martedì, 16 aprile, 2024
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INTERVISTA a LILIANA COSI - di Michele Olivieri

Liliana Cosi Liliana Cosi

Liliana Cosi, milanese di nascita compie i suoi studi alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala di Milano sotto la guida della direttrice Esmée Bulnes e vi si diploma nel 1958 quale miglior allieva, ricevendo un premio dal Sovrintendente Antonio Ghiringhelli per le mani di Wally Toscanini. Viene subito assunta nel corpo di ballo della Scala con contratto a tempo indeterminato e partecipa a tutti gli spettacoli d’opera e balletto. Nel 1963 si aprono i primi scambi culturali tra il Teatro Bolshoi di Mosca e il Teatro alla Scala di Milano e viene inviata, in qualità di capogruppo, per un corso di perfezionamento e lì studia con Vera Petrovna Vasilieva, moglie del coreografo Galizovski. Di ritorno in Italia decide di frequentare un periodo di studi a Parigi agli Studi Vaquer del maestro Franchetti. A Mosca torna nel 1965, nel 1966 e nel 1967 dove studia con i maggiori maestri di quel tempo: Tikhomirnova, Messerer, Simionova, Ulanova, Jordan, Gherdt. Nel 1965 debutta al Palazzo dei Congressi del Cremlino come protagonista nel “Lago dei Cigni” con Boris Khokhlov. Di ritorno alla Scala è promossa Solista e le affidano il “Lago dei Cigni” con Paolo Bortoluzzi e “Cenerentola” di Prokofiev-Rodriguez con Roberto Fascilla. Nuovamente a Mosca debutta nel 1966 al Bolshoi in “Giselle” con Boris Khokhlov, poi lo riprenderà con Vladimir Vassiliev, e nel 1967 sarà al Bolshoi nella “Bella Addormentata nel Bosco” con Vladimir Tikhonov. Nel 1968 è promossa Prima Ballerina alla Scala e vi interpreta i ruoli più impegnativi del repertorio classico come “Romeo e Giulietta” di Prokofiev-Cranko, “L’Uccello di Fuoco” di Stravinski-Fokine, “Petrouchka” di Stravinski-Milloss, “Coppelia” di Delibes, “Les Sylphides". Nello stesso anno compie la prima tournée in Unione Sovietica su invito del Goskonzert con il “Lago dei Cigni" e “Giselle” a Mosca, Riga, Odessa, Tbilissi. Questo evento diventerà un appuntamento annuale e addirittura bi-annuale per cui, in otto anni totalizza centotrenta spettacoli nei Teatri di tutte le capitali dell’URSS, ballando sempre coi primi ballerini dei diversi Teatri che la ospitano nel “Lago dei Cigni”, “Giselle”, “La bella Addormentata nel Bosco”, “Don Chisciotte”. Nel 1969 alla Scala è richiesta da Nureyev a ballare “La Bella Addormentata nel Bosco” ed è con lui che sarà la protagonista del suo “Schiaccianoci” alla Scala. Nello stesso anno debutta, sempre alla Scala, nella ‘prima’ di “Romeo e Giulietta” di Berlioz-Skibin con Attilio Labis e più avanti in “Daphnis e Cloe” di Debussy-Skibin con Bortoluzzi. Nel 1970 è nominata “Étoile”. Il suo repertorio oltre a tutti i titoli già nominati comprende anche molti balletti della ricca produzione balanchiniana che facevano parte delle produzioni scaligere, come: “Serenade”, “Concerto Barocco”, “Sinfonia in C”, “Balletto Imperiale”, “Allegro Brillante”, Bourrée fantasque”, “I quattro Temperamenti”, “Apollo Musagete" e in occasione di serate di Gala si è esibita anche in pas de deux come, “Fiamme di Parigi” di Assafiev, “Flower Festival” di Paulli, “Il Corsaro” di Drigo, ecc. Già dal 1968 all’età di ventisette anni la sua carriera di guest-artist raggiunge i più alti livelli internazionali. Nel 1970 inaugura la stagione di balletto a Mosca e balla al Coliseum di Londra con il London Festival Ballet, in tre produzioni con Peter Breuer: “La bella Addormentata nel Bosco”, “Giselle” e “Shéhérazade”, nel 1971 è in tournée in Europa con Rudolf Nureyev, con una Compagnia americana, dove debutta ne “La Sylphide” e in “Les Biches”. Nel 1972 è negli Stati Uniti ingaggiata dal grande impresario Yurok per spettacoli a Boston, e successivamente a San Francisco e a Baltimora, dove balla con Richard Cragun. Nello stesso anno è invitata a Lisbona dalla “Fondazione Gulbenkian” con Rudy Bryans. Nello stesso anno Patrice Bart, dell’Opéra di Parigi, la invita alla Televisione francese per uno speciale sulla sua carriera. Sempre nel 1972 in occasione di una serata di Gala a Madrid per i Reali di Spagna al Teatro Zarzuela incontra e danza con Marinel Stefanescu. Nel 1973 è a Bruxelles per interpretare la “IX Sinfonia” di Beethoven con Maurice Béjart, e poi è a Berlino con Hideo Fukagawa, al Teatro San Carlo di Napoli con Peter Breuer, a Bordeaux con Stefanescu. Nel 1974 debutta al Teatro Fraschini di Pavia in un singolare spettacolo ideato da Massimo Teoldi e Carlo Rivolta per lei sola dal titolo “Concerto per ballerina solista”, spettacolo che è stato assunto dall’organizzazione scaligera per una tournée nella provincia lombarda. Nel 1975 balla “Excelsior” alla Scala con Bortoluzzi e con Stefanescu e al Teatro Bellini di Catania e al Teatro Verdi di Trieste la “Coppelia” di Roland Petit con Denis Ganio e Rudy Bryans. Nello stesso anno per la prima edizione del Festival della Valle d’Itria interpreta due creazione di Stefanescu, “Patetica” e “Romeo e Giulietta” di Ciaikovski. Nel 1976 per lo stesso festival sarà la volta di “Nozze d’Aurora” di Ciaikovski e di “Spartacus” di Kaciaturian sempre di Stefanescu. A dicembre dello stesso anno partecipa al Festival dell’Avana a Cuba con Marinel Stefanescu e balla a Città del Capo con una compagnia australiana. Alla fine del 1977 decide di formare una Compagnia di Balletto con Marinel Stefanescu e sua moglie Louise, e fonda l’Associazione Balletto Classico, con finalità di arte e di cultura, per diffondere l’arte del balletto. Nel settembre 1978 inaugura la sede dell’Associazione a Reggio Emilia che diviene presto un grande Centro di Produzione, sede della Compagnia Balletto Classico Cosi-Stefanescu e della Scuola di Balletto a livello professionale. La sua carriera è costellata di centinaia di riconoscimenti e premi nazionali ed internazionali, tra cui la Caravella d’Oro, il David di Donatello, la Maschera d’Argento, la Medaglia d’Oro del Comune di Milano, l’Onorificenza di Commendatore della Repubblica Italiana, “Italian Superstars award” a New York, Targa del Sindaco di Los Angeles, ecc. Sempre più spesso viene invitata negli ambiti più diversi quali corsi, università, dibattiti, convegni, congressi anche internazionali ad offrire la sua ricca esperienza e il suo pensiero su molti argomenti di interesse culturale e di attualità quali l’arte, la bellezza, i giovani, l’insegnamento, il linguaggio della danza ed altri ancora. Fa parte della giuria, in rappresentanza dell’Italia, nei Concorsi Internazionali di balletto a Mosca per tre anni fino al 1989, durante uno di essi è stata invitata a ballare il “Don Chisciotte” al Cremlino. È stata prodotta una video-cassetta su tutta la sua attività artistica con filmati inediti, dal titolo “Una vita per la danza”. Sono uscite tre pubblicazioni curate personalmente dal titolo: “Scarpette magiche”, ”Sarò ballerina” e “Un sogno in punta di piedi”, tutti della casa editrice la Sorgente. Con la Casa editrice Città Nuovo è uscito nel 2010 un suo libro autobiografico del titolo: “Ètoile, la mia vita”. Di recente è uscito il libro “Teoria del Balletto” della casa editrice San Lorenzo di Reggio Emilia. Nel luglio 2016 tutta la sua attività passa ad un nuovo organismo la Cooperativa Nuovo Balletto Classico gestita da quattro giovani, tre primi ballerini della sua Compagnia, Elena Casolari, Rezart Stafa e Dorian Grori e la giovane insegnante Nicoletta Stefanescu terza figlia del M° Stefanescu. Essi hanno già ottenuto il riconoscimento come Ente di Alta Formazione dalla Regione Emilia Romagna ed oltre alla Scuola continuano l’attività di spettacoli con il repertorio lasciato da Marinel Stefanescu al quale, nel 2019, si è aggiunta una nuova produzione firmata dall’albanese Hector Buddla dal titolo: “Una Carmen – don José”.

