Don Giovanni è tra i melodrammi più rappresentativi ed identificativi del catalogo mozartiano ed è anche uno dei più applauditi nella storia del teatro musicale. Qui si vuole tuttavia soffermare l’attenzione sull’idea di totale estraneità del protagonista ad ogni adesione morale, ed anche della colpa e della pena, secondo il comune sentire del tempo. Idea che attraversa il capolavoro di Mozart e che desideriamo osservare da vicino, considerando non solo l’apporto del librettista Lorenzo Da Ponte, ma anche le precedenti esperienze di Tirso de Molina, di Molière e di Carlo Goldoni, sulla scorta delle ricerche e delle suggestioni suggerite da studiosi e ricercatori che hanno colto le più varie sfumature del profilo psicologico non solo del protagonista, ma anche del compositore salisburghese.
L’opera
Ben a ragione considerato tra i capolavori non solo mozartiani ma del Settecento stesso, Don Giovanni è quasi un ponte tra il Classicismo musicale giunto a piena maturità e fulgore ed il Romanticismo ancora lungi dall’irrompere sulla scena della storia, ma del quale già si avvertivano i segni qua e là nelle opere e negli scritti di artisti ed intellettuali.
Il Don Giovanni è tecnicamente un dramma giocoso. Questa definizione la si trova nel sottotitolo originale dell'opera: formalmente essa è un’opera buffa con la presenza di elementi tipici dell’opera seria, come testimoniano le arie di Donna Anna e Don Ottavio. Ne esistono due versioni: la prima, quella praghese, manca del finale con quella sorta di “morale” conclusiva dell’opera (sestetto “Questo è il fin di chi fa mal”), che fu invece aggiunta nella seconda, unitamente ad alcuni tagli imposti nella versione viennese del Burgtheater, per il gusto più conservatore e moralistico dei viennesi e con molta probabilità della corte asburgica.
Il profilo psicologico dei personaggi
La caratterizzazione dei personaggi è il capolavoro di Mozart e Da Ponte. Degli otto presenti, cinque sono di carattere serio (Don Giovanni, il Commendatore, Donna Anna, Don Ottavio, Elvira), uno di genere “grazioso” (Zerlina) e solo due (Leporello e Masetto) destinati alla comicità.
Don Giovanni
Il protagonista, pur nobile, ha il ruolo del basso buffo (baritono), quasi una sottolineatura della sua immoralità, che lo imbarbarisce. A questa figura complessa e controversa Søren Kierkegaard dedicò una parte del suo Aut - aut (Enten-Eller), dal titolo Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale erotico. Il testo rivela il rapporto appassionatamente intenso che Kierkegaard intrattiene con la figura di Don Giovanni, con l'opera mozartiana da lui particolarmente amata, con la dimensione della sensualità immediata, la cui idea Don Giovanni impersona. Secondo il filosofo danese nell’opera mozartiana la sensualità è intesa come principio e l’erotico è inteso come seduzione. Così egli si esprime a riguardo, richiamandosi alla classicità antica:
“Strano a dirsi, l'idea di un seduttore manca del tutto alla grecità [...]. La ragione per cui la grecità manca di quest'idea sta nel fatto che l'intera sua vita è determinata come individualità. Così lo psichico è dominante o sempre in armonia con il sensuale [...]. Don Giovanni è invece fondamentalmente un seduttore. Il suo amore non è psichico ma sensuale, e l'amore sensuale secondo il suo concetto non è fedele, ma assolutamente privo di fede, non ama una ma tutte, vale a dire seduce tutte. Esso infatti è soltanto nel momento, ma il momento è concettualmente pensato come la somma dei momenti, e così abbiamo il seduttore. Anche l'amore cavalleresco è psichico, e perciò conforme al suo concetto essenzialmente fedele; solo l'amore sensuale è secondo il suo concetto essenzialmente privo di fede. Ma questa sua mancanza di fede si mostra anche in un altro modo; infatti esso resta sempre solo una ripetizione. L'amore psichico ha in sé la dialetticità doppiamente. Infatti ha in sé il dubbio e l'inquietudine se sarà anche felice, se vedrà soddisfatto il suo desiderio e sarà amato. L'amore sensuale non ha questa preoccupazione. Persino un Giove è incerto della sua vittoria, e non può essere altrimenti, sì, egli stesso non può desiderare altrimenti. Non così Don Giovanni, che taglia corto e deve sempre essere immaginato come assolutamente vincitore. Questo potrebbe sembrare un vantaggio per lui, ma in vero è un motivo d'indigenza”.
