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Ferdinand BRUCKNER - Elisabetta d'Inghilterra

Corriere Lombardo, 24 novembre 1952

E pazienza. Non è il caso di dar la croce addosso a nessuno. La Elisabetta dell’altra sera non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo degli equivoci in cui incappa il provincialismo culturale dei sedicenti detentori ufficiali e monopolistici dell’indigena cultura e “civiltà” teatrale non appena si avventurano fuori dal comodo recinto dei classici. Sono scherzi, penso, i quali, più o meno – ma forse meno che più – succedono in ogni parte del mondo. D’altro canto, fermo restando il “complesso di Parigi”, è anche comprensibile e perfino lodevole la agonistica tentazione di dire: vediamo un po’ – visto che non mancano i quattrini per levarsi certi capricci – se riusciamo ad essere più bravi di Barrault trasformando in un successo quello che, non più tardi di due anni fa, è stato il maggior tonfo della carriera del “patron” che non ci fa dormire. Onore al merito: fino a un certo punto ci sono riusciti. E qui cadrebbe di proposito il discorso sul provincialismo – e lo snobismo – del pubblico.

Ad ogni modo, sono semplici supposizioni che non hanno altro scopo se non quello di ricercare le ragioni che hanno indotto il Piccolo Teatro di Milano e cioè, piaccia o non piaccia, la più importante istituzione teatrale del momento nel nostro paese, verso la quale, di conseguenza, abbiamo il dovere di essere severi in misura perlomeno eguale a quanto la apprezziamo, a scegliere per inaugurare la nuova stagione un centone operistico e pompieristico come Elisabetta d’Inghilterra (1930) che l’austriaco Ferdinand Bruckner compose a suo tempo per le coreografiche magniloquenze dell’ultimo e involutivo periodo di attività registica di Max Reinhardt; e dove il cattivo gusto, evidentemente insofferente di solitudine, una volta tanto si mostra reo di bigamia, risultando contemporaneamente ammogliato alla noia e alla falsa pensierosità, senza escludere occasionali ma ripetute fornicazioni con una teutonica presuntuosità che rinforza la prima e rende insopportabile la seconda.

Imparentato molto relativamente, e semmai non più che come affiancatore se non addirittura come dilettante, all’espressionismo tedesco tanto caro in via Rovello, l’israelita Bruckner rimane autore abbastanza originale ed autentico fin che si mantiene nei limiti di innegabile derivazione borghese, di un repertorio realistico, crudo, aggressivo, provocante e polemico; non indifferente alle istanze sociali; ma soprattutto bilanciato sulla prepotenza, per non dire sulla brutalità, degli istinti; e governato e spiegato in chiave freudiana. La razza e il luogo di nascita contano pure per qualche cosa: Freud, Bruckner e Schnitzler – al quale il secondo è pure legato più di quanto si creda – sono tutti e tre israeliti e tutti e tre viennesi. Ad esempio, Delinquenti e ancor più Gioventù malata che i milanesi dovrebbero non aver dimenticato di aver fischiato in una ardita e potente realizzazione curata da Mario Landi, sono opere convulse, sgradevoli, urtanti fin che si vuole, ma posseggono un colore, un tono e un ritmo inconfondibili nel complesso, tormentato e contraddittorio teatro, europeo in genere e tedesco in particolare, fra le due guerre.

Ma Elisabetta che cosa è, che cosa racconta, che vuol significare? Un dramma storico no di certo, e nessuno come noi sarebbe lieto di constatarlo. Ma allora che senso vogliono avere i due logorroici antagonisti del copione: la figlia, cioè, di Enrico VIII e Anna Bolena, e il tetro e sadico Filippo II di Spagna? (Entrambi – sia detto di passaggio – nella realtà, due psicopatici criminaloidi). A un certo punto, verso la fine, dopo due ore e passa di soliloqui che erigono pomposi monumenti di stupidità proclamando le cose più ovvie col tono più magniloquente senza riuscire a spremere un’idea che è un’idea, rispettivamente declamati da entrambi davanti a dei manichini vestiti in costume che non riescono ad essere neanche lontanamente dei personaggi, sembra che la montagna debba partorire il topolino: essi starebbero a significare “una insensata saggezza contro un inscusato fanatismo”. Quanto all’insensato siamo d’accordo, ma riferito al copione. Eh sì, perché se dovessimo prendere sul serio questa spiegazione bisognerebbe, se non altro, che qualcuno ci spiegasse come sia possibile concepire sul serio la saggezza inscusata. Sarebbe – come dire -- che so? – un fazzoletto bianco di color nero. Ebbene sia, accettiamo ipoteticamente la possibilità di codesto assurdo conflitto nel quale almeno uno dei due termini zoppica: un’Elisabetta economica contro un Filippo mistico che si attraggono con la misteriosa forza dei contrari. 