Carissima Liliana, in molti della generazione attuale ignorano la bella tradizione del passo d’addio, espressione che si riferisce al passaggio da una fase all’altra della carriera di un danzatore, in uso dal periodo romantico, cioè in pieno Ottocento. Ai tuoi tempi la Scuola di Ballo della Scala di Milano godeva della consuetudine di preparare uno spettacolo dedicato alla licenziatura degli studenti pronti a lasciare la Scuola, offrendo un momento d’addio in cui gli allievi potevano dare una prova degli insegnamenti appresi e del livello tecnico ottenuto durante lo studio. Come ricordi il tuo?
Appartengo alla generazione che dopo l’ultimo anno della scuola si faceva il ‘Passo d’addio’, era l’addio alla Scuola! Ricordo che la signora Bulnes prese spunto dalle “Creature di Prometeo” e inventò per me una variazione da sola molto difficile con delle pirouéttes prese direttamente dalla posizione in ginocchio dopo un salto. Era un’occasione per mostrarsi al pubblico e poi fare una festa, mettersi un vestito nuovo e fare una cena elegante!

Le ballerine della Scala di Milano hanno sempre affidato le loro preghiere ad una Madonnina conservata presso la Chiesa di San Fedele a pochi passi dal Teatro del Piermarini. Era usanza prima di un debutto, o per gli esami o quant’altro deporre un fiore all’immagine della Madonna del latte, detta Madonna dei Torriani, per i milanesi meglio conosciuta come “Madonna delle Ballerine” affidandosi come alla loro Santa protettrice. Mi racconti di questa bella tradizione meneghina legata a Voi ballerine?
Sinceramente non ho mai saputo di questa tradizione durante tutta la Scuola di Ballo alla Scala e neanche dopo. Sono venuta a saperla per caso molto più tardi. Eppure ho frequentato molto quella chiesa perché vicinissima alla Scala e ci passavo spesso prima di entrare in Teatro fin dai tempi della scuola, mi trovavo bene.

Parlami della tua famiglia, sei stata l’unica artista, la tua mamma e il tuo papà ti hanno sempre supportata nelle scelte?
Sono la terza figlia, prima di me un fratello e una sorella maggiori. Papà era dirigente tecnico per gli impianti di riscaldamento e condizionamento di case e industrie (ha anche fatto gli impianti per l’Alemagna e in quel periodo avevamo in casa tanti dolci!), la mamma casalinga ma lavorava tutto il giorno per la famiglia, ci faceva persino i vestiti e tutti gli equipaggiamenti per andare al mare d’estate e in montagna d’inverno (il papà era un grande appassionato di montagna!). La mamma non era sarta era autodidatta ma evidentemente aveva estro e buon senso! Abitavamo a Milano e dovevo prendere il tram n° 4 per recarmi alla Scala e per almeno tutto il primo anno ne ho sofferto, dopo poche fermate mi veniva la nausea quindi dovevo scendere e poi prendere un altro tram... Mio fratello si è laureato in Ingegneria Civile e mia sorella ha studiato Lingue e molto presto è andata all’estero, alla pari, in Germania per imparare meglio il tedesco. Alla Scala, allora, fin dal primo corso eravamo impegnate nelle opere o per fare le comparse o piccoli ballettini. La mia prima comparsata fu nel “Parsifal” di Wagner dove nel 4° atto entravo in scena vestita da chierichetto, con altre bambine come me di nove anni, e dopo pochi metri mi inginocchiavo prima che il sipario si chiudesse sulla “Messa Solenne”! Era l’una di notte passata! Quindi tutta la mia famiglia fu coinvolta nel venirmi ad accompagnare e a prendere. Entravo in Scala alla mattina con il pranzo al sacco perché oltre alle lezioni di balletto si frequentava internamente anche la quarta e la quinta elementare, io ho avuto la maestra Restellini, e poi c’erano le prove delle opere spesso fino a tardi. Ho partecipato anche al primo Cinerama dove c’era la ripresa dell’atto del trionfo dell’Aida di Verdi, ed io era una piccola ebrea che sventolava una palma per l’arrivo di Radames vittorioso! Mio padre era molto contrario, soprattutto per questi extra così invasivi e cercò di non darmi più il permesso, ma poi dovette cedere. Quindi fu la mamma che si accollò tutto il trambusto dei miei orari e straorari! Però già dal terzo corso ho cominciato a partecipare anche ai balletti veri e propri e uno dei primi fu il “Palazzo di Cristallo” con Balanchine in prima persona che montava il balletto e ricordo che un giorno mi prese per fare una presa con lui!

