemia ha inanellato una serie di uscite dedicate proprio al teatro sociale e al suo variegato universo espressivo, senza porre steccati di genere e di linguaggi. La linea che muove questa scelta editoriale – si crede – sia quella di documentare, dare memoria a pratiche e progetti che vivendo dell’effimero della performance hanno necessità e provano la libido di fermare su carta ciò che fanno e ciò che sono. A questo aspetto – che si dirà di documentazione – se ne affianca un altro più teorico/saggistico che propone una riflessione in fieri. In questo contesto si pone il bel lavoro di sintesi di Giulia Innocenti Malini, Breve storia del teatro sociale in Italia (Cuepress, 128 pagine, 22,99 Euro), un excursus che parte dalla definizione di teatro sociale, per documentare le esperienze storiche e forse che precorsero le attività teatrali nei luoghi del disagio con accenni – necessariamente sintetici – alle esperienze di Grotowski, del Living Theatre, di Eugenio Barba per arrivare al teatro di animazione e ai gruppi di base. Ciò che fa Innocenti Malini è disegnare il contesto storico e scenico che fa da apripista alle esperienze della fine del secolo e dell’inizio del nuovo Millennio. Nella sezione La rivoluzione carsica che abbraccia un periodo che va dal 1978 al 2008 le esperienze di gruppi come la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, il Teatro Kismet – solo per citarne alcuni – raccontano di un terreno liminale che unisce spettacolo e azione sociale e che fa del dialogo con le comunità o situazioni di disagio sociale un tratto etico ed estetico d’azione. In questo senso esperienze «periferiche» come quelle del Teatro degli Affetti di Giulio Nava, oppure il teatro di comunità nelle realtà di Torino, Piacenza, Cremona. L’autrice sintetizza esperienze messe in atto nei diversi territorio soprattutto negli anni Novanta, raccontando di una vivacità non costante, ma che di volta in volta si ripropone, rinnovata e innovante. L’ultima parte del saggio Al presente (2008/2020) prende il titolo in prestito a uno spettacolo di Danio Manfredini e analizza la situazione attuale ma soprattutto cerca di portare a sintesi – in fase di conclusioni – le conquiste di pratiche e modalità d’azione diversificate che comunque hanno apportato cambiamenti concreti, aprendo l’azione teatrale alla vita reale. Ciò che fuoriesce dal saggio di Innocenti Malini è una parabola espressiva che fa esplodere il teatro sociale nei suoi diversificati aspetti e intersezioni non esclusivamente performative, ma anche relazionali, istituzionali, di rete e di collaborazione fra realtà ed enti che diversamente non si sarebbero mai interfacciati.

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Andrea Porcheddu - Che c’è da guardare?. La critica di fronte al teatro sociale

