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Radiocorriere, marzo 1957

Quando un vecchio commette un reato noi non diciamo: “questi vecchi!...” E’ la risposta di un ragazzo d’oggi che mi ha colpito, leggendola nell’inchiesta che un giornale va dedicando alla gioventù del dopoguerra. 

Quante volte, viceversa, più o meno a proposito, dall’altra parte si sente dire con aria di severa riprovazione. “questi giovani!...” E quante volte, e in quante lingue, la stessa frase si è sentita dire nel corso dei secoli; ma che secoli?, millenni. Il primo a pronunciarla dovette essere Adamo contro Caino. Benché, ad essere giusti, prima ancora di lui e contro di lui, forse avrebbe avuto diritto di pronunciarla Caino constatando la predilezione che il padre aveva verso suo fratello Abele.

Mi rendo conto che sto facendo un discorso sofisticato e preso alquanto alla lontana per venir a far due chiacchiere intorno alla commedia: Gli Adelfi, o più semplicemente: I fratelli, di Terenzio, anche se, essendo stata rappresentata nel 160 avanti Cristo, essa è più vicina alla Genesi di quanto non lo siamo noi. In una spregiudicata riduzione di Toni Comello, e col nuovo titolo: I dadi, ovvero L’arte di educare i figli, la potrete ascoltare, alla radio, questa settimana.

È sempre la solita storia, antica e nuovissima, che ha ispirato i due terzi del repertorio teatrale da che mondo è mondo. La differenza, l’incomprensione, il conflitto fra le generazioni. “Questi giovani!”, l’han detto i nonni dei nostri nonni ai padri dei nostri nonni, l’han ripetuto i nostri nonni ai nostri padri, lo ripetono i nostri padri a noi, lo ripeteremo noi ai nostri figli, a così all’infinito. Se Dio vuole, nella inarrestabile mutazione di un vertiginoso universo, dove l’oggi non riconosce l’ieri e il domani non riconoscerà l’oggi, un punto fermo rimane, ed è proprio l’inevitabile legge psicologica che stabilisce questo immutabile rapporto umano fra padri e figli; la fonte donde scaturiscono, maturano ed evolvono le verità morali indispensabili e le norme del costume inevitabili per la continuità del vivere civile. Il motivo fondamentale, si potrebbe dire l’unico motivo, del teatro di Terenzio è appunto questo.

In misura preminente ed in maniera specifica lo è della commedia in parola. Due “vecchi”, due fratelli, Micione e Demea, si sono divisi la prole di uno di loro. Il primo educa in città, “alla moderna”, con la massima indulgenza e libertà, il nipote passandogliele tutte lisce. Il secondo si è tenuto l’altro figliolo in campagna e lo tira su “all’antica”, con gran severità e ogni rispetto possibile delle prudenti consuetudini conservatrici. Morale vecchia e morale nuova. Risultato? Più o meno alla pari, e forse a vantaggio dello scapestrato il quale, alla resa dei conti, si dimostra più corretto, sincero e leale del fratello santocchio. E ai due vecchi rimane la malinconica conclusione che un sistema o l’altro di educazione tanto valgono quanto fiducia, confidenza, comprensione e affettuosità nei rapporti si riesce a istituire fra educatori ed educandi. Un fluire cordiale della vita nelle subentranti generazioni che si contrastano senza respingersi.

La violenza la volgarità, la grossolanità, l’animale, prepotente salute e l’esplosiva sensuale istintività che avevano costituito il timbro originale inconfondibile del primitivo e popolaresco Plauto, si sono trasformate in educazione, eleganza, garbo letterario, simpatia umana, grazia sottilmente patetica e affettuosamente comprensiva. Erano modi e toni fino allora sconosciuti in una Roma chiusa, aspra, rude ed incolta, unicamente occupata nell’aggressivo espansionismo territoriale che fu la sua inguaribile malattia. La nuova voce ad una nuova esigenza si diffondeva dalle scene per bocca dei controllati e civili personaggi di un ex schiavo cartaginese neutralizzato quirite, pupillo dell’aristocratico clan degli Scipioni, già tutto preso dall’ellenismo d’importazione della civilissima Grecia che, conquistata dal pesante tallone romano, stava muovendo, verso il vincitore, una conquista più penetrante e sottile: quella dello spirito; e sono imminenti, al proposito, le geremiadi e le reprimende del fastidioso Catone.

Tramite Terenzio, questo “mezzo Menandro”, come ebbe a chiamarlo Cesare, questo interprete di una esordiente borghesia, la cosiddetta “commedia nuova” greca si stabilisce in Roma con manifestazioni che, oggi, dovremmo francamente tacciare di vero e proprio plagio, se l’idea del plagio, nel mondo antico, non si arrestasse ai confini del territorio nazionale, rimanendo stranamente limitata all’ambito della patria lingua.

Ad onta dei nobili protettori e nonostante la fedeltà di Ambivio Turpione, mattatore celebre e capocomico anticonformista che si era fitto in mente di riformare il repertorio del suo tempo – una sorta di Anton Giulio Bragaglia di duemila e passa anni fa – quelli del Terenzio furono, per così dire, dei “successi contrastati”. Passò sulla scena come una rapida meteora. Soltanto sei commedie in sette stagioni, e risultarono cibi troppo raffinati per il palato grosso della romana plebe. Aveva esordito a diciannove anni con L’Andria, finì a venticinque con Gli Adelfi. Scomparve a ventisei, abbattuto da malattia o tranghiottito da naufragio, non si seppe mai. Un po’ per sottrarsi agli strali della critica ostile – anche allora! – un po’ per immergersi nell’adorato mondo ellenico, probabilmente anche per raccogliere copioni del suo prediletto Menandro, s’imbarcò verso i lidi greci. E nessuno lo rivide più. Una leggenda che avrebbe meritato di nascere: esule volontario, alla ricerca della patria ideale, vissuto oscuro ma pago, all’ombra del Partenone. I confronti son sempre falsi. Si potrebbe tuttavia suggerire che egli sta a Plauto come Goldoni sta a Molière. Plauto è, indubbiamente, il genio della commedia romana, ma Terenzio ne è, incontestabilmente, l’artista.

Carlo Terron

Ultima modifica il Lunedì, 15 Dicembre 2014 11:01
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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