La spiritualità dell’Unità di Chiara Lubich, come ti ha conquistata e quale senso ha profuso alla tua vita?
Devo partire un po’ da lontano altrimenti non si capisce. La mia famiglia non era praticante e dopo la normale istruzione religiosa mi sono anch’io allontanata. È stato più avanti verso i 14/15 anni che leggendo un libro di una grande mistica, Caterina da Siena, non so come mai trovato in casa, mi è nata la curiosità di conoscere meglio Dio. Ho cominciato a passare da sola in chiesa (di questo cambiamento non ne ho parlato neanche in casa), e lì mi trovavo bene, ho provato, sempre da sola, a leggere qualcosa del Vangelo e da qualche parte ho letto che la divisa del cristiano dovrebbe essere la gioia. Mi colpì perché in realtà io non ce l’avevo. Cioè gli unici momenti dove ero veramente felice erano quelli durante le lezioni di balletto, ma poi ero sempre a disagio, non avevo amiche né amici, non sapevo con chi stare. La figura di Caterina mi aveva particolarmente affascinato e ‘temevo’ di avere un qualche tipo di vocazione... ne chiesi consiglio ad un sacerdote il quale mi disse di stare tranquilla che se Dio chiama fa capire. C’era un ballerino che mi corteggiava e suonava anche il pianoforte ed io gli ispiravo delle musiche, mi sembrava che poteva essere la mia strada... invece proprio in quell’anno, ormai avevo già finito la scuola ero diplomata e assunta, si aprirono i primi scambi culturali con il Teatro Bolshoi di Mosca e, insieme ad altre quattro scaligere, sono andata, in qualità di capogruppo, a fare un corso di perfezionamento al Bolshoi. Quella prima permanenza nella patria del balletto mi fece riaffiorare tutta la mia ‘vocazione artistica’, in realtà vivevo dal mattino alla sera in teatro, oltre alla nostra lezione avevo chiesto di fare una lezione con il Corpo di ballo, potevo anche assistere alle prove, e poi tutte le sere a Teatro a vedere balletti, un vero ‘paradiso’! Ritornando in Italia trovo una lettera di mia sorella dal Belgio che mi chiede di portare un pacchetto per lei a delle signorine che l’avrebbero raggiunta. Ricordo che consegnando quel pacchetto chiesi chi fossero e sorridendo una ragazza mi rispose: “Cerchiamo di vedere Gesù nel prossimo”. Non posso spiegare cosa mi sia capitato, solo che andando in chiesa come al mio solito prima di entrare in Scala, mi è sembrato che qualcuno mi dicesse: “cosa continui a venire qui, non hai sentito che io sono nel prossimo?” Non è stato facile cambiare così radicalmente modo di vedere, e mi fu spontaneo ritornare da quelle ragazze. In realtà era un gruppo del Movimento dei Focolari, e cercavano di vivere alla lettera una frase del Vangelo per volta, e poi dirsi cosa cambiava nella propria vita. Andai di scoperta in scoperta, tutto in me si ribaltò. Posso dire che nel giro di un paio d’anni cominciai a capire qualcosa della Spiritualità incentrata sull’Unità. Era Gesù stesso l’unità, e Lui ci ha spiegato che anche noi dovevamo tutti essere uniti tra noi e con Dio. Agli inizi mi era sembrato che tutto questo non avesse a che fare col mio lavoro anzi che a Dio non gli potesse di certo interessare il balletto... invece non fu così per Chiara Lubich (la fondatrice di questo Movimento), lei era convinta che tutte le qualità dell’uomo, le sue inclinazioni, i suoi talenti erano dono di Dio e andavano sviluppati e donati agli altri. Questo per me fu all’inizio una delusione perché avevo un’idea troppo ristretta e platonica della religione invece avrei dovuto amare Dio e i prossimi, con i muscoli, col cuore, con la mia arte e questo per me fu una spinta e una fonte d’energia assoluta, mi sembrava che tutto quello che facevo fosse sempre troppo poco, non ero mai contenta dei miei risultati perché il mio obiettivo era altissimo: esprimere, dare agli altri, al pubblico qualcosa della bellezza che io avevo capito: l’unità tra Dio e gli uomini. Mi sembra di poter dire che la mia vocazione artistica si è sviluppata al massimo con questa Spiritualità. Perché mi ha coinvolta totalmente facendomi sperimentare l’unità della persona umana, corpo e anima.

L’ultima volta che hai danzato è accaduto nel 2000 con il balletto “Attesa del nuovo tempo” di Brahms. Come era articolato narrativamente e tecnicamente?
Il Concerto n° 1 per pianoforte e orchestra di Brahms si svolge in tre tempi, ogni tempo aveva un fondale diverso realizzato su quadri dello stesso Stefanescu che da alcuni anni non ballava più. Nel primo tempo il fondale era molto colorato con al centro quasi un fondo chiaro; in palcoscenico sette ragazze e cinque maschi, le ragazze in chitoni morbidi color panna e i maschi con camicie di colori sgargianti e calzamaglia blu. Il tipico stile di Stefanescu è pieno di tecnica sia per le ragazze che per i maschi, quindi risultava particolarmente vario, vigoroso a volte a coppie a volte con a soli di ragazze o di maschi, un continuo cambiamento fino al termine del primo tempo quando il sipario si chiudeva su un turbine di movimenti circolari in coppia. Il secondo movimento cambiava scena – ricordo che quando Stefanescu si è accinto a coreografarlo aveva in mano lo spartito e vide scritto con la mano dell’autore questa frase: “benedetto colui che viene nel nome del Signore” e meravigliato me lo fece vedere. Il fondale era quasi una pioggia, un turbine di fiorellini piccoli e delicati, in palcoscenico sei ragazze sulla destra che si sparpagliano pian piano sulla scena fino al mio arrivo. Anch’io avevo un vestitino ma di un color rosa pesca più carico, le ragazze escono e rientrano fluide e verso la metà arrivano anche quattro ragazzi in una camicia rosa antico e calzamaglia grigio scuro, e danzano con le ragazze e poi con me, poi ancora resto sola e con loro. Al termine del secondo tempo entra un nuovo personaggio in calzamaglia bianca e corpetto verde fantasia. Il terzo tempo sullo sfondo di un altro fondale più geometrico (non di Stefanescu) inizia un brillante a solo del nuovo personaggio con il quale io pure ballo e poi entrano tutti gli altri e termina con i due personaggi che escono in diagonale, e restano in scena le quattro coppie in una bella presa a rondine.

