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Pasquale Festa CAMPANILE - Anche si vi voglio un gran bene

La Notte, 3 marzo 1971

Quando si dice le resurrezioni impossibili! Chi avrebbe pensato che, oggi, 1970, in piena epoca lunare, postconciliare, contestatoria e divorzista, avremmo dovuto recensire una commedia nuova che avrebbe benissimo potuto essere scritta – meglio – quarant'anni fa, dal mite e compianto Fausto Maria Martini, all'insegna del crepuscolarismo? Crepuscolarismo, Fausto Maria Martini, termini arcaici di un tempo irrecuperabile, visitato da grigie esistenze rinunciatarie, stinte dalla malinconia del banale quotidiano ed estenuantesi nei vani rimpianti di ineseguibili rivolte... Dove son finite le tante, tante, troppe sorelline vili della Nora Ibseniana?

L'ultima, per il momento, ha preso alloggio in sordina nella nuova commedia di Pasquale Festa Campanile, lietamente accolta, ieri sera all'Odeon. Forse egli non se ne è reso conto, probabilmente non le conosce nemmeno, ma, dietro alla protagonista di Anche se vi voglio un gran bene, in filiazione diretta, stanno le incomprese, delicate e mansuete eroine della Sorridente signora Baudet di Amiei, da Il fiore sotto gli occhi di Martini, appunto; e di chissà quanti altri copioni del "Teatro del silenzio" di buona e spenta memoria, stipati di ribellioni fallite, che non mi ricordo o non conosco io.

Si chiama Antonia ed è alla vigilia delle nozze d'argento con un uomo tanto profondamente egoista da sentirsi persuaso di essersi sacrificato per la famiglia in genere e per la moglie in particolare. Mentre, viceversa, è lei ad essere ridotta una cosa, una creatura paziente, affezionata e remissiva, senza una volontà propria. I figli sono grandi e non meno egoisti del padre, ed essa langue in una vita senza scopo e senza rispetto. Bene? Sì, se ne vogliono e gliene vogliono, ma l'usura del tempo e delle abitudini lo ha reso scialbo e inoperante, per non dire morto... una lunga teoria di giorni eguali, vuoti, indifferenti, senza passato e senza futuro. Senza essere qualche cosa, senza sentirsi qualcuno, soprattutto.

Dovendo, in occasione di un progettato – progettato, beninteso, da quell'innocente bisonte che è il marito – viaggio all'estero, chiedere, in municipio, lo stato di famiglia per ottenere il passaporto, si scopre che, causa una negligenza di scrittura dell'anagrafe, essa non risulta maritata ed è ancora, per lo Stato Civile, zitella, e quindi libera. Insomma, per essere in regola occorre ricelebrare, anzi celebrare, il matrimonio. E' l'arguto punto di partenza, la scintilla inedita che accende il motore della commedia.

No, dice Antonia, giacché le cose stanno così, ne approfitto e così restino. Voglio provare a vivere da sola, a togliermi il gusto di tante, piccole cose alle quali ho dovuto rinunciare. "Anche se vi voglio un gran bene, non avete più bisogno di me e me ne vado da casa". E così fa.

Se le cose alle quali dovette rinunciare, e gliene era rimasta la nostalgia, sono quelle che ci fa vedere il copione – rifugiarsi presso un'amica svampita, il far visita, in convento, a un'antica compagna di scuola che s'è fatta monaca, il tornar a vedere il paesello natio – francamente poteva risparmiarsi la fatica e restare a casa sua. In ciò, nel non sapere cosa farsene della libertà sarebbe potuto essere, e non è, l'originalità del copione. Non per questo torna a casa, Antonia, bensì per le pressanti suppliche del marito, il quale, dal vuoto che ha lasciato, si è finalmente accorto di quel che quella insignificante donnetta rappresenta per lui e per la famiglia.

Rassegnata una volta di più, Antonia torna a casa. E, nella stessa notte del suo ritorno, muore. Perché muore? Mah! Così a occhio, potrebbe trattarsi di una trombosi cerebrale, o delle coronarie. Disturbi circolatori, in altre parole.

La commedia sta in piedi e si ascolta gradevolmente in virtù della discrezione e della scioltezza di un dialogo che fortunatamente né gonfia le gote, né per così dire, problematizza a sproposito la singola vicenda generalizzandone la portata. Ma sta in piedi, soprattutto, per la superba interpretazione dei due protagonisti, ammirevoli nel conferire naturalezza e spessore psicologico alla divagante gratuità di episodi, tutto considerato superficiali e banali, ché, in difetto di sondare il rapporto coniugale, hanno tutta l'aria di essere stati conficcati a martellate nella polpa del copione, per tirar mezzanotte; non esclusa quella morte anonima che poteva essere il suggello di una vita senza storia e che, viceversa, per quanto discreta e, se vogliamo, coerente, rimane una risorsa teatrale escogitata tanto per finire, e solo esteriormente poetica.

Mettendo a frutto la propria competenza cinematografica e giovandosi dell'ingegnoso dispositivo scenografico di Giovanni Agostinucci, l'autore ha messo in scena di persona la commedia, improntata a una sobria naturalezza, scevra di petulanze veristiche. Lilla Brignone ha letteralmente ricreato la protagonista con le note a lei più congeniali, e cioè quelle della sottigliezza interiore e della consapevole malinconia adombrate da eleganti ironie: un saggio di virtuosismo su una corda sola.

Per contro, Gianni Santuccio le ha opposto il vario umorismo di un'esagitata estroversione divertentissima, fino a trasformare in simpatia le componenti sostanzialmente antipatiche del proprio personaggio. Furono applauditissimi. E, con loro, la estrosa, colorita ed eccentrica Anna Maria Bottini, ogni battuta una risata; Anna Goel, Adolfo Belletti, Serena Spaziani, Giovanna Di Bernardo e Alfredo Piano.

Carlo Terron

Ultima modifica il Lunedì, 08 Dicembre 2014 23:58
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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