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ALBERTO SORDI, IL CENTENARIO - Una mostra (a settembre), una riflessione (non convenzionale). -di Angelo Pizzuto

Alberto Sordi Alberto Sordi

Avrebbe dovuto avere inizio a fine giugno, è stata invece prorogata a settembre (visitabile sino a fine gennaio del 2021) la mostra polivalente dedicata ad Alberto Sordi allestita presso la grande villa dell'attore sobriamente situata, nel verde dell’Aventino, a Roma, con vista sulle vestigia del Circo Massimo.
Esposizione giù definita dai promotori (Cinecittà, la Casa del Cinema, il Comune capitolino) un unicum per conoscere l'artista ‘segreto’. “All’interno della sua casa la vita e l’opera dell’attore –si legge in un comunicato- interagiranno con gli ambienti, gli oggetti e le memorie finora poco conosciuti. Un viaggio alla scoperta dell’artista e dell’uomo, un suo ritratto in tutti i suoi risvolti e le possibili sfaccettature”.
Inoltre, in occasione della mostra, verranno editi due cataloghi per i tipi di Skira, uno dedicato alla mostra, l’altro alla villa, che saranno presentati per l’occasione.

I coccodrilli non piangono (a.p.)
Il destino, o chi per lui, volle –nel 2003- che Alberto Sordi se ne andasse poche settimane dopo che analogo congedo lo aveva già intrapreso Leopoldo Trieste, malgrado quest’ultimo non avesse mai suscitato identificazione collettiva e quindi cordoglio popolare. Sia Alberto che Leopoldo erano, ai loro esordi, sopraffine creature felliniane, gaudenti o saturnini teatranti “traviati” dalle Morgane di Cinecittà e dalle lusinghe (chi le rifiuterebbe?) di sostanziosi introiti. Nell’anima- ne sono certo, per quel po’ che mi è stato dato di conoscerli – erano rimasti radicali uomini di teatro: formidabile esibizionista Alberto, misantropo cultore di copioni mai scritti Leopoldo. Non so se nella vita di tutti i giorni i due fossero rimasti amici o per lo meno in contatto: ne dubito, tenuto conto dell’indolenza di entrambi. Ma. da quando entrambi son passati nel “non so dove”, piace immaginarli ciascuno complementare all’altro. Nottambulo e serenamente solingo, Leopoldo; quasi una variante dell’”uomo in frac”in abiti vistosi, nelle solitarie insonnie di Porta Pinciana, Alberto Sordi.
Sia Alberto che Leopoldo amavano timidamente, incompiutamente, riservatamente un campionario “concreto- immaginario” di donne che avrebbero fatto invidia al Fellini di 8 1/2. …Perché, al dunque, entrambi abbandonarono il teatro attivo (ben al di là della facile considerazione chela loro stessa “presenza” era ambulacro di teatro: plateale nel primo, surreale nel secondo)? La risposta abita il mondo delle ipotesi, ma ne azzarderei un paio che mi sembrano le più plausibili. Diversamente da Gassman, Mastroianni, Manfredi e Tognazzi (che, per inciso, fu un atipico e straordinario Padre nei “Sei personaggi…”, inizio anni ottanta e in lingua francese all’Odeon di Parigi),
Alberto Sordi (e presumo anche Trieste) identificavano il teatro con gli stenti del dopoguerra e con la precarietà delle cene a base di cornetto e caffellatte. Tant’è vero che, in veste di autore e interprete, Alberto esorcizzò e rese grazie a quell’impareggiabile apprendistato di arte e di vita che resta il divertente e malinconico Polvere di stelle. E sicuramente ha ragione la compianta Rita Sala quando racconta (intervistata da RAI News 24) che l’indolenza di Sordi (secondo motivo di distacco dalla dura routine del teatro) privò noi tutti di una rentrée che avrebbe rinverdito e potenziato le sue personalissime doti di comunicativa e improvvisazione. Episodio, quest’ultimo, che ci riporta alla scomparsa di Aldo Fabrizi (così come sapidamente interpretato da Lillo Petrollo nel recente film televisivo di Luca Manfredi e Edoardo Pesce), al vuoto da lui lasciato e alle insistite offerte che Pietro Garinei espresse nei confronti di Alberto per l’assegnazione del ruolo di Mastro Titta (il boia dal cuore buono) nella ripresa del “Rugantino” (con Enrico Montesano) dapprima al Sistina, poi in spopolante tournée europea (inizio anni ’90).