Hai interpretato numerosi ruoli, ma su tutti svetta Odette/Odile, cosa ti affascina ancora oggi in questo titolo per eccellenza?
Si dice che il ‘primo amore non si scorda mai’, è stato il mio primo ruolo da Prima ballerina e l’ho vissuto in un momento particolarmente felice della mia vita, e mi è parso di poter rivivere in quei due personaggi tutta la gamma più bella di sentimenti della mia persona. Ogni volta che l’ho ballato credo che rivivessi la magia di quel debutto a ventitré anni a Mosca. Ricordo che pochi giorni prima dello spettacolo la mia maestra russa mi disse: “adesso dimentica tutto quello che ti ho detto (erano stati quattro mesi di prove intensissime) e balla con la tua anima italiana”. Questo per me è sempre stato un ‘dover essere’, un obiettivo, una tensione, un miraggio: essere veramente libera, cioè riuscire a dare la parte migliore di me per gli altri. Ricordo che poco tempo prima la stessa maestra mi aveva ricordato che il grande Stanislavski aveva detto che ‘l’arte è per elevare lo spirito dell’uomo’, quindi bisognava arrivare lì. A mio giudizio non ci sono arrivata subito ma per fortuna il “Lago dei Cigni” l’ho ballato moltissime volte un po’ dappertutto, e spero di esserci un po’ per volta riuscita negli anni.

Negli anni, è cambiato il tuo modo di affrontare questi ruoli?
Certamente e lo spero! La vita insegna sempre, e tutto quello che capita e si vive, di bello e meno bello, aiuta ad approfondire i sentimenti che poi si devono interpretare come artista. Comunque il mio modello, per questi due ruoli è sempre stata la ballerina Maya Plisetskaya, che mi sembrava insuperabile, sia tecnicamente che interpretativamente, era una ballerina completa ed averla sempre davanti come modello irraggiungibile, mi ha aiutata molto.

Ai tuoi tempi la Scuola di Ballo era una accademia tipicamente inglese perché la metodologia usata era quella della direttrice Esmée Bulnes che arrivava da quella tradizione. Dico bene?
Assolutamente sì Michele. Infatti la mia scuola è stata proprio inglese con derivazione ovviamente italiana, buon piazzamento, buona tecnica di batterie e pirouéttes – pensa Michele che all’età di quattordici anni eravamo in quattro ragazze della mia classe che facevamo già i 32 fouettés –, però ci veniva richiesto anche un po’ d’interpretazione, anche nelle piccole esecuzioni, e questo mi piaceva molto.

Che effetto ti ha fatto scoprire poi la “scuola russa”?
È stato un vero shock, e più l’ho conosciuta e più mi è sembrata difficile, ma me ne sono subito innamorata. Andando a vedere spesso gli spettacoli vedevo l’effetto che facevano in palcoscenico i ballerini sia per la tecnica che per la leggerezza, la parte artistica, l’espressività in ogni tipo di ruolo dal corpo di ballo ai ruoli secondari e di carattere, non solo nei primi ballerini ma tutti mi sembravano bellissimi. C’è una cura meticolosa per i dettagli soprattutto: piedi, polsi e mani e l’atteggiamento della testa. Queste tre estremità del corpo sono quelle che danno l’armonia e l’espressività di ogni movimento perché da loro dipende il coordinamento nell’esecuzione di ogni passo. Vaganova che ha messo le basi di questa scuola è stata un genio, perché ha preso tutto il meglio delle scuole allora esistenti, la francese e l’italiana ma applicandole con un metodo altamente scientifico e mirato specificatamente all’espressività di ogni movimento e con l’obiettivo anche di sviluppare armonicamente tutta la muscolatura delle gambe. La maggior caratteristica della “scuola russa” oltre al coordinamento di braccia testa e gambe è aver capito come va insegnato il demi-pliè che è la base di tutta la tecnica dei salti e di ogni legazione di passi. È stata una delle cose più difficili che ho dovuto imparare perché avevo già ventuno anni, ma ci sono riuscita!

Mi racconti, dal tuo punto di vista, le sostanziali differenze appartenenti ai vari metodi: Cecchetti, Vaganova, Royal Ballet, Bolshoi, Bournonville, scuola cubana, metodo Balanchine, eccetera?
Te ne parlo un po’ all’ingrosso Michele altrimenti ci vorrebbe un trattato. La scuola di Cecchetti mirava soprattutto all’apprendimento della tecnica ed era un allenamento duro, severo che i ballerini di allora amavano perché erano certi che così sarebbero restati in forma, poi c’era il metodo francese che puntava decisamente più sull’eleganza e l’estetica ma meno sulla tecnica. Di Vaganova ne ho già parlato nella precedente risposta. La scuola inglese in realtà nasce dopo lo scioglimento della Compagnia dei “Balletti Russi” di Diaghilev per iniziativa di alcuni ballerini che poi si sono stabiliti a Londra come Ninette de Valois e Nikolai Legat e sua moglie che fondarono il futuro “Royal Ballet” e la “Russian Ballet Society”, dunque vengono dalla scuola di Cecchetti e Petipa. La scuola del Bolshoi è uguale a quella di Vaganova, perché con il cambio della capitale i migliori ballerini leningradesi sono stati chiamati a Mosca, forse c’è un poco di purezza in meno nell’esecuzione in confronto a Leningrado, a Mosca si è sviluppato un gusto più eroico, ma questo è dovuto alla politica. Bournonville è danese ma impara il balletto da suo padre - immigrato francese - e sviluppa una danza con una novità dove l’uomo e la donna hanno la stessa importanza nei balletti, in contraddizione con lo stile romantico che vedeva la ballerina possedere il ruolo principale, la sua tecnica si è dovuta adattare alle misure dei teatri danesi che erano piccoli quindi ha sviluppato una buona elevazione e velocità di spostamenti da destra a sinistra. La scuola cubana nasce della scuola russa di Vaganova ma poi è stata un po’ rielaborata nello stile di un popolo sudamericano con molto temperamento privilegiando sempre i passi e le soluzioni di effetto, qualcuno li paragona addirittura agli effetti del circo. Sono infatti molto bravi tecnicamente, anche se mancano un po’ in raffinatezza. Balanchine (giorgiano) viene anche lui dalla vecchia scuola russa perché era con Diaghilev e grazie ad un mecenate che gli ha permesso di creare una compagnia americana ha dovuto partire dalle basi aprendo una scuola in America e ha sviluppato un suo metodo di studio, che parte dalla vecchia scuola russa ma molto veloce, con passi perfettamente musicali, avendo sempre privilegiato per le sue creazioni, la musica sinfonica (Balanchine era anche musicista e direttore d’orchestra). Gli piacque introdurre insieme al classico elementi più liberi, con differenti estetiche di matrice moderna. Ma sempre con molto buon gusto e una musicalità perfetta.

