Più che meritevole sia nelle intenzioni che sostanza, l’itinerario (e le “soste”) in piccole gemme del teatro di prosa –la sua variegata pluralità i espressioni- intrapresa da qualche settimana da Rai 5 con immediate repliche ‘on demand’ (gratuite) sulla doviziosa piattaforma di Rai Play. Essendoci ripromessi, la settimana scorsa, di farvi cronaca dell’inusuale ”buon servizio” reso dal “servizio pubblico”, cerchiamo di proseguire almeno nella cernita dei titoli più significativi. Possibilmente suddivisi per analogie tematiche o di linguaggio scenico. Come nel caso di questo dittico della Memoria e dell’Olocausto, imperniato sul dramma dei sopravvissuti, sull’oggettiva difficoltà di separare, come manichei, il torto dalla ragione, la vittima dal carnefice. Giunti a un “redde rationem” ove il primo a liquefarsi sarà il lume del ‘ragionevole’, del libero arbitrio della pavidità frammista a barlumi di pietas e consapevolezza del crimine. Che è Male Assoluto, non redimibile, sempre e comunque, in ogni epoca e circostanza.
Giuseppe Pambieri e Carlo Greco, diretti da Moni Ovadia, sono i protagonisti di “Nota stonata” di Didier Caron (autore francese, classe 1965, poco noto in Italia) messo in onda e quindi reperibile su RaiPlay, la e in cui si componevano le iniziative del Giorno della memoria. L’azione si svolge nei primi anni ’90, alla Filarmonica di Ginevra, nel camerino del direttore d’orchestra di fama internazionale Hans Peter Miller. Rientrato alla fine di un concerto, il Maestro viene importunato dall’invadente spettatore Léon Dinkel, che si presenta come un suo grande ammiratore, venuto appositamente dal Belgio per applaudirlo. Più il colloquio fra i due si protrae, più il comportamento di questo visitatore diventa strano e oppressivo. Finché si giunge a scoprire un oggetto del passato. Chi è questo inquietante Signor Dinkel? Cosa vuole dal direttore Miller?
Giallo psicologico, a sfondo storico, con tutti gli ingredienti e giusti dosaggi di tensione, colpi i scena, ribaltamento di fronte, “Nota stonata” (nella ben scandita e spedita traduzione di Carlo Greco), primeggia per la sinuosa aggressività\allusività di un dialogo in cui si dice per “non dire”. Sullo scorrimento di un retro pensiero non rivelabile, ma ossessivamente condizionante: ciascuno per una remota, impellente ragione che è tragedia di vita vissuta e irreparabilmente “archiviata” in questo ‘enrt’acte’ che è, al contempo, compiuto fallimento di una sublime, beffarda iperbole. Che annaspa la sua catarsi nella vendetta postuma guori tempo massimo e “persino ridicola”.
“Il visitatore” di Eric Emmanel Scmitt immagina, nell’aprile del 1938, la ex Austria “felix” da poco annessa di forza al Terzo Reich. Nella Vienna occupata dai nazisti (e gli ebrei perseguitati ovunque), nel suo famoso studio di Bergstrasse 19, Sigmund Freud (Alessandro Haber, materico e ‘confusionale’ ), “l’eminente psicanalista, padre della disciplina” attende col cuore in gola notizie della figlia Anna (Nicoletta Robello Bacciforti), preda provvisoria di un ufficiale della Gestapo. Solo pochi attimi: dalla sbilenca finestra dell’asimmetrico studio (simbologia delle nostre anime?-allude la regia di Valerio inasc) sbuca una sorta di “visitatore ginnico” (Alessio Boni, bravissimo), metà cicense metà clochard, capace di imporre all’interlocutore illustre una sorta di sui massimi sistemi: fuori tempo e fuori luogo, considerate circostanze e stati d’animo. “Il grande indagatore dell’inconscio è insieme infastidito e incuriosito". Chi è quell’inruso? Cosa vuole?- annotiamo Né furfante né psicopatico “il visitatore è in cerca di assistenza”. Se solo si dichiarasse… Incredulo, infastidito, ma stupefatto, Freud si renderà pesto conto (cedere o non credere) di essere di fronte nientemeno che al Padreterno (o a una sua bizzarra controfigura?). Lo stesso Dio del quale ha sempre negato l’esistenza argomentando (come Feuerbach) che”l’uomo se lo inventa quando ha paura di vivere” . E’ un pazzo chi si crede “prossimo” a Dio? O è Freud a dar fuori di testa nell’attimo in cui “la paura per l’amata figlia” travolge ogni raziocinio, ogni “fede” positivista? La discussione che si svolge tra il visitatore e Freud, e che costituisce il nucleo di una pièce è capziosa, sediziosa, a tratti ”incandescente”- quindi possibilista negli sbocchi drammaturgici. Nel più imbarazzante e sconvolgente degli enigmi immaginabili: Freud –adesso- crede o non crede? Dio, del resto, non è disposto a dare dimostrazioni di sé “come se fosse un mago o un prestigiatore”. Al massimo, se potrà bastare, ecco dall’uscio i casa, rientrare indenne Anna Freud, con il consueto corredo di domante inevase ma fatali : se Dio esiste, perché permette l’Orrore cosmico? La strage degli innocenti? Se Dio esiste “perché non lascia traccia di sé impedendo che il libero arbitrio oltrepassi l’assurdo”. Oppure serve considerarlo lontano dalle vicende umane? Ascrivibile ad una dimensione siderale-metafisica a noi interdetta (“lontano dal paradiso”? Basico, irruente, ben tornito e marcatamente ‘tangibile’(sino al grottesco\favolistico, ad una vaga ipotesi visionaria) questo “Visitatore” di Binasco e soci abita, senza abusare, all’estremità della storica edizione, linda e sulfurea, da rarefatto apologo in bianco e nero, realizzata a inizio anni ’90 da Antonio Calenda, con Turi Ferro (umile, magmatico, memorabile) e un Kim Rossi Stuart molto “sdraiato” su di un ruolo che quasi ne angelicava le sembianze adolescenziali.
Angelo Pizzuto