Stando ad un discorso più musicale, il pensatore di Copenaghen vede il personaggio Don Giovanni come strettamente e strenuamente “musicale”, e lo considera addirittura “epico” nel suo finire e ricominciare le sue conquiste amorose:
“L'amore psichico è sussistenza nel tempo, quello sensuale sparizione nel tempo, ma il medio che lo esprime è proprio la musica. La musica è adattissima a far questo perché è di gran lunga più astratta del linguaggio, e quindi non dice il singolare ma l'universale in tutta la sua universalità, e tuttavia dice quest'universalità non nell'astrazione della riflessione ma nella concrezione dell'immediatezza [...]. Se la cosa non andasse così, Don Giovanni cesserebbe d'essere assolutamente musicale, e l'estetico esigerebbe la parola, la replica; ma dal momento che la cosa sta così, Don Giovanni è assolutamente musicale”.
Don Giovanni è teatralmente e musicalmente vitale: tutti, nel bene e nel male, sono attratti da lui. È inafferrabile: se di tutti i comprimari dell’opera si può più facilmente definire un profilo, di lui si può dire, con Kierkegaard, che “è simile ai flutti del mare”. È solo: nella sua compulsiva autodistruzione sembrano scorgersi un vuoto interiore e quasi un tedium vitae. È un incosciente: nel senso che è privo di coscienza morale, del tutto indifferente al dolore del prossimo e totalmente estraneo a qualsiasi cosa che gli ricordi il soprannaturale. Non c’è Dio nel suo orizzonte: egli stesso è la misura del suo vivere e del suo agire. La sua passionalità istintiva e inestinguibile
“è già movente drammaturgico che assicura l’alternativa terrena alle forze incognite dello spirito, al mistero ultraterreno, rappresentato dallo spirito del Commendatore. È già un mondo romantico che s’apre all’intervento soprannaturale, al tragico esito della vicenda, che Mozart correda, musicalmente, di quella tensione drammatica, di quel demonismo già preannunziato in composizioni precedenti”.
La grande abilità di Da Ponte e di Mozart
“sta nell’aver creato un ritmo molto sostenuto alla trama, un ritmo che si attenua solo un poco all’inizio del secondo atto, ed è quasi il segno della rapinosa voglia di piacere dell’eroe; inoltre, nell’aver saputo dare un preciso carattere a Don Giovanni, che è soprattutto un gran signore, che nel suo cinismo conserva un carattere impavido, di spavalda sicurezza e di distaccata nobiltà”.
Si può anche dire che il librettista conferì al personaggio centrale di Don Giovanni
“una semplicità perfettamente uniformata alla musica tranchante di Mozart: recitativi arguti, espliciti, efficacissimi nel raffigurare con poche pennellate quest’uomo che sprezza ogni ordine sociale e sfida le leggi divine, torbido quanto basta per onorare le sue antiche matrici spagnole …. Il Don Giovanni dapontiano riassume in sé questo background ed è beffardo, borioso, dai tratti finemente ironici che giustificano la sua caratterizzazione giocosa”.
Gli altri personaggi
Leporello è un personaggio in bilico tra ironia, insolenza e sottomissione verso il nobile, nel quale lo stesso Mozart amava identificarsi, nelle sue note e riflessioni a margine dei lavori che eseguiva. Ben lungi dal cliché del servo sciocco, tipico dell’opera buffa, Leporello segue il suo padrone e ne osserva le scellerate imprese, tentando malinconicamente e maldestramente di imitare il padrone, apparendo così goffo e subendone le conseguenze negative. Ma egli “non è solo cinico e ruffiano: nel finale tenta disperatamente di aiutare il padrone, gridandogli (da sotto il tavolo, però) di pentirsi e lasciar perdere quell’inutile battaglia. Rimarrà inascoltato e non gli resterà, dissipati i fumi sulfurei, che recarsi all’osteria a trovar padron miglior”. Ci sono anche figure comiche e di carattere pastorale (Masetto e Zerlina) ma in tutti i personaggi c'è una decisa impronta morale, portatrice di valori etici da trasmettere al pubblico, sia in negativo che in positivo (ovvero cosa fare e non fare). Anzi è forte il contrasto tra le figure popolari ma ricche di valori, e quelle nobili ma meno delineate eticamente: mentre Masetto per difendere Zerlina è disposto anche ad azzuffarsi con Don Giovanni (travestito da Leporello), Don Ottavio non riesce a reagire egualmente per Donna Anna. Si scorge un felice parallelo con le tragedie greche, le quali volevano educare il cittadino della città-stato, grazie anche a tematiche “sentite” dal pubblico e all’intervento risolutivo del deus ex machina, che in questo caso è il Commendatore. Tutte le figure, maschili e femminili, sono ben delineate e caratterizzate, con un risultato complessivo che non dà una visione positiva della nobiltà, ora dissoluta (Don Giovanni) ora imbelle (Don Ottavio) e che anzi esalta le virtù e la probità del popolo (Masetto). Con