Ti è mai capitato qualche incidente in scena o di ritrovarti di colpo da sola per un imprevisto del partner?
Mi è capitato di tutto in scena! Ma è normale perché tutto è dal vivo, tutto è vero! Mi ricordo una volta durante la prima entrata in “Giselle” mi si è staccato un laccino della scarpetta... nessuno se ne è accorto ma il mio piede si era quasi anchilosato per non lasciar scappare la scarpetta! Di essere senza partner mi è capitato più di una volta. La prima fu a Trieste con Nureyev la famosa volta che diede, in scena, uno schiaffo ad una ragazza del corpo di ballo perché non si spostava e arrabbiato se ne uscì... C’era la musica del suo a solo e ho dovuto ballarlo io... poi non sapevo se sarebbe rientrato perché avremmo dovuto ballare insieme, ma fortunatamente è rientrato, ma la tensione non era da poco, ma quasi nessuno se ne è accorto! Dovevo essere Giselle e basta! Un’altra volta con la nostra nuova “Compagnia Balletto Classico” alla prima di “Raymonda”, Stefanescu, che aveva sempre il doppio ruolo di coreografo e interprete primo ballerino, aveva dimenticato di fare una sua entrata e ci sarebbe stato un bel pezzo di passo a due insieme, e anche lì ho dovuto inventarmi un bel pezzo di coreografia da sola. Un’altra volta nel balletto di Adrian Enescu “Dialogo” con l’Infinito abbiamo portato per errore la musica sbagliata, cioè senza un taglio che poi si era fatto, quindi verso il finale ci siamo trovati con tantissima musica in più ed eravamo in due a dover ballare, io e Stefanescu, e non ricordavo più come andava a finire quella musica e quando si sarebbe agganciata al punto dove sarebbe continuata la coreografia, e nel quale sarebbe dovuto entrare il corpo di ballo. Mi son sembrati minuti eterni... ma anche lì tutto è andato a buon fine e nessuno si è accorto di nulla! Certo che lo stress non è stato da poco!

Hai avuto modo di dirmi che secondo te l’arte della danza classica è popolare perché offre al pubblico l’armonia e la bellezza del corpo umano unito alla musica, ai costumi e alle luci, un’unica armonia. Ma è sempre così?
È così, quando un balletto offre questa armonia che tu hai così ben descritto Michele, se manca qualcuno di questi elementi, allora può capitare che il pubblico non apprezzi perché non viene più rapito dall’assieme. Il balletto deve dare un senso di bellezza in tutti i suoi elementi che la compongono, è per questo che è difficile e anche, a volte, costoso! Non basta una brava prima ballerina o un bravo primo ballerino!

Cosa ricordi della Signora Giussani, tua prima insegnante in Scuola di Ballo, sicuramente oggi un nome ai più sconosciuto?
Sì il mio primo corso l’ho fatto con lei, con le scarpe da punta ai piedi, così si usava, le bambine mettevano subito dal primo giorno le punte, lei era molto anziana e non si alzava quasi mai dalla sedia, però è riuscita ad insegnarci, in quel primo corso, tutti gli esercizi della sbarra, e tutto il centro, naturalmente in punta, con pirouèttes, doppio rond de jambe en l’air, ecc. Non so come fosse stato il nostro modo d’esecuzione, ma per fortuna l’anno dopo venne la signora Bulnes, da Buenos Aires che ci fece subito togliere le scarpine da punta, si fece lezioni con le calzine bianche fino a quando la ditta Porselli non mise in moto tutta la produzione di scarpine da mezza punta rosa con i numeri piccoli. Allora invece esistevano solo le scarpe da mezza punta nere per i maschi e le scarpe da punta per le ragazze. Ho il ricordo di quel primo corso in una foto dove siamo tutte in fila sulle punte... è meglio non mostrarla a nessuno!

Il rapporto con i pianisti quanto è fondamentale a lezione, e da cosa risulta imprescindibile?
Mi sembra di poter dire che è imprescindibile l’amore del pianista per il balletto, se non c’è questo non c’è feeling e niente funziona. Bisogna però che il pianista sappia suonare bene e abbia una certa capacità d’improvvisazione a seconda dell’esercizio che il Maestro propone, deve pian piano conoscere il carattere dei diversi esercizi, perché non basta suonare un due quarti o un tre quarti, ogni esercizio ha sue precise caratteristiche anche musicali. Naturalmente ci vuole un po’ di pratica, di studio, di prove, di allenamento e poi è utile anche conoscere un buon numero di brani del repertorio classico. Naturalmente il maestro di ballo deve sempre saper guidare il pianista a meno che esso non abbia molta esperienza. Mi è capitato una volta allo Ials di Roma, una struttura dove si tengono lezioni per professionisti, che mi hanno invitato a dar lezione e il pianista non aveva mai accompagnato una lezione di balletto... non mi son persa d’animo e gli ho chiesto se conosceva Chopin, e con Chopin ce la siamo cavata. Ma è stato particolarmente faticoso!

