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Radiocorriere, 2 dicembre 1960

E se, dopotutto, Euripide fosse stato il Racine dell’antica Grecia? Pochi anni lo allontanano dal terribile Escilo, suo contemporaneo è il sovrumano Sofocle, eppure sembra che secoli lo separino dagli altri due. Essi, vati della sublime religiosità arcaica, egli, testimone della terrestre umanità moderna: uno dei nostri. Con lui, si può dire che la tragedia cambi sesso. Da maschia si fa femminea: soffre, sospira, geme e, ahimè, comincia a spaccare i capelli in quattro. Dal vertice dei secoli, il melodramma strizza, per la prima volta, l’occhio verso il futuro. Misogino dichiarato nella privata biografia, quasi quanto il suo amico Socrate, e tuttavia femminista solerte nei copioni, alle strofe, alle lamentazioni e alle ribellioni implicanti i diritti della donna delle sue tragedie, al principio del secolo ventesimo toccherà, perfino, il discutibile onore di venir declamate nelle adunate delle suffragette.

È il crepuscolo degli Dei che incomincia. Uno dei tanti. Sta per finire il tempo degli eroi e sta per incominciare la primavera delle eroine. Al filtro di un’ispirazione critica, letterata e problematica, la reverenza sacra si stempera e si estenua nella sensibilità patetica. L’uomo cessa di essere strumento inerte nelle mani della divinità, per farsi costruttore responsabile e attivo, vinto o vittorioso poco importa, del proprio destino. Scopre la libertà, e sia pure la libertà di accettare e di subire, ma accettare e subire giudicando sul metro della coscienza e della legge umana, con tutta la responsabilità ed il peso morale delle proprie azioni consapevoli e deliberate. Innocenza e colpa, errore e verità, giusto ed ingiusto, risuonavano per la prima volta sulla scena nel senso che noi, dopo quasi duemila e cinquecento anni, non abbiamo ancora cessato di riconoscere loro. Il miscredente poeta appartiene all’incomoda schiera degli intellettuali laici, diciamo: un radicale dei suoi tempi. Era, del resto, il meno che potesse capitare nell’Atene di Pericle, formicolante di sofisti. Protagora ed Anassagora aveva pure il diritto di trovar un equivalente poetico. In una stagione in cui una solida fiducia nella filosofia stava fugando la cieca e superstiziosa fede negli dei, era comprensibile e legittimo che qualcuno esortasse a distogliere gli occhi dal cielo per distendere lo sguardo sulla terra. Prima e dopo, il Fato e il Mito dovevano pur rassegnarsi a lasciasi rivedere i conti dalla ragione e dalla storia e, magari, dalla cronaca. Attraverso impercettibili ma fitte crepe di scetticismo e di dubbio che hanno corroso la levigata superficie di un vaso esternamente ancora intatto nelle sue arcaiche forme, è già sfuggita l’antica e solenne austerità mistica e ritualistica; e in sua vece vi circola dentro una vibratile sensibilità stimolata da ambigue, morbide e cangianti incertezze: l’eroe è disponibile ad ogni umano richiamo. Privata della connaturale religiosità, la tragedia doveva naturalmente riparare nella psicologia. Quando gli dei vengono sottratti alle irraggiungibili altitudini dell’Olimpo e i protagonisti vengono strappati dai marmorei piedistalli dell’eroismo, il poema della collettività si trasforma inevitabilmente in poema dell’individuo. L’uomo risponde del proprio destino, con la sua ragionevolezza e il suo scetticismo, col suo pessimismo e la sua vaga crudeltà, con le sue tendenze avvocatesche e processuali, Euripide si assume la responsabilità di una rottura gravida di incalcolabili conseguenze. Dopo di lui, sarà il regno del dramma, il regno della commedia; ma la vera, assoluta tragedia rimarrà per sempre irrecuperabile.

Si fa tanto per dire, eppure chi volesse intendere Le troiane (415 a. C.) – in programma dagli studi televisivi di Milano tramite la moderna ed insinuante traduzione di Enzo Cetrangoto – come una requisitoria contro la guerra e un messaggio pacifista giunto a noi dai millenni e quanto mai valido tuttora, avrebbe le carte in regola. Tanto valga a testimoniare l’attualità della grande poesia. Altri la penseranno diversamente, per me questa luttuosa meditazione, questa sinfonica marcia funebre che accompagna la sventura, il dolore la dispersione e la strage di una magnanima stirpe di re e di regine, questo austero e solenne monumento eretto alla pietà degli sconfitti, rimane il vertice più alto del canto euripideo, ad onta, anzi starei per dire in virtù dei suo arditi e geniali attentati alle strutture stabilite della tragedia; ma, soprattutto, per il colpo d’ala, senza riscontri nella tradizione scenica dell’antichità, di aver colto e concentrato il dramma truce ed infuocato della guerra non nei suoi maschi ed eroici protagonisti bensì nei riflessi patetici e morali, nei sentimenti materni e familiari dell’animo femminile e soltanto di quello. Al paragone Madre Coraggio è una barzelletta e Brecht un retore da comizio.

Siamo al momento supremo della crisi. A dieci anni dall’assedio, il martirio di Troia è consumato. Dopo i morti anonimi che insanguinano il campo di battaglia, dopo la morte del grande Priamo e dei “cinquanta talami”, fra vampe d’incendio e boati di rovina, è, ora, la volta della regina e delle sue figlie. Pagano gli incolpevoli. Come tutti i vincitori, i greci non conoscono carità. Atena stessa, loro celeste padrona, in un colloquio con Poseidone, santo patrono dei troiani, deve riconoscere che il tallone degli invasori è pesante e vanno puniti con un travaglio ritono alle loro case. Evidente, fin da qui, il giudizio del poeta: empio è chi, della vittoria, selvaggiamente abusa. Il seguito sarà una progressiva esemplificazione ed amplificazione di tale motivo. Ma gli dei parlano. A soffrire sono le creature umane. Spade sempre più affilate vengono immerse nel cuore della vecchia regina maldicente la guerra. Si alza, lugubre, il pianto delle donne troiane intorno alla percossa sovrana, mentre le spietate decisioni dello stato maggiore greco incalzano. 

Ciascuna delle sue figlie, e lei medesima, dovranno andare schiave di un generale acheo. Cassandra, la vergine e indomita profetessa di sventura, ad Agamennone, Polissena sacrificata sulla tomba d’Achille, Andromaca, sposa di Ettore, il defunto eroe nazionale, a Pirro; lei, la sacra vedova di Priamo, ad Ulisse.

Né, a tanta umiliazione, può essere di conforto la furente profezia di Cassandra che vaticina sciagura e morte ai greci; come non lo può essere la requisitoria, vero e proprio processo, che Ecuba celebra contro la fatale Elena responsabile di tutto: lei, gli uomini, non gli dei! l’ultimo annuncio sarà anche il più atroce. Astianatte, l’innocente, adorato figlioletto di Ettore ed Andromaca dovrà essere precipitato dalla rocca. Ragione di Stato! Piange le sue ultime lacrime l’impietrita vegliarda sulla spoglia del nipotino; lo accomoda – culla che è già bara – nello scudo di Ettore e, intonando un buio canto di morte, si imbarca sulla nave del nemico, seguita dal nero corteo delle donne indifese, quelle che, in ogni guerra, pagano e non pagano meno.

Carlo Terron

Ultima modifica il Domenica, 14 Dicembre 2014 19:37
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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