Ammettiamo pure un’Elisabetta tutta chiusa nella realtà, vessilifero del protestantesimo, con la testa sul collo; pratica, calcolatrice, persuasa che la guerra sia il peggiore dei mali in ogni caso, capace sempre e in ogni momento di sommettere il talento alla ragione; e a proposito di ragione, decisa perfino di sacrificare i propri sentimenti alla ragione di Stato consegnando il proprio amante adorato – più di uno, veramente – al ferro del carnefice, quando sia necessario. Ma allora perché ci viene presentata come una isterica che non sa mai quel che vuole, che disfa un momento dopo quanto ha fatto un momento prima; scettica, incredula, religiosa e continuamente preda ai suoi maturi furori uterini; assolutista e tirannica nell’attimo medesimo in cui si proclama scudo ed usbergo di democratica costituzionalità e si abbandona a squarci di organizzatrice sindacalista? Intendiamoci, che con tutto questo si possa creare un carattere non lo nego, giungo perfino ad ammettere la possibilità che tale possa essere stata nella sua realtà umana quella scomoda signora.

Quanto a Filippo la logorroica incontinenza, pura effusione sinora priva di qualsiasi logica idea, con la quale conversa direttamente con Nostro Signore, esclude criticamente a priori qualsiasi discorso serio. Filippo è una specie di trombone scatenato che si limita a stancare le orecchie emettendo dei boati.

Ma un’opera di teatro, specie se la si appiccichi arbitrariamente l’etichetta espressionista, può legittimamente essere anche soltanto un tono, un colore, un assonante o dissonante accostamento di valori lirici, veicolo a suggestioni più o meno simbolistiche o anche niente del tutto. Già. E allora, occhio al linguaggio. Da una parte inutili e pacchiani anacronismi i quali sembrano voluti di proposito al fine di effetti tutti diversi da quelli della preoccupazione storica; effetti che poi non esistono: come la congiura e la esecuzione del favorito conte di Essex anticipate a prima della guerra con la Spagna mentre esse avvennero tanto e tanto tempo dopo; e come – altra inesplicabile premura – la morte dell’autocrate Filippo costretto dall’autore ad andarsene da questo malinconico pianeta con dieci anni di anticipo, appena la “grande armada” fu sbaragliata dalla famosa e non provvidenziale tempesta che aprì ad un tempo le porte al trionfo dell’anglicanesimo e alle fortune politiche dell’Inghilterra. Dall’altra parte, un fitto picchettio di minuzie erudite, anzi addirittura cronistiche che si direbbero messe lì apposta per garantire delle ricerche di biblioteca compiute dall’autore. In compenso però nemmeno una parola di grossi avvenimenti storici, biografici e psicologici di corrente e comune conoscenza. Per dirne una, quisquillie indispensabili alla conoscenza dei caratteri quali l’assiduo favoreggiamento alle piraterie di Drake e compagni, concesso  et pour cause dalla regina, e le beghe, le ribellioni e i tiri mancini giocati al Pontefice dal sovrano spagnolo, sono passate sotto il più completo silenzio quasi si trattasse di segreti di famiglia. Ma Elisabetta doveva  figurare come una ragionevole e pacifica, anzi pacifistica campionessa di antimperialismo, e Filippo come un fanatico paladino della fede cattolica e così bisognava sacrificarli.