Uno dei tuoi obiettivi, negli anni, è stato far capir al pubblico che la danza è una vera e propria arte, la quale necessita regole ed una grammatica per poter essere insegnata ed appresa al meglio, ci sei sempre riuscita nell’intento? Oggi molti la confondono ancora con un’attività sportiva...
Una cosa è l’insegnamento di una disciplina artistica e una cosa è la performance cioè l’espressione finita, lo spettacolo, un’opera d’arte destinata a tutto il pubblico. Il pubblico non necessita, per apprezzare un’arte, di conoscerne tutte le difficoltà del suo apprendimento e del suo svolgimento - anche se questo senz’altro aiuterebbe ad apprezzarne il valore, anch’io quando ho letto la vita di Michelangelo o di Beethoven ho molto più apprezzato i loro lavori. L’arte dovrebbe soprattutto arrivare al cuore delle persone a suscitare dentro qualcosa di bello! In Italia invece c’è il problema degli insegnanti di danza che raramente sono preparati, non mi riferisco all’insegnamento a livello professionale ma soprattutto all’insegnamento a livello amatoriale, che ovviamente è il più diffuso. Facciamo il parallelo con la musica, quale differenza c’è tra un insegnante di musica a livello amatoriale o professionale? Nessuno, dipende dal tipo di allievo che si ha, dal numero di ore che si dedica allo studio, ma quello che si insegna è sempre lo stesso, le armonie degli accordi, il modo di mettere la mano sul pianoforte, la diteggiatura, le regole delle scale sono le stesse. Anch’io ho studiato pianoforte per due anni, ma la mia maestra era una brava pianista e quel poco che ho imparato era corretto, nella danza classica non è così. C’è di tutto – c’è anche chi ha studiato un solo anno, due volte alla settimana, e apre una scuola di ballo – e questo fa male soprattutto ai giovani allievi, perché se un cattivo insegnamento nei piccolissimi non reca troppi danni proseguendo nell’adolescenza e nella crescita diventa un disastro senza nessuno scopo, se non quello di illudere gli studenti e a volte anche di far male alla loro salute. Il problema della confusione con lo sport è iniziato da quando il Coni ha cominciato a voler prendersi anche la danza (dando vita alle ASD Associazioni sportive dilettantistiche che hanno trovato tanta diffusione per i vantaggi economici che offrono, dato che sono esenti dal dover pagare i contributi agli insegnanti fino ad un minimo di 10.000 € all’anno) e trasformando i maestri in istruttori e i ballerini in atleti, e dando vita ad una infinità di gare tra loro, che sono i concorsi che pullulano ovunque e che non servono allo studio della danza ma solo ad alimentare un business appoggiato da mamme compiacenti e orgogliose di vedere le loro figlie e i loro figli esibirsi! Mi invitano spesso a tenere delle lezioni - le chiamano stage - ma purtroppo servono poco, una o due lezioni non lasciano nessuna impronta nell’allievo, il corpo umano ha bisogno di più tempo per assorbire delle buone abitudini, che poi diventeranno il suo linguaggio. Ma da diversi anni ho fatto di più. Sono entrata in Agis: Associazione Generale Italiana Spettacoli (una specie di Confindustria dello Spettacolo) che si occupa di tutto il mondo dello spettacolo, dal cinema ad ogni forma di spettacolo dal vivo. Per il settore che si occupa della Formazione della Danza il comparto si chiama AIDAF e si mira ad ottenere dal Governo delle regole precise e un percorso per poter diventare insegnanti di danza. Speriamo di riuscirci!

La tanto dibattuta età per salire in punta, diamo un giudizio autorevole quale il tuo per le tante maestre e direttrici delle scuole amatoriali in Italia?
Non c’è una regola uguale per tutti, dipende dalla struttura fisica di ogni bambina, può esserci chi a nove, dieci anni ha già acquisito una buona struttura ossea e muscolare delle gambe e delle caviglie, della schiena e del busto per cui l’andare sulle punte non gli provoca danno, ma ci può essere qualcuno che anche a tredici o quattordici anni è controindicato perché non ha una struttura del piede e di tutto il fisico che può sopportare questa posizione, sulle punte senza danneggiare schiena, fianchi, ginocchia e caviglie. È per questo che tutto è in mano all’insegnante. È lei che deve decidere, non il genitore. In una scuola a livello professionale questo non accade perché già si fa una selezione a monte, e si fanno frequentare solo le bambine con le attitudini per lo studio della danza classica che ovviamente prevede, al momento giusto, anche le punte.

Lo studio del balletto va fatto nell’età giusta, quali sono le fasi da cui non si possono trovare vie di scampo?
Lo studio del balletto dipende dallo sviluppo osteo-muscolare del bambino o della bambina, per questo si è messo il limite minimo per iniziare all’età di nove anni, dato che normalmente a quell’età lo sviluppo osteo-muscolare è già ad un buon punto e soprattutto essendo, l’allievo già al quarto anno di scuola elementare, possiede la capacità di imporsi una disciplina e delle regole indispensabili. Tutto quello che si fa prima dovrebbe essere una preparazione al futuro studio, ma senza forzature né eccessivo carico, quindi non si deve chiedere lo studio giornaliero ma va bene anche solo due o tre volte alla settimana. A questo proposito però quest’anno in Russia ho avuto uno shock perché ho conosciuto una giovane maestra con un bel gruppo di allieve piccole e molto brave, tutte avevano cominciato all’età di tre anni! Mi è sembrato decisamente ed eccessivamente prematuro, però in quel caso i risultati erano molto buoni! Forse erano bambine speciali! Riguardo invece il cominciare più tardi anche qui dipende dalle caratteristiche fisiche, per una ragazza che ha già di natura un fisico dotato e portato per la danza classica potrebbe cominciare anche un po’ più tardi, ma non troppo non dopo i dodici anni, perché la muscolatura dovrebbe formarsi con la specifica forma ‘en de hors’ e tutte le articolazioni in una ballerina devono essere particolarmente elastiche, oltre che forti. Per un maschio si può aspettare anche qualche anno in più (si sa che Nureyev ha iniziato lo studio del balletto a sedici anni, prima però faceva danze folkloristiche russe che sono già di per sé atletiche), perché la tecnica maschile è differente da quella della ragazza, il ragazzo sopperisce con la sua forza e la sua agilità, ma comunque si deve sempre avere delle buone doti di partenza, soprattutto se si comincia più tardi.

Quanto è fondamentale lo studio della danza di carattere?
A mio avviso lo studio della danza di carattere è fondamentale a partire dal terzo anno di studio perché sviluppa nell’allievo una grande musicalità mediante la conoscenza di una vastissima gamma di ritmi, stili diversi, varietà di passi che poi si troverà più avanti a studiare in forma classica. Tutta la parte espressiva viene sviluppata senza fatica attraverso movimenti piacevoli senza difficoltà tecniche eccessive. Ne guadagna anche il suo patrimonio culturale e tutto il suo futuro rendimento.

