venerdì, 29 marzo, 2024
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INTERVISTA a MARIA FEDERICA MAESTRI - di Nicola Arrigoni

Maria Federica Maestri Maria Federica Maestri

Ridare tempo al pensiero creativo nell’ecosistema fragile del teatro
Conversazione con Maria Federica Maestri di Lenz Teatro fra Covid e futuro
di Nicola Arrigoni

Lenz Teatro, ensemble artistico guidato da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, è una realtà che frequenta con determinazione poetica ed estetica il limite. È un gruppo teatrale che intorno a sé ha saputo costruire un mondo e fare del mondo la scena da interrogare per dare compiutezza e senso al suo fare teatro. Se è vero che il teatro è spazio di visione ed azione, Lenz Teatro ha portato l’estetica a colloquiare con l’etica in quello spazio liminale che racconta di un disagio sociale, una diversa abilità che solo le arti sanno trasformare da in barriera in trampolino, in punto di partenza per un nuovo e altro orizzonte. Per questo motivo è parso interessante chiedere a Maria Federica Maestri una sorta di bilancio su questo 2020 che ci ha resi un po’ tutti inabili, limitati nelle relazioni, nella possibilità di vivere, soggetti a un virus che toglie il respiro corporalmente, ma ha tolto il respiro anche ai sogni, alle prospettive, agli atti creativi di un’umanità del saper creare e inventare, pressoché cancellata. E la comunità degli artisti è stata cancellata come le comunità fragili di questo Occidente che si è inventato un progresso irreale, un’efficienza innaturale, pronto a divider fra lavori utili e non, fra uomini utili e non… con tutti i rischi che questo comporta. E allora la prima domanda è la più naturale e forse la più banale, ma in un qualche modo bisogna iniziare e partire dall’ambiente, dal contesto del nostro esistere, da un anno a questa parte: il virus che ci ha costretti ad azzerare le relazioni, a tenere la distanza da tutto e tutti.

Come Lenz ha affrontato il lockdown?
«È stato un tempo complesso di riflessioni obbligate e di revisioni forzate dei nostri processi creativi. Per affrontare il nuovo contesto abbiamo prima di tutto rimesso a fuoco la nostra identità: Lenz è un centro di ricerca artistica contemporanea e non solo un organismo di produzione teatrale. Ripartire da questo presupposto ci ha permesso di oltrepassare la funzione concreta dell’agire scenico, e di ‘utilizzare’ la nuova situazione per trasformare il danno in dono, una trasformazione che passa innanzitutto dalla rimodulazione del tempo. Abbiamo ridato valore alla memoria, impiegando moltissime energie nel riordino dell’archivio cartaceo, audiovisivo, fotografico della Fondazione – un materiale sterminato che testimonia gli oltre trent’anni di lavoro di Lenz (nato nel 1986), di cui si è avviata proprio in questi giorni la digitalizzazione dei materiali antecedenti al 2000. Non un solo giorno è stato perduto: tutti i collaboratori stabili della fondazione hanno continuato a progettare e lavorare per acquisire nuove competenze tecniche e dilatare la propria capacità di visione artistica e curatoriale».

Quanto la chiusura delle sale ha limitato la progettualità?
«Lo spazio in cui lavoriamo dal 1990 è una dimora creativa, una fabbrica di pensieri e azioni artistiche, un’industria estetica ed etica molto più che un ‘luogo di pubblico spettacolo’. Certo la dinamica dell’opera teatrale include necessariamente il dialogo con lo spettatore, ma negli ultimi dieci, quindici anni si è scambiato il teatro per una scatola vuota, un ‘eventificio’, un contenitore (parola orribile) di spettacoli molto prossimi al linguaggio televisivo, una brutta copia dei programmi che occupano le zone ‘morte’ dei palinsesti. Da sempre il nostro modello e la nostra pratica teatrale si pongono in una misura diametralmente opposta: ricerca e sperimentazione linguistica, accrescimento e moltiplicazione dei soggetti afferenti al fare artistico, e questa vocazione di Lenz non è stata - fortunatamente - limitata dalla chiusura delle sale al pubblico. Discorso diverso per gli allestimenti site-specific che da diversi anni caratterizzano il nostro lavoro creativo all’esterno. Monumenti, musei, spazi contemporanei hanno dovuto chiudere i loro ingressi e ad interrompere la disponibilità a diventare, temporaneamente, lo spazio scenico delle nostre produzioni».

