giovedì, 18 aprile, 2024
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INTERVISTA a MARTINA BADILUZZI - di Gabriele Benelli

Martina Badiluzzi Martina Badiluzzi

Martina Badiluzzi, attrice, drammaturga e regista friulana è un’artista giovane, preparata e curiosa. Va apprezzato il suo impegno nel portare avanti una rigorosa indagine sulla persona e sul suo rapporto (armonico e conflittuale) con ciò che rappresenta e nella realtà in cui si trova immersa. Recente vincitrice del bando registi under 30 alla Biennale di Venezia con lo spettacolo The making of Anastasia, Martina Badiluzzi si prepara a presentare i suoi spettacoli tra Venezia e Roma. Oltre alla pièce già citata, questi saranno Forastica e Rumori.

Considerando la tua scrittura teatrale e il tuo modo di rappresentarla in scena si può definirla come teatro sperimentale? Mi riferisco soprattutto a Forastica, arte site-specific, e Rumori, definito come un progetto digitale multimediale.
Nella misura in cui sperimentale significa fondare il proprio lavoro sulla ricerca, sull’indagine, certamente. Purché non diventi un genere, un modo di intendere un certo pacchetto, in realtà convenzionale, di modi e pratiche artistiche o performative. Mi piace, per esempio, il termine laboratorio. Il laboratorio è, nel mio caso, l’attitudine con cui approccio la creazione di un nuovo lavoro. Penso che questa attitudine al lavoro mi derivi dallo studio delle teorie di Marija Knebel, allieva di Stanislasvskij, e dal lavoro sull’applicazione pratica che suggeriva nei suoi scritti. Praticando a lungo il metodo per etjud ho riscoperto la mia autorialità e nell’autorialità ho scoperto la possibilità di sciogliermi dalla questione dei ruoli. Attrice, regista, drammaturga, interprete, coordinatrice. Ad un certo punto ho preferito la parola autrice, in quel momento, ho imparato a piegare le mie competenze a pratiche diverse. Tutto questo è possibile, ovviamente, sempre e solo studiando, continuando a studiare. 

The making of Anastasia è uno spettacolo meta-teatrale che offre interessanti spunti di riflessione. Tra questi il ruolo delle persone ai tempi di una sorta di reality che travalica i confini del televisivo per farsi onnipresente, oltre ad una riflessione sul femminile. Quale è nel tuo teatro la prospettiva sul genere femminile?
Una sala prove, un teatro, uno spazio di lavoro dove l’energia è femminile è un luogo terribilmente creativo e sano. Dico terribilmente perché anche io, ci sono arrivata prevenuta. Quando abbiamo immaginato Anastasia, amici e addetti ai lavori ci hanno punzecchiato con un’unica domanda: ma tutte queste donne, siete sicure? Una domanda che ha lasciato una eco molto lunga, un sospetto. Quasi una certezza che delle donne, messe nella stessa stanza dovessero sbranarsi e bere a vicenda il proprio sangue. È come se esistesse, sotto traccia, nei nostri pensieri, nel nostro sentire e nelle nostre abitudini un’antichissima paura del femminile. Dico femminile perché non penso questo “timore” riguardi le donne biologicamente parlando. Siamo una società profondamente spaventata dal femminile e fortemente votata al maschile. Penso sia arrivato il tempo del femminile, di un approccio più sensibile alla realtà, più accorto, meno individualista e più spirituale. Anche questo, un mio teatro, precisamente non esiste. Esiste il teatro che sto facendo con delle persone in particolare e con loro crescono questi pensieri, con le persone con cui lavoro ogni giorno, donne e uomini. Con loro è cresciuta la fascinazione per Anastasia Romanov. Per le mille vite che ha vissuto questa donna, per le infinite teorie, congetture e ipotesi che si sono fatte sulla sua verità. La sua vita è finita ovunque, dalle pagine della cronaca rosa più becera agli schermi di Hollywood ma, la narrazione mainstream, l’ha raccontata solo come una donna in cerca d’amore e di cognome. Sempre se Anna Anderson, la donna che ha dichiarato per tutta la vita di essere Anastasia, diceva la verità. Altrimenti era un’attrice, la più brava interprete di Anastasia. Come lei, Ingrid Bergman che tornerà alla ribalta vincendo l’Oscar per la sua interpretazione glitterata della giovane figlia  Romanov. Questa storia era una matrioska dall’inizio, ambientare la sua ricostruzione in teatro, dove delle attrici cercano di interpretare Anastasia, era un modo ulteriore per parlare d’identità.