Nella tua carriera hai avuto dei punti di riferimento in qualche ballerina del passato?
Ricordo che quando ero alla Scala si parlava di Margot Fonteyn e di Galina Ulanova, come ballerine famose ma che io non avevo mai visto, non so come mai però io dicevo che mi piaceva di più l’Ulanova! Andando in Russia come ho già scritto ho ammirato molto Maya Plisetskaya, certamente per la sua plastica, ma soprattutto per la sua forza interpretativa in ogni differente ruolo, aveva una capacità di calarsi nei personaggi che attirava l’occhio del pubblico su di lei appena entrava in scena! Comunque ho saputo apprezzare anche tantissime altre brave ballerine, e non solo russe, chi per un ruolo, chi per un altro. Pochi forse hanno conosciuto Eva Evdokimova prima ballerina danese di nazionalità americana formatasi a Londra, eccezionale nella “Sylfide”, in “Giselle”, “Bella addormentata”! Anche lei mi è stata un modello per la leggerezza dei suoi salti, la pulizia della tecnica e l’espressività di ogni gesto, malgrado fosse abbastanza alta ha ballato spesso con Nureyev. È morta a soli sessant’anni.

Mentre in qualche maestro che hai conosciuto nella tua brillante carriera?
Sinceramente io sono grata a tutti i miei maestri a partire dalla Signora Bulnes alla Scala che mi ha formata, a tutti i maestri russi che mi hanno insegnato i diversi ruoli fino a Marika Besobrasova che mi ha insegnato “La morte del cigno”, a Montecarlo e che ho ballato così tanto e ovunque. Ricordo una volta che ho dovuto parlare a dei giovani artisti, non tutti ballerini ma di altre discipline e ho parlato loro di tutto quello che mi hanno dato i miei maestri nei diversi periodi della mia vita. Non mi ero preparata quel discorso, però mi è venuto spontaneo, perché tutto dipende dai maestri che si ha avuto! Tutto si deve a loro. Questi maestri non si sono limitati ad insegnare il balletto, mi hanno insegnato anche a vivere, sarebbe troppo lungo elencare i diversi episodi che hanno inciso in maniera determinante nella mia formazione umana. Una ballerina non va formata solo nel suo fisico, ma anche nel suo carattere e in tutta la sua persona. Infatti non si balla solo con il corpo, ma con tutti noi stessi.

Quando studiavi un nuovo ruolo in che modo curavi la parte espressiva e interpretativa oltre a quella tecnica?
Quando ero in Russia oltre ad aver avuto bravissime maestre, la mia preparazione era andare a teatro a vedere le diverse interpretazioni di quel ruolo fatte da differenti prime ballerine. Alla Scala invece per il mio primo ruolo di Cenerentola non mi han dato il tempo di far nulla, solo un televisore come maestro e nessuno che mi correggesse, e avevo solo ventiquattro anni! Per me è stato un incubo! Invece quando, sempre alla Scala dovetti affrontare il ruolo di Giulietta con la coreografia di Cranko ovviamente mi tuffai nella lettura della tragedia di Shakespeare e fui rapita! Naturalmente trasportare il capolavoro di quella tragedia nei passi di balletto non è semplice e ci vuole esperienza. Gli anni e, il numero di spettacoli che si fanno, incidono tanto sul rendimento, sulla maturazione dell’interpretazione in palcoscenico! Ma comunque ci vorrebbe sempre un maestro, durante le prove, che corregge, come ho visto fare in Russia. Nessuna prima ballerina provava mai da sola, anche se quel ruolo lo aveva già ballato decine di volte!

Quando hai appeso le scarpette al chiodo che sensazione hai provato?
Per farmi meglio capire devo raccontare di un incedente grave che ho avuto nel 1982 durante le prove del balletto “Coppelia” che Marinel Stefanescu stava montando con la nostra nuova Compagnia a Reggio Emilia. Durante la discesa da un’alzata scivolai con il piede sinistro e si spezzò il legamento dell’astragalo. Malgrado l’ingessatura della caviglia, questo legamento non si è più ricostruito anzi si è addirittura dissolto ed io ho dovuto abituarmi a ballare su un piede, che la sinistra è la gamba di base della ballerina, che non aveva più stabilità. Ricordo che cercare di stare in equilibrio su quel piede era come un calcolo algebrico... Per il male che sentivo c’erano gli antinfiammatori e mi ha aiutato tanto anche l’ago puntura o le infiltrazioni locali. Ho provato di tutto, ma malgrado le cure mi rendevo perfettamente conto di un regresso continuo nell’articolazione della caviglia. Spesso mi domandavo se il pubblico si accorgesse che non riuscivo più a ballare come prima, ma invece sembrava che nessuno si accorgesse di niente. Quando dopo diciotto anni di questa piccola tortura la mia caviglia si è pian pianino ingessata da sola e non sono più riuscita ad avere la perfetta verticale per salire sulle punte, mi è sembrato il fatidico segnale e ho deciso immediatamente di ‘appendere le scarpette’ quasi con un senso di liberazione. Ero ancora impegnata in tutti gli spettacoli della Compagnia (anche se avevo ridotto di molto la mia partecipazione soprattutto evitando la vera e propria tecnica), ma quando dovetti avvertire la direzione del Teatro che avevamo in programma dopo pochi giorni che io non ci sarei stata per questo improvviso aggravarsi della situazione, mi dissero che preferivano annullare lo spettacolo. Fu per me una spada nel cuore! Per fortuna invece da altre parti continuarono ad ospitarci ugualmente. Per questo ho sempre seguito la Compagnia nelle tournée, per assicurare la mia presenza al pubblico, presentando gli spettacoli davanti al sipario, e anche come garanzia verso i ballerini.

Che bambina e che allieva era Liliana?
Mi sembra di poter dire che ero una bambina normale come tante altre. Per via degli impegni alla Scala avevo perso le amicizie nel cortile della casa popolare dove abitavamo e ricordo che da sola, ogni tanto, facevo le gare di palla a muro, mi piaceva non far mai cader la palla. In sala di balletto non so, certamente ero determinata, non mi pesava la fatica ricordo che avendo capito che rifacendo un esercizio la seconda volta mi veniva meglio, facevo sempre gli esercizi due volte in centro con il primo e secondo gruppo. Non ricordo che mi sentissi tra le migliori della classe anche se i voti lo indicavano, la cosa non mi interessava: a me piaceva ballare e basta!