Piace rubare, a questo punto, una citazione in Breve storia del teatro sociale in Italia che appartiene a Sisto Dalla Palma nel saggio La scena dei mutamenti: «Non si tratta di scardinare i confini tra le varie aree del teatro secondo un assioma che nessuno è in grado di formulare: tutta l’esperienza più recente del teatro dimostra che gli esiti più significativi si sono avuti quando si sono realizzati non solo genericamente scambi e integrazioni tra i linguaggi ma incontri tra persone, ognuna portatrice di specifiche esperienze, ma tutte insieme capaci di rappresentare, in una porzione di spazio pur limitato, il grande teatro del mondo. La scena teatrale si pone oggi al centro di una complessità sociale, a volte drammatica, non per evocarla o subirla in modo confuso, ma per assumerla e trasformarla nella prospettiva di autentici atti di libertà e impegno civile».2 Queste parole aiutano a introdurre un altro tema che è quello dell’incontro e dello sguardo sul teatro sociale. Un aspetto, questo, ben affrontato da Andrea Porcheddu che in Che c’è da guardare?. La critica di fronte al teatro sociale d’arte (Cuepress, pagine 126, euro, 18,99) chiama in causa lo sguardo dello spettatore professionista. Come porsi davanti a uno spettacolo di teatro sociale? come argomentare il giudizio? Quali categorie di analisi mettere in atto? Sono questi alcuni degli interrogativi che Porcheddu non solo inanella teoricamente e con un’analisi teatrologica interessante, ma che declina e mette alla prova esaminando dati ed esperienze concrete che hanno messo alla prova il suo sguardo di spettatore professionista. Ed è proprio l’approccio esperienziale del lavoro di Porcheddu che fa da apripista ad un altro volume del critico e saggista, questa volta dedicato alla danza in ambito sociale. Altri corpi/Nuove danze, sempre pubblicato da Cuepress investigare le nuove espressioni della danza contemporanea: corpi diversi, fisicità extra-ordinarie, la disabilità e le nuove possibilità che può dare alla creazione artistica.
E sempre per rimanere in tema di danza e diverse abilità risulta assai interessante la proposta del volume di Adam Benjamn, Making a dance. Si tratta della «prima introduzione pratica per insegnare danza ad allievi disabili e non disabili considerati su un piano paritario. Il manuale, «scritto in modo chiaro e scorrevole, benché a tratti provocatorio nel suo approccio radicale al rapporto tra danza e disabilità, è una lettura essenziale per chiunque desideri approfondire il tema della diversità attraverso l’arte della danza», si legge nelle note introduttive. In questo ambito si pone anche il volume dedicato alla Compagna Xe e redatto da Julie Ann Anzilotti, Impronte di danza in cui «la proficua collaborazione fra danzatori, critici, studiosi, istituzioni, contesti sociali e familiari ha permesso a voci diverse di divenire testimoni della crescita espressiva e comunicativa dei protagonisti, mostrando le potenzialità che emergono da corpi e fisicità stra-ordinarie orientate alla creazione artistica», si legge nelle note editoriali.
L’attenzione della casa editrice, diretta da Mattia Visani, al teatro sociale si concretizza in una serie di uscite monografiche che raccontano esperienze di compagni o di gruppi, documenti dell’azione scenica integrata col contesto territoriale e comunitario che danno conto di una vivacità che resiste malgrado tutto e che si offre come scenario per una espressività che non s’arrende e resiste. In questo contesto vanno letti i volumi Factory di Alessandro Toppi e Michele Di Donato, Cross the Gap di Maria Chiara Provenzano. In Factory l’analisi dell’attività della compagnia spazia dalla prosa al tout public, abbracciando anche progetti speciali che prevedono l’incontro con la disabilità. Rivisitazione dei classici, lavori corali, teatro d’attore, danza, teatro di figura, lavoro sulla memoria territoriale sono gli ambiti plurali in cui si declina la poetica del gruppo. Lo sguardo di Cross the Gap sperimenta molteplici modalità di inclusione nel campo teatrale, una buona pratica portata avanti dalla compagnia Factory Transadriatica, la testimonianza di un progetto europeo di ampio respiro. Cross the Gap è un’esperienza di vita e di teatro che nasce all’interno di un programma di integrazione che unisce Italia e Grecia, teso all’abbattimento delle barriere sociali e architettoniche, affinché la cultura sia universalmente accessibile.
In questo parziale e monografico excursu sul teatro che intesse relazioni sociali e agisce sulla comunità sembra di poter scorgere e confermare una vivacità che non deve andare sprecata, che Cuepress documenta con passione, che racconta di un comparto delle arti performative che non vuole essere confinato nel tempo libero, ma dice di appartenere al quotidiano e di avere come obiettivo trasformare il nostro vivere quotidiano in qualcosa di straordinario, grazie alla capacità di stare con gli atri. Non una cosa da poco per una piccola ma determinata casa editrice di libri teatrali.

1 C. Bernardi, Il teatro sociale. L’arte tra disagio e cura, Carocci editore, Roma, 2006.

2 S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, Vita e Pensiero, Milano, 2001, p. 147.

Ultima modifica il Domenica, 30 Gennaio 2022 19:44

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