molta probabilità, considerato lo stile ed il tenore di vita degli autori, né Mozart e né Da Ponte avevano intenti morali totalmente vicini a quelli voluti dall’alleanza che esisteva allora fra trono ed altare, ma sostanzialmente l’opera sembra essere fedele alla morale del tempo, sia per l’educazione tradizionale comunque ricevuta da entrambi e soprattutto considerato anche il fatto che la censura aveva dato prova di efficienza con il suggerimento di tagli e finali moraleggianti ad uso e consumo dei sudditi dell’impero. Eppure per la prima volta appare in scena in modo così forte e palese un protagonista che è un antieroe, un personaggio da non imitare, poiché è consapevole del male che compie e non solo se ne avvede, ma addirittura se ne vanta e non intende cambiare vita. Una sorta di diabolica ribellione e di piacere del male che impose un finale moraleggiante, che sarebbe altrimenti di troppo nell’economia globale dell’opera.
La musica del Don Giovanni
Lungi dal voler fornire una guida all’opera ed al libretto, offriamo qui un sintetico passaggio sugli aspetti più propriamente musicali. Il melodramma, aperto da una mirabile ouverture, è ricco di recitativi ed arie, duetti, terzetti, quartetti, sestetti, tutto sostenuto da una ricca orchestrazione. Esso è un chiaro esempio di come si componesse un melodramma italiano nel Settecento, genere nel quale Mozart eccelse, per eleganza compositiva e leggerezza melodica, anzi sostenuta da una ricca complessità armonica. Vi troviamo anche la Tafelmusik, ossia la musica da tavola che si esegue nel secondo atto che, pur se non espressamente indicato in partitura, viene eseguita sul palcoscenico, secondo tradizione. Il concetto di dramma giocoso trova la sua definizione in tutta l’opera, fin dalle prime battute: da poderosi accordi in tonalità minore a ritmi trocaici sottolineati dagli archi, con elementi giocosi che cedono spesso il passo a cenni drammatici sottolineati dalle note gravi. È quello che Alberto Savinio ha definito il “broncio” di Mozart:
“Vogliamo dire tutto il nostro pensiero? Il grave di Mozart ha qualcosa di innaturale, che stringe il cuore e fa desiderare che finisca al più presto. Non piace vedere prolungarsi il broncio dei bambini … potere di puro cuore di fanciullo! Il romanzo di Don Giovanni, di questo eroe della dannazione, si trasforma fra i suoni con cui Mozart lo avvolge, in una specie di lunga serenata”.
Riguardo ai brani musicali presenti nell’opera, c’è una sostanziale integrità tra le due versioni, praghese e viennese. Per quest’ultima Mozart accontentò i cantanti, inserendo tre nuovi brani: per Don Ottavio l’aria “Della sua pace”, per Donna Elvira “Mi tradì quell’alma ingrata”, e per Zerlina e Leporello “Per queste tue manine”. Per quanto riguarda il sestetto finale dell’opera, “Questo è il fin di chi fa mal”, cantato dai personaggi che hanno avuto da fare con il protagonista dopo che Don Giovanni è precipitato all’Inferno, non è chiaro se Mozart volesse tagliarlo per la versione viennese o se avesse già tentato di farlo per la versione praghese, e che quindi, infine, sia sempre stato presente sia nell’una che nell’altra versione. Anche perché non piaceva affatto all’onnipresente censura imperiale l’idea che un nobile morisse senza rimorso, suscitando negli spettatori l’idea che la nobiltà non avesse nulla di più e di meglio di qualunque altro ceto sociale quanto a moralità ed onestà, incoraggiando così anche sentimenti di ribellione verso l’ordine allora costituito. In ogni caso si direbbe che tutti, tranne Don Ottavio che rimane fermo nella sua devozione verso Donna Anna, in qualche modo escono trasformati dal loro incontro con l’impenitente Don Giovanni. In fin dei conti se egli è un tentatore, anch’essi non sono senza macchia e tuttavia Zerlina e Masetto rinsaldano il loro legame, Donna Anna comprende meglio i suoi sentimenti, Donna Elvira sublima la sua passione nella fede e Leporello si rende conto che è meglio restare un servitore, anziché “fare il gentiluomo”, ma servendo un padrone meno complicato. La grandezza musicale del Don Giovanni mozartiano sta, secondo Kierkegaard, nel fatto che materia e musica si integrano con perfezione classica. L'immediatezza di Don Giovanni, il suo vivere il momento e nel momento, una sorta di carpe diem oraziano scevro da restrizioni morali, ne fanno un soggetto musicale che non è esprimibile in parole, secondo il filosofo, perché se è nel linguaggio che si esprime la riflessione, il linguaggio stesso non può esprimere l’immediato che permea l’essenza dell’impenitente Don Giovanni, che non arretra neanche dinanzi all’invito del Commendatore a pentirsi, in una sorta di ultima occasione offertagli, e così replica: “No, no, ch’io non mi pento / Vanne lontan da me!”.
