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Viaggio al termine della Notte di figure. Gli esiti del corso Animateria un invito a ripensare il teatro di figura. -di Nicola Arrigoni

La notte delle figure, "IL SOGNO DI JUMBO". Foto Mauro Del Papa La notte delle figure, "IL SOGNO DI JUMBO". Foto Mauro Del Papa

Viaggio al termine della Notte di figure
Gli esiti del corso Animateria un invito a ripensare il teatro di figura
di Nicola Arrigoni

Il teatro di figura è un gioco per adulti, un gioco molto serio e che si fa sul serio. È questa un'osservazione non così peregrina – almeno si crede -, se si considera che in Italia il teatro delle figure è relegato all'ambito del cosiddetto teatro ragazzi. Con La notte delle figurehappening a chiusura del corso Animateria – si è cercato di dimostrare come questo esilio sia ingeneroso e come la creatività affidata a pupazzi, sagome, ombre e oggetti possa non avere nulla da invidiare al teatro d'attore e a quello registico. In questo credono profondamente il Teatro GiocoVita, il Teatro delle Briciole e il Teatro del Drago i soggetti che hanno organizzato e sostenuto il corso Animateria che il prossimo anno replicherà, forte del gran numero di adesioni ricevute. Le iscrizioni dovranno pervenire entro e non oltre il 22 novembre al Teatro GiocoVita. In attesa dell'avvio del corso, la prima lezione si terrà il 20 gennaio prossimo, La notte delle figure ha dimostrato a un pubblico di addetti ai lavori e operatori quanto si può fare con gli oggetti, ma anche quanto il corpo dell'attore possa diventare esso stesso figura, materia per dare corpo all'anima di un racconto che guardi non solo al modello del teatro per ragazzi, ma sappia parlare a ogni tipo di spettatore, sia un'occasione per agire e far vedere, emergere un pensiero del mondo e dell'umano.

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Nella lunga serata al teatro Gioia sono stati presentati i lavori conclusivi degli studenti/operatori: Il sogno di Jumbo di Corinna Bologna, Gisella Butera e Erika Salamone, Cane nero. Studio sulla paura di Miriam Costamagna, Andrea Lopez Nunes e Jessica Graiani, Alice di e con Greta Di Lorenzo, Le città invidicili di Agata Garbuio, Angela Forti, Riccardo Reina e Aron Tewelde e Polvere di Giulio Bellotto e Annalisa Esposito. Lavori diversi per stile e tecnica, molti di questi hanno però dimostrato come l'arte di animare oggetti, pupazzi, ma anche lo spazio scenico possa interessare e rivolgersi ad un pubblico eterogeneo, convinto che nel gioco della scena ci sia l'opportunità di individuare l'indicibile. Questa sottolineatura – ahinoi – rischia di profumare di novità, di ennesimo tentativo di dimostrare e dichiarare come la creatività delle figure non sia soggetta a fasce d'età; un'acquisizione questa e una realtà in tutta Europa, una conquista ancora da realizzare per l'Italia. In merito – prima di raccontare quanto visto al Teatro Gioia – piace ricordare come quest'anno alla Biennale Teatro il Leone d'Argento sia andato a Jetse Batelaan, regista e drammaturgo olandese di teatro per la gioventù; una scelta politica quella messa in atto da Antonio Latella, ma che va nella direzione di un'attenzione al teatro e alla creatività della scena nella loro interezza, senza esili dorati. In questo contesto le performance conclusive del corso Animateria hanno dimostrato come il termine figura possa essere declinato in tanti modi, possa coinvolgere oggetti e ombre, ma anche la figura danzante o parti di corpo degli attori, chiamati a disegnare lo spazio, a raccontare non storie, ma condizioni, stati d'esistenza. In tutti i lavori presentati la precisione della tecnica e la capacità di utilizzare le potenzialità semantiche delle diverse modalità di espressività figurale hanno stupito e rappresentato il terreno fertile su cui fare emergere racconti, spesso inquietanti e carichi di profondità di pensiero.