In che modo, se è accaduto, Lenz ha continuato a pensare al teatro come formula espressiva e artistica? Cosa ha voluto dire produrre in questo anno?
«Abbiamo ridato respiro al tempo creativo, allentando la tensione del tempo ‘inchiodato’ alla data della presentazione pubblica. Si è lavorato più concentrati e più disposti alla carica auto-critica, alla revisione (forzata dal distanziamento obbligato tra gli attori) dei processi creativi, contrappuntata dalla vivificazione della fisionomia tecnico-espressiva dei lavori. Nella cura degli allestimenti si è dato maggior rilievo alla creazione della luce intesa come segno spaziale, come evidenza concettuale, in dialogo più profondo con la drammaturgia. In questa fase di sperimentazione stiamo maturando nuove forme di attivazione performativa dei datori luce e video, innescando processi di interazione live, di graphic design e vee-jay».

Lenz Fondazione "Altro stato". Foto Maria Federica Maestri

Con che sguardo avete composto Flowers like stars?, Hipogrifo violento e Altro stato?
«Il processo creativo della trilogia calderoniana si era, in massima parte, già compiuto prima del lockdown di marzo; i segni maggiori di Flowers like stars?, Hipógrifo violento e Altro stato erano già stati definiti, perciò i tre assoli sono stati pensati in totale innocenza storica rispetto all’avvento pandemico dei mesi successivi. A settembre lo spirito positivo della riapertura al pubblico ci ha fatto immaginare di accompagnare i tre nuovi lavori da un ampio progetto installativo, un percorso nelle bellissime sale di Lenz in cui far rivivere agli spettatori (una ventina circa per sera, a causa delle limitazioni sanitarie) il nostro lungo viaggio nel barocco contemporaneo, in una visione individuale tramite monitor delle imagoturgie (drammaturgie per immagini) create da Francesco Pititto. Un campo ‘largo’ e allo stesso tempo intimo dove lo spettatore potesse ricostruire, attraverso un personale montaggio di immagini e musica, la propria vita-sogno, la propria città-fiaba».

Quanto e come questi lavori hanno risentito della situazione che stiamo vivendo? Quali sono le caratteristiche e quali i presupposti teorici e creativi che vi hanno portato a pensare a Orestea? Come si svilupperà il progetto nell'ultima sua fase?
«Non siamo stati ‘divorati’ artisticamente dal peso delle cronache tragiche di dolore e morte che ci vengono consegnate quotidianamente ormai da molti mesi. Non se ne avvertono tracce dirette nelle figurazioni sceniche che hanno trovato compimento in questo periodo di guerra pandemica, perché il teatro è per sua natura arte tragica, opera di lutto e catarsi, luogo di metamorfosi del male/malattia – che nella tremenda folgorazione iniziale dell’Edipo coincide con il male individuale - in esperienza eroica di perdita. Durante le prove dell’ultimo capitolo dell’Orestea - Pupilla - se ne è tenuto conto in termini formali: sicuramente ha interferito nel modus performandi delle sei attrici dell’ensemble, che non potevano toccarsi e che, per lavorare in sicurezza, dovevano rimanere forzatamente distanziate. Si è trattato di trasferire la loro sofferenza artistica, il loro depotenziamento fisico, in potenziamento concettuale, ho cercato di guidarle alla ricerca di un corpo antiretorico, più sensibile all’impulso interiore, capace di esaltare il proprio campo emotivo in una nuova grammatica di trattenimento. L’installazione scenica ha subito una forte variazione formale, si è ‘ionizzata’, svuotata dei pieni materici, ha acquisito una carica energetica superiore, si è fatta più vibrante, attivata da una nuova segnificazione virtuale live».

Lenz Fondazione "La Vida es Sueño" Foto Francesco Pititto

Significativa appare la progettualità La Creazione, con cui avete vinto il bando Vivere all'Italiana... Quanto questo lavoro sul Paradiso di Milton e sull'opera di Haydn vive della situazione che stiamo attraversando?
«Da Adamo ed Eva sprofondare fino al punto da cui tutto inizia, e da lì all’inconoscibile è spaziotempo di questa epoca. Dal libero arbitrio al peccato dell’origine, sono temi che riguardano anche il presente, lo smarrimento, la fragilità, la malattia. La creazione ha rappresentato per noi il primo passo di una ricerca che ci impegnerà per i prossimi anni sulle Sacre Scritture, Antico e Nuovo Testamento».

Quanto nel termine creazione si può intravvedere la necessità di leggere un Nuovo Mondo, una nuova creazione appunto, dopo il Covid-19?
«Creare è verbo che appartiene all’arte, dove tutto si crea dal vuoto che tutto contiene, dove ogni atto umano si aggancia al pensiero e insieme proiettano nello spazio dei segni infinite variabili di senso e relazioni a distanza. Il nuovo mondo è già adesso, è un presente che va oltre la pandemia, è un tempo che costringe a ripensarlo il mondo, a sperimentare nuove forme di resistenza, a conformarsi all’ostacolo, come l’acqua che scorre tra i sassi di un torrente».

