RICORDO DI GIORGIO PRESSBURGER
Proviamo ad enucleare le tante sfaccettature dell'opera di un autore schivo, eclettico, laborioso- Morto giorni fa nell'amata Trieste, "città letteraria sotto la bruma dei ricordi" (in cui ha vissuto metà della sua vita)
E così, anche Giorgio Pressburger, a poche settimane dall'amico e collega Roberto Guicciardini, con discrezione e senza darlo (troppo) a vedere, esce di scena da quel "gran teatro del mondo" che – pur nella concreta, 'non recitabile' asperità della sua biografia- era stato il suo modo di "esserci":nelle prismatiche, poliedriche estrosità di "perfezionista, inesauribile genio in azione" che la vita, in gioventù così matrigna, gli aveva poi donato sin dai primi tempi del suo approdo romano (a metà anni cinquanta) e dalla indispensabile, avventurosa fuga da Budapest (invasione d'Ungheria, carri armati sovietici, rastrellamenti per ogni caseggiato), dove era nato (nel 1937) da genitori ebrei, entrambi di ascendenze slovacche, sopravvissuti – l'intera famiglia- ai campi di sterminio nazisti.
In una sorta di narrazione straziante e "gentile" che, quando mi capitò di ascoltarla dalla sua pacata, garbata oralità, una sera di molti anni or sono, al MittelFest del Friuli, mi parve il riavvolgimento liberatorio - in quella invisibile sala di montaggio ('frammentaria' e ma rivelatrice infallibile) che sono le stanze della memoria- del poetico, gentile, spietato "La vita è bella" di Roberto Benigni, mai esistito senza la maestria di uno sceneggiatore come Vincenzo Cerami.
Di cui Pressburger, evocando se stesso ed il laicamente 'sacralizzato' nucleo familiare (il fratello, la sorella, i genitori), non aveva ovviamente bisogno- mentre i suoi ricordi, le sue oniriche digressioni, le sue istanze di supposizione offrivano il dono di una intarsiata, pacificata, non risentita (seppur dolce e dolente) elaborazione del lutto, per un implicito (ecumenico) invito al "vivere in pace" entro le nuove gabbie della Spartizione Europea fra comitati d'affari, rigurgiti nazionalisti e vessazioni tetragone di fantomatiche, corsare oligarchie finanziarie (autentiche belve di risorta tracotanza proprio nei paesi slavo-balcanici, usati a mò di cavie di ciò che potrebbe essere 'futuro' nelle oasi d'occidente).
Poliglotta e umanista per vocazione e sin dai primi studi liceali (parlava italiano, ungherese, tedesco, francese, inglese, russo- istradato dal padre e dalla madre, entrambi di alta statura intellettiva), Pressburger - suggeriscono le brevi di cronaca- "è stato una delle figure più rappresentative del panorama culturale italiano e internazionale, attivo ai massimi livelli in molteplici campi", della scrittura e della regia. Vero ma generico. Anche perché estensibile a decine di stimabili operatori culturali attivi in Italia (e non solo) nella seconda metà del novecento. Di suo, Giorgio Pressburger riusciva a far tesoro da ogni sua tribolazione, avversità, precarietà di esule: trasformando in propellente, in rigoroso metodo di vita relazionale e professionale- privo di risentimenti o compianti, schiena dritta e 'misteriose, eleusine serenità'- ciò che nella sua esistenza (privata) non potevano non essere stati scoramenti, titubanze, incertezza, periodi diassoluto timore: specie alla (prematura) morte del fratello gemello Nicola, che nella sua volitività e competenza in scienze economiche era divenuto una delle firme di punta di "Panorama" -antica gestione. Firma che avrebbe poi 'amputato' (aneddoto rivelatore) quella di Giorgio, quando al nome di battesimo (che usava sbarrare, come 'dimezzato' da un archetipo di serenità) preferiva porre in risalto il solo cognome. E tutta la magia, la devozione, il rispetto 'filiale' (di una terra fuori dal tempo) che lo ha accompagnato, sempre e sino alla tarda età.
Difficile esaurire in questo spazio la 'poligrafia' e 'polifonia' della produzione artistica di Pressburger. Preferibile quindi fissarne i punti cardine, le eccellenze della sua versatilità.
Insieme a Claudio Magri e Paolo Maurensig (dopo la prematura fine di Fulvio Tomizza e, aggiungerei, dell'ineffabile Angelo M. Ripellino, mesmerico "praghese nato, di sfuggita, a Palermo"), è indubbio che Pressburger va considerato uno degli ultimi narratori della grande tradizione mitteleuropea. Senza vagheggiamenti, elegie e nostalgie, sin dalle "Storie dell'Ottavo distretto" (edito da Marietti nel 1986, scritto a quattro mani con Nicola) ai "Racconti triestini" del 2015 (Premio Montà D'Alba), lo stile dell'autore è sempre stato imperlato di personalissimi orditi fra immaginazione e realtà, incantesimo ancestrale e crude necessità dell'umana sopravvivenza. In quella dimensione sospesa, concreta ma onirica che rende composta e 'conciliata' anche "La legge degli spazi bianchi", cinque racconti di medici che affrontano altrettanti casi di malattie inspiegabili, "posseduti ora dal disincanto del mestiere, ora dalla disperazione" (annota Paolo Di Stefano). Impossessatosi sommessamente, e con tenacia di studio, di quell'ambita e desiderata "triestinità sveviana nella narrazione", Pressburger, valica il confine (intimo più che geografico) "di una sua prosa esatta e mai troppo sicura di sé. E nel successivo "Il sussurro della grande voce" (mi attengo ancora all'esperto Di Stefano) "prende corpo più visibilmente l'elemento metafisico, cabalistico, iniziatico". Come se l'autore si fosse, da un certo momento in poi "immerso nei grandi temi, il male, l'espiazione, il destino, la dimensione religiosa, al punto da dedicarvi un saggio, "Sulla fede", apparso nel 2004, all'insorgere dei primi e 'altri' (affini al secolo breve) fanatismi che mirano a sconvolgere "un certo ordine delle cose". Senza per ciò esibire giudizi o invettive di ordine etnico e geopolitico (non era nell'indole ironica e felpata di Giorgio)
Di cui va, parimenti, ricordata la mai interrotta attività di animatore e promotore culturale. Ideatore, fondatore e direttore artistico, dal 1991 al 2003, del "Mittelfest" che ha per centro operativo la deliziosa Cividale del Friuli: prestigioso festival di danza, musica e teatro di diciassette nazioni dell'Europa centrale e dei Balcani, che presenta ogni anno nell'arco di due settimana, un'ampia rassegna di accurati eventi teatrali e musicali, sia in ambito di classicità che di sperimentazione figurativa. Pressburger se ne distaccò, pur restandone consulente e pater putativo, quando nel 2004 venne nominato (con merito ed equidistanze dalla politica) direttore dell'Istituto di Cultura Italiana a Budapest.