La conseguenza di ciò? Un linguaggio che saltabecca incessantemente dal discorso realistico e terra terra a quello aulico ma ispirato di un falso quanto ermetico messaggio; e quando tenta di affidarsi alla puntualizzazione storica scivola pietosamente sull’impersuasività dell’arbitrio e della lacuna; e inciampa ridicolmente nei ciottoli seminati sulla sua strada dalla pignoleria della cronaca.

E non mi si venga a dire che a sanare tutto ciò e a dargli un significato esoterico c’è la trovata di far apparire e parlare contemporaneamente i due antagonisti sulla scena. Senza appoggio veruno di un’autentica illuminante necessità del testo, e con quello che la tecnica teatrale e cinematografica – e adesso anche televisiva – ci hanno fatto vedere, ciò non impressiona più nemmeno i registi delle filodrammatiche.

Le occasioni offerte alla regia da un simile canovaccio potevano essere più d’una e tutte egualmente legittime od egualmente arbitrarie, a volontà. Si sarebbe potuto indifferentemente puntare sulla ricostruzione storica, sul pacifismo, sull’anticattolicesimo – l’altra sera molto attenuato – o su un certo diffuso scetticismo religioso che è forse la nota più coerente e costante del copione. Giorgio Strehler, forse per lodevole scrupolo critico, s’è comportato un po’ come l’asino di Buridano e non ha preso decisamente partito né per l’uno né per l’altro, limitandosi ad orchestrare il tutto con la nota perizia, in una regia fastosa e spettacolare sul piano di quella classe che, in ultima analisi, rimane il superstite – e indiscutibile – titolo del Piccolo Teatro. Si trattava in un certo senso di inaugurare la nuova elegante e lussuosa sala, con la Gioconda e Strehler ha messo in scena la Gioconda. Complici autorevolissimi in ciò gli sono stati il Coltellacci per dei magnificenti e sensuali costumi da fare invidia a Wanda Osiris; e il Ratto che ha offerto alla regia scene di tessuti preziosi e prolissi frequentate da un continuo andirivieni di fasci della stessa stoffa che, scendendo e risalendo dal soffitto a mo’ di colonne o pilastri – fra parentesi, potrebbe riuscire divertente un’interpretazione psicanalitica di questa selva di tubi o budelli che dir si voglia entro i quali vagavano  gli attori – i quali suggerivano i vari e numerosi ambienti. Egli ha contribuito alla continuità del tempo interiore dello spettacolo adottando il sipario con due bande a moto continuo, in uso nei teatri di rivista londinesi.

La recitazione generale non sempre, come si dice, è riuscita a passare alla ribalta, ma questa non è colpa degli esecutori; come non è colpa di Lilla Brignone, che pure ha recitato con eccezionale bravura e autorità, se il personaggio le è riuscito oscillante fra la puntigliosa caratterizzazione realistica, la puntualizzazione psicologica e la stilizzazione diciamo messaggera. Essa fu molto applaudita col regista, con l’autore e con Tino Carraro circonfuso di liturgici consensi. Non ho capito però come mai un attore della sua originalità, così moderno e personale sia stato costretto a recitare come Benassi in una delle sue serate di malumore. Tino Buazzelli aveva  per le mani la figura di Bacone e sono pronto a scommettere una cena se egli è riuscito a capire ciò che l’autore fa dire all’immortale autore del Novum Organum. Egli tuttavia lo ha detto benissimo, proprio come se avesse un senso. Anzi, dopo una sparata che, così ad orecchio, si giurerebbe tolta da uno dei discorsi di Mussolini sull’Impero, ha avuto anche lui il suo bravo applauso a scena aperta – applauso nostalgico? -. Da segnalare per scrupolo e bravura anche tutti gli altri, e principalmente: lo Sbragia, l’Alzelmo, la Asti, la Albani, il Fanfani, il Bagno, il Valli, il Rissone, il Lupo, il De Ceresa, l’Alori e il Cameran che sembrava il cardinale dei Promessi Sposi.

Carlo Terron

Ultima modifica il Venerdì, 19 Dicembre 2014 14:27
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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