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Bertolt BRECHT - L'Anima buona di Sezuan

al Teatro Lirico
Berliner Ensemble e il Deutsches Theater
regia Benno Besson
con Ursula Karusseit, Rolf Ludwig, Winfried Glatzer
La Notte, 25 aprile 1972

I sogni impossibili: per quanto presto Brecht potesse svincolarsi dalla palla al piede dei brechtiani di stretta osservanza, voglio dire i chierici provinciali dediti anima e corpo al mistico culto degli esoterici – nici – quanto interminabili riti dell' "estraniamento epico", sarebbe stato per scriver masso – sempre troppo tardi. Succede a lui, press'a poco ciò che successe a Wagner coi wagneriani. Ma già, per complicare le cose, anche le più semplici, rendere difficile il facile, nonché spremer l'uggia dal dilettevole, non esiste alcuno che valga i tedeschi, è una loro tipica vocazione come quella della guerra; buona gente, ma son fatti così, bisogna aver pazienza e prenderli come sono.

Rara, eppure, sembra impossibile, fortunatamente qualche lodevole eccezione non manca. Esempio: la acclamatissima rappresentazione di alto livello, di ieri sera al Lirico. Era di scena la Volksbühue che, col Berliner Ensemble e il Deutsches Theater, è uno dei tre maggiori organismi teatrali della Germania marxista. Reduce dalla rassegna fiorentina dei teatri stabili europei, il suo complesso ha fatto tappa a Milano, purtroppo per due sere solamente: ieri e oggi.

Non senza prendersi qualche ragionata e giovevole, seppur vistosa confidenza, escludendo qualche quadro, accorciando qualche scena e sacrificando qualcuna delle belle canzoni di Dessau, è stata presentata, ignara di qualsiasi intimidazione, L'anima buona di Sezuan, svelta, varia, sciolta, gradevole, tagliata senza misericordia, recitata di galoppo e – udite, udite! – persino con qualche discreta ma inequivocabile puntarella patetica, il massimo, come sapete, del controestraniamento: un'eresia.

Colpa, se è colpa, e merito, se è merito, del regista, originario svizzero, naturalizzato germanico dell'est, Benno Besson. Egli si è conquistato fama internazionale per essere stato allievo prediletto e coregista di Bertolt Brecht e, alla morte del maestro, direttore, per un certo periodo, del Berliner Ensemble, prima di passare alla direzione della Volksbühue; vale a dire, depositario dell'eredità ideale del drammaturgo, in altre parole, con le carte in regola in ogni senso.

Agli antipodi della non meno indimenticabile esecuzione al rallentatore messa in scena da Giorgio Strehler nel 1958, al Piccolo Teatro – e cioè quando Giorgio Strehler e il Piccolo Teatro erano ancora il Piccolo Teatro – formalmente fedele alla lettera dell' "epicità" fino alla sin troppo zelante, servitù masochistica, freudianamente, perché no?, indizio di una probabile quanto disperata ricerca di paternità, un vero e proprio transfert su Brecht identificato, nell'inconscio, col padre; lo spettacolo di iersera, dicevo, tanto diverso e altrettanto coerente e ammirevole, forte del probante avallo, per giunta, di un compatriota, alunno e sodale del drammaturgo, è venuto a confermarci all'evidenza qualcosa che avevo in testa e che, qua e là, comincia a farsi strada nove volte su dieci positivamente. E cioè che Brecht si può recitare senza didascalica faziosità, e rendere, se così posso dire più amabile e con risultati esemplari, addirittura di commossa compartecipazione emotiva divertente e piacevolezza anche senza tener alcun conto del massiccio e affliggente dottrinarismo onde da buon teutonico, contenutisticamente e formalmente, lo ha caricato il terrorismo ideologico dello stesso Brecht. Salvo, poi, da buon teatrante raccomandare ripetutamente di non esser preso troppo sul serio, comprensibile conseguenza della sua connaturale ambiguità, o se preferite, ambivalenza.