Colpa e pena, l’esperienza del passato: la lezione di Tirso de Molina, Molière e Goldoni
Ricevuta la commissione dell’opera, Mozart si rivolse a Da Ponte, che gli sottopose l’idea del Don Giovanni: il librettista, che stava già lavorando ad opere di Martini e Salieri, ottenuta l’approvazione di Mozart, stese il libretto in poco tempo. Ma il soggetto non era del tutto inedito né ai cosiddetti “addetti ai lavori” né al grande pubblico: numerose erano state le rappresentazioni teatrali con protagonista questo personaggio, la cui fortuna letteraria era cominciata nel Seicento, quando Tirso de Molina, ispirandosi a precedenti racconti popolari, scrisse il suo Burlador de Sevilla y convidado de piedra. In questa opera di prosa si raccontavano appunto le dissolutezze di Don Giovanni Tenorio, libertino incallito, che alla fine rifiuta di pentirsi e sprofonda all’Inferno. Tirso de Molina, religioso appartenente all’ordine della Mercede, aveva scritto il dramma con chiaro intento moralizzante. A prescindere dall’attribuzione corretta del testo al suo autore spagnolo, il dramma ebbe successo, al punto che venne ripreso dalla Commedia dell’Arte italiana, che lo incluse nel suo repertorio accentuandone, ovviamente, gli aspetti più comici, facendone più una “simpatica canaglia” che un impenitente seduttore.
L’occhio con cui il frate drammaturgo guarda la sua creatura letteraria è lo stesso che ha visto la Bibbia d’Alcalà, il Cisnerios, l’Inquisizione, ha studiato i riti mozarabici, ha vissuto il cattolicesimo spagnolo, così intransigente e senza pari nello stabilire morali categoriche e nette. In sostanza, per Tirso de Molina, Don Giovanni può sì riuscire a burlarsi delle donne che corteggia, ma non può farsi beffa della legge divina: nel momento stesso in cui dapprima compie l’atto sacrilego di invitare la statua del Commendatore a cena e poi quando questa si presenta, accetta di seguirla ma da impenitente, ecco che ha già segnato la sua condanna e viene inghiottito dalle fiamme degli inferi.
Molière, a metà del Seicento, riprese il tema del Don Giovanni, a sua volta ispirandosi al dramma Il convitato di pietra di Onofrio Gilberti, scritto qualche anno prima. Il drammaturgo francese diede al suo protagonista ben più profondi significati psicologici e morali: se il Gilberti cedette alle lusinghe della facile risata tipica della Commedia dell’Arte, egli ne fece un campione impareggiabile di ateismo, crudeltà, cinismo ed efferatezza, anche se alquanto raffinata. Un inconfondibile esponente, cioè, di quell’atteggiamento libertino ed agnostico tipico di certa parte della cultura francese di fine Seicento. In Molière, più che in altri autori, Don Giovanni sprofonda chiaramente nelle fiamme infernali, trascinatovi dai diavoli, senza essere nemmeno sfiorato da una vaga idea di pentimento.
Infine Carlo Goldoni restituì al suo Don Giovanni (o La punizione del dissoluto) lo smalto e la brillantezza popolare della Commedia dell’Arte, accettando l’aspetto moraleggiante della punizione della colpa senza rinunciare ai colpi di scena del teatro buffo e popolare.
