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Salvato CAPPELLI - Morte di Flavia e delle sue bambole

Corriere Lombardo, 31 dicembre 1962

Dipenderà dai nuovi criteri di gestione – tutto repertorio contemporaneo nazionale, - dipenderà dalla adeguatezza dei mezzi, dipenderà dalla compagnia – giovanile, brava e simpatica, - dipenderà dalla cura degli allestimenti, dipenderà che la gente non ne può più di veder sempre gli attori in costume, dipenderà dalla buona sorte o da che accidente so io, fatto sta che, tirate le somme a metà della stagione, l’avvenimento che promette di concludersi più positivamente nel teatro Sant’Erasmo con la Compagnia del Teatro moderno messa insieme e diretta da Salvato Cappelli, vedi caso non un “tecnico” dell’organizzazione, bensì uno scrittore, e per giunta né semplice né facile; uno che, se deve fare il calcolo di due più due, anziché ricorrere a una semplice somma non può fare a meno di arrivare allo stesso risultato estraendo una radice quadrata.

Dopo le ottanta repliche, con oltre sessanta esauriti della Ragazza di Stoccolma fatto più unico che raro, - sono andati su sabato sera – che idea, una “prima” il giorno dell’Epifania! – inseguendo un altrettanto se non un maggiore successo, con una commedia di tutt’altro impegno, carattere e tono: Morte di Flavia e delle sue bambole dello stesso Cappelli, rigorosamente fedele ai propri temi della colpa, della responsabilità e della giustizia – parente, in ciò, del povero Betti, benché in timbro diversissimo – e ai propri modi antirealistici e rievocativi, per sequenze a tempo rovesciato, originalmente mutuati dalla sintassi cinematografica: alla Miller tanto per intenderci approssimativamente, fin dai tempi del lontano e non obliato, altro che dai negatori sordi e aprioristici, di un teatro italiano moderno, Diavolo Peter.

E’ invidiabile, di questo complesso e complicato autore, la facoltà di investire l’attualità, per non dire la cronaca, e il costume del tempo, decantandoli nella distillazione, un po’ rarefatta, cerebrale e tortuosa, se vogliamo; ma di indiscutibile nobiltà e suggestione, con una problematica morale superiore e trascendente, né occasionale, né contingente, né transitoria, ottima, anche se pericolosetta vaccinazione contro la provvisorietà delle mode che divorano, da un anno all’altro, tanta narrativa e tanto teatro dei nostri giorni.

La commedia è, ancora una volta, un “processo” un’inquisizione, un’indagine capillare, accanita e impietosa delle ragioni di essere e di agire di  una creatura enigmatica, isolata nella impenetrabile solitudine della generale condanna di non potersi capire e soccorrere reciprocamente, aldifuori e aldisopra degli egoismi e delle inconfessabili miserie piccole e grandi, umane, fin troppo umane, di ognuno di noi, meschine o non meschine che sieno.

Una giovinetta sedicenne, Flavia, si è suicidata e un giudice severo, un dottor sottile, alieno da ogni metodologia giudiziaria codificata che avrebbe potuto trasformare un tragico fatto umano in un comune caso poliziesco, ne ricerca il perché. Nulla, apparentemente, giustifica quella morte: però, a mano a mano, che lo scavo si sviluppa e si estende, le motivazioni appaiono fin troppe: tutte possibili e nessuna convincente, tutte contraddittorie, tutte in superficie a non so che segreta e atroce verità che vi si intuisce oscuramente sotto, senza lasciarsi penetrare.