Bisogna anche riconoscere che col testo (1938-1941) in questione, immerso in un esotismo favolistico che attenua e quasi disperde ogni diretta aggressività specificamente politica, estendendo la sua polemica a favore dei valori morali universali, se Dio vuole privi del colore di questa o di quella parte, e anzi indulge a sentimenti umanitari semplici quanto, eterni, a differenza, ad esempio, di Madre Coraggio e del Puntila, che rispettivamente lo precedono e lo seguono, assai più, benché sempre in misura minore di molte altre opere, marxisticamente marcati, il regista Besson è stato facilitato nel compito di disinfestazione didascalica, lasciando libero lo spettatore di regolarsi se, come e quanto crede di recepire, senza indottrinarlo per forza come si ingozzano di polenta le oche all'ingrasso.

Insomma, niente profetismi e rivoluzioni; per spiegarci alla buona, una volta tanto, e con Brecht non è di tutti i giorni, sia nell'autore sia nel regista, sul demagogo prevale il poeta, ammesso che la parola poeta ormai relegata in solaio abbia ancora qualche modesto diritto di circolazione.

Non avessi dilapidato lo spazio, il discorso vi sarebbe più chiaro del diffuso racconto della vicenda, o per essere più preciso, della parabola, col suo numeroso, eppur chiaro, intreccio di simboli e di allegorie, a cominciare da quel Sezuan terra di sogno di una mitica Cina arcaica e attualissima, alla Carlo Gozzi, significazione di ogni luogo, in ogni tempo, di questo precario pianeta ammobliliato sul quale l'umanità va in giostra.

A Sezuan – come, pessimisticamente, ovunque – chi è buono è perduto. Gli Dei stessi, tra, vecchi, malandati e arteriosclerotici, che, alla ricerca di una creatura buona, coi loro limitati principi morali e sociali piccolo borghesi divinizzati – campioni dei padroni del vapore? Campioni del vapore – scendono sulla terra per premiarla del gesto altruistico disinteressato di dar loro ricovero, non trovano che una piccola, mite pallida prostitutella pronta ad accoglierli nella sua misera stamberga. Mezzi umoristicamente balordi come sono, essi credono di farla ricca e felice remunerandola con un piccolo gruzzolo che rischierà di trasformarsi nella sua rovina da tante che sono le miserie della città, le esigenze della carità, le richieste di aiuto per le quali non basterebbe un oceano d'oro.

Ma hai voglia che il celeste terzetto se ne renda conto. Ne verranno a conoscenza solo quando la piccina medesima, se vuol sopravvivere, sarà costretta, di tanto in tanto, servendosi di una maschera, a ricorrere a una sorta di "doppio" di sé stessa fingendosi un suo cugino incaricato di fare il cattivo, di dire "no" per salvare il salvabile e anzi arricchire con la frode e il cuor peloso.

E, da maschio, finirà anche in tribunale accusato di aver soppresso la cugina, solo perché quand'è con la maschera la cugina è irreperibile. Interpellati sul da farsi i tre poveri padreterni che han fatto anche da giudici, non trovano altro che consigliarle di fare il cugino cattivo una volta al mese. E, più presto che in fretta, cavalcando una nuvola risalgono nel loro malandato empireo cieco, sordo, incapace e indifferente.

La denuncia dell'universale ingiustizia e il carnevalesco fascino del malizioso umorismo che entra ed esce continuamente dalla satira, offerti dal testo, nella regia di Besson si configurano come una polimorfa parabola, parodistica e grottesca, poggiante sulle clamorose e sfacciate metafore di un deformato, mostruoso realismo dall'abbastanza evidente derivazione espressionistica. Tutto ciò si rispecchia, esaltandosi, nelle suggestive simbologie figurative della scenografia, dei costumi, delle maschere e dei mascheroni che contraddistinguono quelle i poveri e questi i ricchi, frutto dell'inventiva violentemente originale di Achim Freier.

Gli interpreti? Non uno che non risulti a tono perfettamente disciplinato e, se non ho contato male, sono ben trentatré; dei quali non posso non farvi il nome di almeno tre, nel caso che passaste dalle loro parti: una straordinaria Ursula Karusseit intensamente plebea, un eccezionale Rolf Ludwig e un nevrotico Winfried Glatzer, reo, fra l'altro, di mettere incinta quella perla della protagonista, ragazza di vita dall'incoercibile vocazione materna e anche quella costa.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 09 Dicembre 2014 00:14
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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