Mozart e Da Ponte scrissero il loro Don Giovanni partendo da queste premesse. Anzi, essi presero a prestito molte delle idee dei loro predecessori, sia per quanto riguarda l’aspetto propriamente letterario, curato dal librettista, sia riguardo la componente strettamente musicale, seguita dal compositore, che conosceva la quasi contemporanea opera Il convitato di pietra, eseguita sei mesi prima del suo capolavoro, a Venezia, durante il Carnevale. Questi “prestiti” erano una cosa comune in un’epoca dove non esisteva né il diritto d’autore né alcuna tutela della produzione letteraria, artistica e musicale. E comunque non furono tali “prestiti” a rendere straordinario il capolavoro mozartiano/dapontiano, anche se qualche forma di “plagio” la si incontra anche nella musica, soprattutto nella somiglianza tra le due serenate di Don Giovanni. Piuttosto si deve dire che la qualità dei due autori, e specialmente della musica che con la sua suggestione “copre” qualche difetto della vicenda, risolve anche alcune incongruenze e debolezze dei testi precedenti.
Ricapitolando
Se colpa e pena sono presenti come idee nell’opera mozartiana, lo sono per esigenze sia di libretto, sia per le richieste dei censori. Però il lavoro di Da Ponte,
“in perfetto accordo con la musica “fatta di musica” di Mozart, rifiutò la tetraggine del “Burlador” di Tirso da Molina, “l’adulta seriosità” e “il mistero spagnolo” di cui fu circondato, come da una lugubre aureola, il mito del grande e impenitente seduttore; scelse, piuttosto, la semplice strada del dramma giocoso, guardando alla fosca tragedia con occhio curioso ma sereno, fuori dai meccanismi più contorti della psiche”.
Tolte dunque la cappa del pathos spagnolo e le volute della riflessione morale e teologica sul personaggio, i due autori colgono e mettono in scena i cosiddetti “affetti”, cioè i caratteri di ogni personaggio, cogliendo felicemente gli spunti per l’estro delle gags e la vis comica da Goldoni e Bertati, fondendoli con il cinismo bieco, il sarcasmo della pura malvagità, lo svilimento della figura femminile che avevano caratterizzato il personaggio tinteggiato da Molière e che qui si ritrova, in una indovinata fusione di toni comici e drammatici.
Anche Ferruccio Busoni notò quest’intreccio caratteristico di comico e drammatico, insistendo sul fatto che
“i due elementi, quello comico e quello tragico, nella musica di Mozart prevalgono chiarissimamente, e già l'ouverture nelle sue due parti, nettamente separate, presenta il più stridente contrasto e, se posso esprimermi così, scompone la designazione del lavoro summenzionata nelle sue due componenti: «dramma» e «giocoso». Anche in Shakespeare incontriamo parecchi momenti comici inseriti nella tragedia, ma le sue scene di buffoni e di tangheri non sono sempre così intimamente intrecciate con l'azione e non sempre i suoi personaggi comici stanno in un rapporto così stretto con i personaggi tragici, come la personalità e le azioni di Leporello con i personaggi del dramma di Da Ponte. Pure Shakespeare presenta esempi di questo genere e a nessuno verrebbe in mente - nonostante la prepotente personalità di Falstaff - di applicare l'attributo giocoso”.
Dunque una colpa ed una pena che sono presenti, evidenti ed evidenziate, sia nel testo, sia nella musica, eppure caratterizzate da un’alternanza di tragico e comico, che rende estremamente originale ed impareggiabile il risultato finale. I due autori, sulla scorta dell’insegnamento del teatro classico, dovevano far riflettere il pubblico, insegnargli qualcosa, lasciargli qualche messaggio. Essi però volevano anche divertirlo, distrarlo, sollevarlo dalla sua quotidianità. Infine, ancora Kierkegaard si fa interprete dell’idea che può aver ispirato lo sforzo creativo di Mozart e Da Ponte:
“Il fatto che Don Giovanni, quale figura dell'estetico, non viva nella dimensione della riflessione, determina anche la sua estraneità a qualsiasi valutazione etica (poiché l'etica è sempre risultato di un atto di pensiero). La potenza vitale della sensualità di Don Giovanni si esprime nella dimensione dell'indifferenza estetica: è carne contro spirito, ma non è peccato. Don Giovanni non cade affatto sotto determinazioni etiche. Soltanto quando interviene la riflessione, la sensualità diviene peccato, ma allora Don Giovanni è stato ucciso: allora la musica tace”.