Incomprensione, carenza di vero affetto in una famiglia, all’apparenza concorde, e che ha per lei la cura e l’amore abitudinari ma fuori discussione della maggior parte delle buone famiglie, ma è sufficiente, ciò, a togliersi la vita prima ancora, si può dire, che la vita cominci? Flavia odia la madre e non lo nasconde, dacché ha scoperto che essa ha un amante, ma basta per scegliere il mondo di là, coi tempi che corrono e con la spregiudicatezza e la promiscuità fin troppo spinte che la fanciulla intrattiene coi propri coetanei, così diversi, lontani estranei dai propri genitori? Flavia è pura, timida, inibita, frigida, e tuttavia ossessionata dal sesso. Ne è incuriosita e ne discorre con una disinvoltura sconcertante, ma appena un suo compagno le si avvicina con qualche intenzione di venir al dunque, è presa dal disgusto. E’ morta vergine e ciononostante è provato che s’è offerta ad almeno due uomini d’età i quali, bontà loro, hanno rifiutato la golosa occasione. Uno dei due era addirittura l’amante di sua madre. Per separarli, per creare tra di loro una barriera di ribrezzo e di rancore da rendere impossibile la prosecuzione della tresca?

Più il giudice rimesta in quelle nere e cupe acque e più fango viene a galla. Sua figlia stessa fu legata, in certo modo, alla morta. Oh, se ne è trascinati dietro degli omicidi morali, col suo incomprensibile gesto, quella bambina antica e misteriosa, buona eppur crudele come un angelo senza ali! Alla fine, si giunge alla verità e sarà ancora una mezza verità: però più triste e orrorosa di una verità intera, poiché si tratta di una colpa vissuta innocentemente, col carico della disperazione senza la luce della consapevolezza. All’origine di tutto c’è stata la degenerazione di quella che psicanalicamente si direbbe il complesso di Elettra. Il puro affetto della bimba verso il padre le si era intorbidato, senza una piena consapevolezza, in disperato amore di donna. E quando suo padre, preoccupato, senza rivelarle l’innaturalità di ciò che le sta accadendo, crede di salvarla separandosene, la innocente Mirra giovinetta, dopo aver salutato le sue bambole – un momento emblematico di autentica poesia – recide il fiore della propria infanzia prima che sbocci e si toglie la vita.

Nel nitore letterariamente elaborato del suo qua e là sentenzioso linguaggio, stracarico di intelligenza, la commedia si avvia un po’ lenta e lambiccata e non priva di qualche diversione non strettamente necessaria, anche se ciò risponde all’intenzione di creare come si dice della suspense, cosa sempre utile a teatro. Via via che essa procede e si dilata, si disintelettualizza, si semplifica, si purifica, si umanizza; si immerge in una commozione tanto più casta quanto più materia e discorso diventano scabrosi, e scusate se è poco.

Sia Tony Stefanucci, sia Silverio Blasi hanno realizzato il tentativo più avanzato e riuscito finora di quelle che dovrebbero essere rispettivamente la scenografia e la regia in un teatro a pista circolare. Il primo con un plastico essenzializzato sovrastato da una gran cupola, aderente al carattere antirealistico e razionalizzato del copione, (e così dicasi degli abiti, non costumi, di Colabucci); il secondo con la visualità poliedrica di una recitazione stilizzata ma non per questo meno varia, incisiva, penetrante e veritiera; alla quale tutti, indistintamente, gli interpreti han corrisposto in modo ottimo e più d’uno egregio; con, in testa, una Paola Quattrini larva assorta, fragile e trepida e, al contempo concretamente viva, richiamata dal nulla; e un Aldo Giuffrè d’una precisione, una perentorietà e un’autorità eccezionali. Non da meno: Mario Valdemarin mai stato tanto bravo e convincente e Liana Trouché, una madre drammaticamente sofferta. E poi, con tempi scanditi al metronomo, la stupenda Piaz, applaudita a scena aperta, il nervoso Fattorini, il comprensivo Mantesi, lo sgomento Pistone, le aggressive Scolfi, Aslandis e Colombo, campionesse di una giovane generazione in rivolta, giudice spietato di chi l’ha messa al mondo, tema di rincalzo ma non secondario dell’importante copione, alla faccia degli scettici.

Carlo Terron

Ultima modifica il Lunedì, 22 Dicembre 2014 16:16
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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