Si favoleggia che Sordi ne abbia fatto una questione di paga, “scapricciando”che lo spettacolo non si spostasse da Roma e che si svolgesse, preferibilmente, in repliche pomeridiane. La “proustiana” abitudine ad andare a letto presto e cenare in compagnia delle sorelle era una leggenda esistenziale da cui Albertone, patriarca di se stesso, non derogava se non due, tre volte al mese, ospite coccolatissimo di stretti sodalizi o fidati amici. Tant’è vero che ai tempi della “dolce vita” si diffuse la fama dell’uomo taccagno semplicemente perché l’attore non amava tirar mattina e considerava la vita metodica, il sonno regolare le condizioni essenziali per presentarsi, ogni mattina, in piena forma sul set. Del resto i vagabondaggi notturni, le ore di sonno in seconda classe, la vita raminga, che tanto detestava, Alberto li aveva vissuti fino alla nausea negli anni dell’aspra gavetta (sul finire degli anni trenta) negli avanspettacoli di Trottolino, Fanfulla, Nanda Primavera. Sino a quella notte del ‘43 quando, ultimata la replica del Teatro da camera, alla Galleria Colonna di Roma, non si trovò a festeggiare - lui da solo - la prima sortita coniugale di Fellini e Giulietta Masina, poveri in canna e invitati da Sordi al Caffè Aragno di Galleria del Corso.
Sino all 1952 del resto, la presenza di Sordi nel teatro di rivista è costante e garante di successo popolare: la sua duttilità, la sua capacità di passare dal trasformismo alla parodia del fine dicitore, il suo tempismo e imbattibilità nei confronti del pubblico (chiassoso quasi per contratto) erano e restano insuperati. Un’essenziale carrellata di titoli, riferiti a quegli anni, non può non comprendere Ritorna Za bum di Michele Galdieri (dove Sordi recitava con Ave Ninchi, Luigi Pavese, Ada Dondini, Aldo Campanini, Galeazzo Benti), Un mondo di armonie con i Fratelli Bonos e Pietro De Vico, E lui dice di Benecoste con la regia di Adolfo Celi (e un cast irripetibile: Olga Villi, Margherita Bagni, Gina Rovere, Vittorio Caprioli, Luciano Salce, Carlo Mazzarella, Paolo Panelli e… da non crederci... il futuro regista Francesco Rosi). Sino al congedo di Gran Baraonda allorché, scritturato da Wanda Osiris (superproduzione di Garinei, Giovannini e Gorni Kramer) non ne rifarà il verso e l’accento nasal-blasé scendendo le fastose scalinate che imballavano la scena intonando il tormentone «Mi permette Wandosiri?». Anche in quel caso i compagni d’avventura erano interpreti che hanno fatto la storia del teatro leggero: Gianni Agus, Enzo Turco, Dorian Gray, il quartetto Cetra, di cui ci si trova talvolta a canticchiare l’ammonitivo refrain (musiche di Kramer) «Non ti fidar di un bacio a mezzanotte...». Figurarsi la credulità del disincantato Sceicco Bianco, che i penati dell’Aventino vollero maestro di sarcasmo più che di ironia.
Si pensa di aver chiuso con i ricordi, se non fosse che ripensando ad Alberto e Leopoldo torna in mente il titolo di una poesia (a noi cara) di Franco Marcovaldi, “Celibi al limbo”. La calma tristezza che quei brevi versi emanano vorrà pur dire qualcosa…

Ultima modifica il Lunedì, 22 Giugno 2020 08:36

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