Forastica è uno spettacolo che richiede allo spettatore di far parte della rappresentazione, seguendo l’attrice (a Pergine sarà Federica Rosellini) nel suo perdersi e ritrovarsi mentre attraversa la natura. Per il tuo teatro quanto è importante che lo spettatore accompagni (realmente o idealmente) l’attore?
Il teatro senza pubblico non esiste. L’esperienza del teatro è unica perché irripetibile e ogni replica si modella e costruisce nella relazione col pubblico. Non si può pensare che la presenza del pubblico sia ininfluente sul lavoro degli attori, sulla creazione dello spettacolo. È vivo. È un corpo che respira, siamo corpi che respirano. Ricordo, perché a volte ce lo dimentichiamo, che sotto le attrici e gli attori che sudano, si dimenano, soffrono, ridono, si amano sui palchi dei nostri teatri, ci sono delle persone. Penso che ogni spettacolo abbia la pretesa che il pubblico prenda parte alla rappresentazione, si perda, viva, sogni, immagini. Se possibile che non tossisca, in questo momento non ne parliamo, poi. Scherzo! Non amo il pubblico mite, distaccato. Anche se è molto prezioso, ogni tanto, il silenzio e lo sguardo attento dello spettatore. Ad esempio mi diverte notare come di città in città, cambi la presenza del pubblico. L’esperienza con Forastica a Pergine è stata speciale perché avevamo un gran bisogno di ricominciare a fare teatro ma allo stesso tempo il desiderio di non richiuderci al buio della sala, non subito. Ho scritto la drammaturgia a quattro mani con Giorgia Buttarazzi, immaginando di materializzare la protagonista di Orso, un romanzo di Marian Engel, nella natura, nei boschi di Pergine. Federica Rosellini è stata l’interprete sensibile e acuta che ha guidato gli spettatori, occhi negli occhi, nella storia della Engel. Quando due persone camminano insieme, se insieme lo stanno facendo, c’è una continua e silenziosa mediazione, tra i due, su chi conduca, tenga il passo, mantenga il ritmo, acceleri o rallenti. C’è qualcosa di molto simile nella relazione che immagino tra pubblico e attore.

Rumori, nato durante il periodo del lockdown al tempo del COVID-19, è un progetto teatrale costruito su diversi livelli artistici. Lo spettacolo sembra rappresentare uno sguardo diverso, e obbligato, verso un mondo interiore che deve confrontarsi con una nuova realtà. 
Dalla restrizione dei luoghi fisici può nascere, a tuo avviso, un’arte nuova?
Rumori è un progetto che ha avuto molte vite. È nato per la carta, una raccolta di racconti che scrivo per tenermi in esercizio e perché qualcosa dentro di me agogna il percorso di solitudine della scrittrice. Durante il lockdown mi sono dedicata alla scrittura come non mi era mai successo prima, il tempo! Soprattutto il tempo di osservare. Ho scoperto i miei vicini, li ho guardati, ho inventato storie su di loro. Così abitando e osservando l’esterno, da un palazzo alveare nella grande Roma, ho scritto della rinnovata consapevolezza di vicinanza ed estraneità che provo da cittadina metropolitana. Istintivamente ha preso forma l’idea di dare una voce ai protagonisti dei racconti e di avvicinarli al lavoro di Samuele Cestola, musicista con cui lavoro da tempo per restituire una sorta di audio racconto. È un progetto ibrido tra musica e recitazione. Da lì, l’idea di presentarli live e l’invito a farlo al Roma Europa Festival questo autunno. 
Sono assolutamente certa che il post-covid sarà un periodo lungo e di grande elaborazione. Ho letto di artisti che hanno ironizzato sui prodotti artistici post-covid, con arroganza, come se non ci fosse bisogno di scriverne, di parlarne. La gran parte di loro sono anagraficamente più “anziani” di me. Forse appartengo ad una generazione che non ha desiderio di rimuovere il passato ma anzi, di vivere il presente e di analizzarlo in diretta, senza lasciare questo privilegio ai posteri. Voglio essere positiva, ne ho un gran bisogno, desidero credere che il teatro ritroverà il suo pubblico. Osservo e studio il lavoro dei miei coetanei come quello di artisti affermati e riconosciuti. Sono felice di vedere giovani registe e giovani registi, drammaturghi, interpreti, assumersi la responsabilità del proprio tempo. Stare nel presente, lottare per i propri diritti. Forse sono positiva perché per la prima volta, da che ho memoria, risento parole come “diritti”. Addirittura i provini pubblici per gli attori! A parte gli scherzi, sembra che il mondo dell’arte, una scossa la stia subendo, sembra già molto. 

Gabriele Benelli

Ultima modifica il Sabato, 12 Settembre 2020 15:57

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