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È quanto è accaduto con Cane nero, un intenso lavoro sulla paura, una paura che se pure affonda le sue radici nella fabula, è una costante dell'esperienza umana che alla rappresentazione del cane nero affida la possibilità di sconfiggere un sentimento che pietrifica e immobilizza. Un viaggio nell'inconscio e nella relazione figlia/madre è quanto ha proposto– ad esempio – Alice di Greta Di Lorenzo. Un tutù bianco, una mano protesa verso un armadio bianco, un lento procedere verso quel mobile che fagocita tutù e corpo. L'ingresso nel Paese delle meraviglie è per l'Alice di Greta Di Lorenzo un essere divorata, una metafora di un cibo che sa di condanna, nel reiterato invito a mangiare da parte di una voce materna. C'è qualcosa di funereo e inquietante in questa Alice rinchiusa nell'armadio bianco di una infanzia immacolata e un po' algida. Nelle Città indicibili la tecnica delle ombre e degli oggetti ha avuto la meglio sulla nitidezza del racconto agito in uno spazio che si costruisce fra teiere, pipe, fogli vergati col pennino. L'eccessivo uso di segni ha in parte nuociuto alla linearità del racconto. Forse ciò è da leggere nell'ambito di un esito di percorso formativo. La necessità di mostrare le tecniche acquisite ha avuto la meglio sull'urgenza del racconto; una debolezza più che giustificabile.
È stato senza dubbio il lavoro Polvere di Giulio Bellotto e Annalisa Esposito ad aver dimostrato una interessante maturità espressiva e soprattutto quella possibilità di usare le tecniche di figura come mondo e come strumenti per un teatro per tutti e per nessuno. In una sorta di stanza un uomo e una donna sono l'uno seduto in fianco all'altra, mangiano dei pop corn. Su di loro cade della polvere bianca, agli angoli della stanza dei mucchietti che potrebbero sembrare intonaco sbriciolato. Strani rumori accompagnano l'intensificarsi del crollo dal soffitto di quella materia impalpabile destinata a coprire tutto e tutti. Inutile la fatica di raccogliere ciò che cade dal soffitto: il destino è quello di essere sommersi, soffocati da quel lento e inesorabile crollo di materia. Ad un certo punto la donna mostra sotto la maglietta una sorta di inizio di metamorfosi, il suo petto e la sua pancia sono diventati di gesso, fatti della stessa materia che cade dal l'alto. Questa è la condanna di quell'uomo e quella donna, farsi statue, simulacri, sommersi in una stanza/tomba, reperti umani di un mondo sepolto e forse dimenticato, estinto. Con uno stile dal vago sentore beckettiano, Polvere di Bellotto ed Esposito ha saputo costruire con efficacia una condizione esistenziale, dando forma ad un ambiente, uno spazio in cui l'espressività attoriale vive e si completa del gioco figurativo di quella stanza che è mossa come se fosse un setaccio.
Con temperature drammaturgiche e strutture semantiche differenti, alcuni più inclini al format del teatro ragazzi, altri più rivolti a un teatro fisico e di immagine, comunque sia i lavori di fine corso hanno dimostrato come esistano giovani operatori, artisti che sanno mettersi in gioco, sanno acquisire competenze espressive e tradurle – in breve tempo – in saggi di urgenza creativa. Alla sua prima edizione il corso Animateria – prossimo alla replica in una seconda edizione per l'anno che verrà – ha dimostrato come ci sia spazio per un teatro di figura non ghettizzato, per un teatro di figura per adulti che può forse intercettare un pubblico contemporaneo più abituato all'immagine che alla parola, più sedotto dall'azione che dall'eloquio. Ipotesi, senza dubbio una ricchezza da coltivare che il corso di Animateria ha avuto l'intuizione di fare emergere nella lunga e piacevole Notte delle figure.

Ultima modifica il Mercoledì, 23 Ottobre 2019 13:21

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