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Roger FERDINAND - Il padre della signorina

Corriere Lombardo, 17 marzo 1953

In confidenza, tutte le volte che vedo annunciato un nuovo titolo del copioniere Roger Ferdinand da parte di una delle nostre compagnie che lo hanno particolarmente prediletto, e penso al dovere di recensirlo, mi prende una stretta al cuore. La stretta al cuore dell’uomo pacifico che si vede costretto a scegliere fra due partiti egualmente sgradevoli: fare il guastafeste oppure mentire nella complice illusione di dare una mano, così facendo, alla travagliata navigazione della sconquassata barca dei nostri comici. Capirete quindi la mia profonda riconoscenza nell’accorgermi, una volta tanto, di poter sfuggire a Scilla senza precipitare in Cariddi; voglio dire nel poter trattare passabilmente con la coscienza tranquilla Il padre della signorina rivelato ieri sera al buon pubblico del teatro Olimpia dalla Compagnia Calindri e soci; tre atti che se raggiungono il livello di quella media dignità e originalità richieste a una commedia di corrente consumo, sono per giunta anche alquanto al disopra della media del numeroso repertorio finora importato di codesto autore. Crepi l’avarizia e prosperi l’ottimismo: insomma parci che il signor Roger Ferdinand sia un commediografo che si va facendo. E su questa consolante constatazione affrontiamo il tollerabile presente in attesa di un miglior avvenire. Francesca Marinier,  meglio avvertirvi subito, è una ragazza sulla cui onestà e rettitudine potete mettere la mano sul fuoco qualsiasi cosa vediate accaderle lungo il corso della commedia, e ad onta che alcuni anni prima sia fuggita di casa abbandonando la madre, donna di casa, e il padre, magistrato di rigidi principi, di grandi meriti giuridici e di scarsa carriera, dimenticato in un tribunale di provincia senza che l’ufficio personale di Grazia e Giustizia si sia accorto di lui per la giusta promozione. 

Francesca Marinier s’è involata dal tetto paterno per non sposare un ricco tanghero che non amava dopo aver dovuto rinunciare a diventare la legittima consorte di un povero bel giovane che idolatrava. Cotta e sensibile come un’eroina di Liala, essa si è guadagnata la vita a Parigi lavorando.

Con questo stato di servizio, Francesca si fa assumere come segretaria di una giovane seducente e celebre attrice, lussuosamente domiciliata e ammobiliata in una ricca villa dove la mantiene il suo amante in carica nientemeno che il ministro della Giustizia in persona, secondo una sana tradizione che la quarta repubblica ha ereditato dai vaudevilles di Feydeau degradati attraverso le pochades di Hennequin. E qui casca puntuale l’atteso equivoco. I genitori di Francesca giunti a Parigi dalla provincia per incontrarsi dopo tanto tempo con la figliuola prodiga, scambiano lei, Francesca, per la beneficiaria di tutta quella grazia di Dio, certo dovuta, secondo il loro candido intendimento, a una professione diciamo così di irregolare. L’attrice divertita della topica li asseconda e scambia le parti, con la sua segretaria.

Dapprincipio, la spinosa probità del vecchio e povero magistrato insorge indignata contro il vizio dorato della figliola; contro quella vita comoda e prodiga che la rettitudine non potrà mai assicurare all’uomo onesto. Ma poi, si sa come accade: la Cadillac a disposizione, alla porta, il palco all’Opera, i pranzi succulenti serviti dal domestico in guanti bianchi e così via, disarmano a poco a poco i due vecchi provinciali, e in special modo la madre, la quale, tutto considerato, trova più che soddisfacente la riuscita della figlia. Anche l’ineccepibile giudice comincerà a capitolare quando, dopo uno spiritoso colloquio col ministro della Giustizia senza sapere che si tratta del ministro della Giustizia e finendo, quando lo viene a sapere, col compiacersi di averlo come genero posticcio, gli balena, facile facile, la possibilità dell’agognata promozione con trasferimento nella capitale.  Questa scena non certo nuovissima ma arguta e nella quale il poveruomo spiffera a S. E.  tutte le ingiustizie della giustizia e i favoritismi della burocrazia, è la migliore di tutta la commedia e meritò, anche in grazia di una perfetta esecuzione, un applauso a scena aperta. Alla fine, ogni cosa viene chiarita e ognuno rientra nella propria parte con stizza e rammarico materno di scoprire una figlia immacolata ma nullatenente. Tuttavia Francesca si fidanzerà con un segretario ministeriale e l’integerrimo magistrato avrà la sua promozione.

I tre atti amabilmente e scorrevolmente congegnati con situazioni tradizionali e personaggi modellati su una frusta convenzione – salvo in parte il dabbene giudice – avrebbero potuto mirare alla satira e si accontentano di essere soltanto  innocuamente umoristici, avrebbero potuto tirare all’ironia del costume e si affidano a una comune e prudente comicità da palcoscenico. Si sono proposti semplicemente di divertire e null’altro. E ci riescono con garbo pizzicante e malizia edulcorata. Il successo è stato caldo e continuo. Ad esso hanno contribuito in misura ragguardevole la puntualità, il decoro e l’eleganza della esecuzione incorniciata in una bella scena di Carlo Maresti. All’integerrimo magistrato, Giulio Stival ha conferito un umorismo stizzoso pervaso di amarezza e frutto di una precisa osservazione umana; Valeria Valeri è stata ammirevole per quella sua comica assennatezza e placidità che costituisce la sua nota inconfondibile di attrice dal sicuro avvenire; Isa Pola ha interpretato la figura della commediante con estro arguto e innocente impudenza; Ernesto Calindri fu un ministro calligrafico dalla finezza e dalla tolleranza ancien régime; come sempre attrice ammirevole Mercedes Brignone; e come al solito interprete ironicamente distaccato ma non per questo privo di affettuosa sincerità Franco Volpi.

Carlo Terron

Ultima modifica il Venerdì, 26 Dicembre 2014 11:08
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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