Quanto la relazione, il contatto sono mancati a una realtà come Lenz, abituata a lavorare con la disabilità e a fare del corpo il nucleo portante della propria estetica?
«Abbiamo strutturato nuovi percorsi di coinvolgimento artistico degli attori sensibili, dotandoli di dispositivi digitali per istituire nuovi concatenamenti creativi; sessioni di prove in streaming che prevedono improvvisazioni drammaturgiche su temi concettuali, un lavoro intimo e profondo sull’espressività del volto, la scoperta della variazione emotiva e della sonorità della parola».

Quali sono le strategie che immaginate per la ripresa?
«Rimanendo fedeli alla nostra identità artistica, esaltarne la specificità espressiva: la trasposizione delle opere performative in contesti non convenzionali - complessi monumentali, edifici industriali dismessi e riqualificati, luoghi di culto sconsacrati, strutture pubbliche inutilizzate, musei - nata dalla necessità di superare i limiti espressivi imposti dalla rigida frontalità del teatro, in un dialogo serrato con gli spettatori che non consideriamo moltitudine anonima e indifferenziata, ma soggetti mobili e partecipanti del fare artistico, come infatti accade in tutte le nostre esperienze sceniche site-specific. Il nostro ruolo è quello di essere avamposto di sperimentazioni performative e visuali, officina di innovazione sociale attraverso il linguaggio teatrale contemporaneo. Il compito dei teatri nei prossimi anni non sarà solo quello di rendere sicuri gli spazi in termini di protocolli sanitari, ma di riavvicinare gli spettatori ai luoghi della cultura unici veri attivatori di vicinanza sociale, di comunità attraverso un’esperienza estetica coinvolgente, ricca di senso, di stupore e di scoperta».

Lenz Fondazione "Orestea 3 Pupilla" prove. Foto Maria Federica Maestri

Come avete mantenuto i rapporti col vostro pubblico?
«Attraverso la spesso vituperata rete dei social media riusciamo a mantenere un filo diretto con il nostro pubblico, lo manteniamo aggiornato sulle fasi di lavoro, sulle pratiche attive, sugli obiettivi progettuali. Non può essere fisicamente in teatro, ma partecipa alla costruzione del nostro futuro, condividendo immagini e riflessioni sul presente».

Come vi immaginate, dal punto di vista estetico e politico, il teatro del dopo pandemia?
«Un teatro ancora più consapevole della propria unicità, proprio perché ne è stata messa a rischio la sopravvivenza. Le arti performative devono essere protette nella loro dimensione necessariamente minoritaria ma non minore, la cui rarità perturbante è sigillo di irriducibile verità e umanità, contrapposta alla falsità insita nella comunicazione globale».

Ci sarà un teatro dopo pandemia? Dal teatro alla distanza, in streaming, via Zoom di questi mesi e che sembra dover andare avanti ancora. Come ne uscirà lo spettacolo dal vivo?
«Mi hanno sempre infastidito le dichiarazioni catastrofiste (tranne quelle riferite ai cambiamenti climatici e allo sfruttamento del pianeta): il teatro è morto, l’arte è morta, la televisione distruggerà la radio, la musica dal vivo sarà sostituita dai concerti in streaming, il cinema non sopravviverà all’avvento delle piattaforme digitali e tutte le necrofile previsioni fatte, in genere, dalle persone che non fanno nulla perché ciò non avvenga. Lo trovo un esercizio banale, di scontate visioni distopiche, inutili e qualunquistiche. Dunque, proviamo a pensare al contrario: il teatro - come ogni altra forma di produzione culturale - è indispensabile allo sviluppo dell’umanità. Deve essere considerato alla stregua di un fattore di crescita economica, perché aumentando le capacità intellettuali e la sensibilità di ogni individuo si trasforma in ricchezza, non immediatamente monetizzabile ma comparabile al denaro in termini di benessere collettivo. Per pochi? I numeri del ‘settore’ sono piccoli, certo, ma è nella natura del teatro essere un ecosistema fragile, da preservare nella sua forma originaria viva e debole. Ciò non ci sottrae alle altrettanto indispensabili e imprescindibili necessità di ibridazione con altri linguaggi, di riconnessione con gli strumenti tecnologici del presente, di ridefinizione costante delle forme espressive, ma neppure l’accadimento pandemico ci deve trasmutare in controfigure patetiche delle scritture visive. Documentare, trasferire per immagini l’opera performativa costituisce un patrimonio di memorie utilissimo alla formazione, alla ricerca storica, all’indagine e agli studi teatrali, ma non può in alcun modo sostituire l’oggetto nella sua piena identità estetica».

Ultima modifica il Martedì, 05 Gennaio 2021 10:47

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