- Appassionato ricercatore di musicologia ("la divoravo"-precisava) Pressburger, nel 1993, realizza per la Rai un ciclo di sedici nuove opere musicali, commissionate ad altrettanti compositori italiani dell'ultima generazione, e i rispettivi "libretti" affidati ad una pari numero di scrittori. Parallelamente si accresce il suo interesse per la regia lirica, estranea alla tradizione del melodramma. Sicchè, in seducenti (ma non calligrafiche) atmosfere che sospese fra Hofmannsthal e le "Leggende del bosco viennese", si compiono le sue tappe fondamentali del suo rapporto con l'opera moderna che annovera titoli quali "La libellula" di Pavle Merkù (Teatro Verdi di Trieste, 1976), "La donna senz'ombra" di Richard Strauss (Teatro La Fenice, 1977) "Sancta Susanna" di Paul Hindemith (Opera di Roma, 1978) "Il castello di Barbablù" di Béla Bartók (Teatro alla Scala di Milano, 1978) "Le Grand Macabre" di György Ligeti (Teatro Comunale di Bologna, 1979) "Il flauto magico di Mozart" (Teatro La Fenice, 1980) "Netzwerk" di Friederich Cerha (Theater an der Wien, Vienna, 1981) "Vittoria ed il suo Ussaro" di Paul Abraham (Teatro Verdi di Trieste, 1983) "Atem" di Franco Donatoni (Teatro alla Scala di Milano, 1985) "La Bajadera" di Emmerich Kálmán (Teatro Verdi di Trieste, 1985) "Pipistrello" di Johann Strauss (Spoleto, 1990) "Elektra" di Richard Strauss (Teatro Antico di Taormina, 1992) "Carmen" di Georges Bizet (Spoleto, 1993) "Il castello di Barbablù" di Béla Bartók (Mittelfest, 1995), "Satyricon" di Bruno Maderna (Filarmonica Romana 2006)- nudo e crudo inventario di rarità che affidiamo (idealmente a praticamente) alla competenza critica di chi la possiede e coltiva. Con una personale annotazione: essere stato, Pressburger, un raro ed originale e regista di cantanti lirici- capace di forgiarne "personaggi teatrali" fuori dagli abusati stereotipi (marmorei, plateali) di tanta tradizione italiana.
- Pochi sanno, ma bene ha fatto Andrea Camilleri a scriverlo durante l'estate, che Giorgio Pressburger, tra il 1962 e il 1971, ha curato scritture e realizzazioni di regie radiofoniche (Studi Rai di fonologia musicale, a Milano, "collaudati" autori come Nono e Maderna) passate alla storia quali programmi pionieri della 'stereofonia di voci', di 'sussurri e grida' poi soppiantati dallo sghignazzo e schiamazzo di incessanti, logoranti prese dirette (su ogni cosa che 'vola' per etere o web). Tre i titoli da memorizzare, "Giochi di fanciulli" (1970) "La torre di Babele" (1971) "Missione compiuta" (1973)- espugnabili dagli archivi Rai se non altro a fini didattici e divulgativi
- Del Giorgio Pressburger, autore e regista di teatro drammatico, per il quale è più famoso, resta paradossalmente ben poco da aggiungere. Fautore di una messinscena accurata, dettagliata ma senza orpelli, credo che egli sia fautore di una teatralità essenzialmente di idee e parole, con accurati slittamenti nelle varie 'ipotesi' della poesia, dell'immaginazione, dell'ignoto che risale alla coscienza. Per un'idea di teatro che sappia trascenderlo alla ricerca di una "superiore finalità" (cognitiva, catartica, didattica) che non potrà mai essere la medesima in ogni luogo, tempo e contesto. Personalmente sono propenso a credere che il meglio di sé, Giorgio Pressburger lo abbia dato ogni qual volta copione e messinscena gli appartenevano sin dall'inizio: non per egocentrismo (realizzò Shakespeare e Molière, Goldoni e Umberto Saba, sino ai contemporanei Pasolini, Magrelli, Ginzburg, Garboli, con pochi mezzi e ottimi esiti), ma per "non scontentare nessuno...non si sa mai". Possedessimo la macchina del tempo vi inviteremmo ad andare a ritroso verso "Eroe di scena fantasma d'amore", "Antonello capobrigante calabrese", "Esecuzione" , "Zizim" (elaborato da poche pagine di Beniamino Joppolo)- datati a metà degli anni settanta, ma di emerita attualità quando si dibatte a vanvera di "questo teatro italiano così povero di idee". E praticanti senza stampelle da serials televisivi.
Angelo Pizzuto