Qual era il tuo stato d’animo prima di entrare in scena?
Sinceramente non mi sentivo mai pronta. Avrei sempre voluto tirare un po’ più in là l’apertura del sipario per aver il tempo di provare ancora qualcosa! La paura l’emozione in genere passava solo come entravo in scena.

Avevi dei riti scaramantici?
Assolutamente no! Però capivo che la mia preparazione ad essere quella che dovevo essere per il pubblico per il quale ballavo, non dipendeva solo dalla mia preparazione di ballerina ma anche dal mio comportamento in ogni altra situazione. Ricordo una volta in tournée in Unione Sovietica dove ero sempre accompagnata da un’interprete (anche se me la sarei cavata benissimo da sola con la lingua), una volta questa interprete si era messa a raccontarmi tanti momenti difficili della sua vita e mi ha seguita anche in camerino mentre mi truccavo e pettinavo ecc. questo mi disturbava perché in quei momenti sentivo il bisogno di stare concentrata in me stessa per prepararmi al ruolo che dovevo interpretare, ma non avevo il coraggio di dirlo a questa ragazza sempre per ‘colpa’ di quel primo incontro dove avevo scoperto che Gesù vuol essere riconosciuto e amato in ogni prossimo! Se volevo che qualcosa di Lui passasse al pubblico attraverso la mia arte, dovevo amarlo in ogni circostanza, anche in questa!

Che cosa provavi in scena?
In scena non si è più se stessi, si è quel dato personaggio, veramente! Persino i mali non si sentono più! È proprio così. È una specie di miracolo!

E quando arrivava l’applauso?
Ci è voluto un po’ ad abituarmi agli applausi, soprattutto dopo aver ballato in teatri come il Palazzo dei Congressi del Cremlino con seimila spettatori tutte le sere! I primi tempi quasi ne avevo disagio, non sapevo che atteggiamento interiore tenere, perché non volevo montarmi la testa... poi ho capito che se il pubblico era contento di come avevo ballato dovevo esserlo anch’io e quindi semplicemente essere grata, ringraziare Chi io sapevo che mi aveva aiutata!

Spesso viene formulata la domanda “è troppo tardi per incominciare?”, ma quando è veramente troppo tardi per studiare danza?
Ormai conosci la mia risposta Michele, dipende sempre da persona a persona, dal fisico che si ha. Mi sembra di poter dire che soprattutto una ragazza dopo i quattordici anni è già tardi, perché il suo sviluppo è già avvenuto ed è difficile dopo riuscire a cambiarlo come si dovrebbe. Per un ragazzo ci si può provare anche fino ai sedici/diciotto anni, ma sono casi rari!

Hai danzato in numerosi spettacoli nei teatri di tutte le capitali dell’URSS, cosa ti piaceva particolarmente del sistema artistico e culturale legato al periodo sovietico?
Certamente l’organizzazione dei Teatri. La programmazione era prettamente ballettistica anche se si facevano Opere liriche molto curate anche con repertorio italiano nella nostra lingua. Forse mi faceva più effetto perché venendo da un Teatro come quello della Scala dove la Lirica era l’attività principale. In Unione Sovietica no, per esempio se arrivava in visita un capo di stato lo si portava al Bolshoi a vedere un balletto. In tutte le Repubbliche ho sempre trovato bellissimi palcoscenici grandi e perfettamente attrezzati, personale specializzato in ogni settore, anche quelli minori. Per esempio tutte le ballerine avevano le scarpine da punta fatte sulla loro misura da un laboratorio interno! Le sarte o le parrucchiere che aiutavano durante lo spettacolo avevano mani magiche, in poche mosse ti mettevano capelli e acconciature perfette e sicurissime! E poi i massaggiatori o le massaggiatrici erano eccezionali, pensa che quando arrivavo in un teatro, e il tempo era proprio contato tra lezioni prove e spettacoli, era anche sempre previsto alla sera dopo le prove, il massaggio! E poi la serietà della preparazione degli spettacoli con una schiera di maestri: c’era un maestro per il corpo di ballo femminile e uno per quello maschile, uno per ogni tipo di solista, quello per le danze di carattere, uno per la prima ballerina, uno per il primo ballerino. E tutti dopo lo spettacolo dovevano fare il loro rapporto! Era veramente una grande macchina che funzionava molto bene!

Che rapporto nutrivi in carriera con lo specchio, elemento fondamentale per un danzatore?
Il rapporto con lo specchio cresce con gli anni, più si matura e più si trae utilità dal controllarsi allo specchio. Lo specchio ti dice la verità, perfetto per correggersi, non per ammirarsi. E più si diventa bravi più si diventa critici con se stessi e non ci si perdona niente... per me era così. Non mi sono mai piaciuta allo specchio!

Mentre oggi Liliana? Ti fa paura il tempo che scorre?
Purtroppo il tempo che scorre si vede! Ma è questa la vita... spero di guadagnare, con gli anni che passano, un po’ di saggezza, magari da regalare a qualcuno, quando me la chiedono.

A parte i tuoi libri che nel tempo sono diventati un grande punto di riferimento per molte allieve, ballerini e amanti dell’arte coreutica, quali sono stati i testi di danza che più hai amato e letto?
Testi di danza non ce ne sono mai stati molti alla mia epoca, forse è per questo che i primi che ho scritto con la Casa editrice La Sorgente di Milano hanno avuto così successo, con tantissime ristampe anche in diverse lingue. La mia passione nelle letture son sempre state le biografie di artisti, di qualsiasi genere, cantanti, musicisti soprattutto, pittori e scultori ecc. e qualche romanzo della letteratura russa, Tolstoi o Dostojevski.

Mentre sul versante cinematografico?
Sinceramente nella mia vita non ho avuto l’opportunità di coltivare molto quest’arte anche se ammiro alcuni attori e attrici e anche i grandi registi.

Il balletto e la danza sono composti da vari elementi: la drammaturgia, la coreografia, l’interpretazione ed interiorizzazione del ruolo, la tecnica, la scenografia, le luci, i costumi, la musica, la direzione d’orchestra, gli esecutori tutti, il trucco e parrucco, in alcuni casi la regia, e così via. Alla realizzazione del prodotto estetico finale concorrono molteplici registri espressivi, che vanno valutati singolarmente ma anche in rapporto all’insieme dello spettacolo. A tuo avviso Liliana come si dovrebbe valutare al meglio ed onestamente uno spettacolo (senza preclusioni di sorta)?
Uno spettacolo va valutato proprio dal suo ‘assieme’, dall’impressione che lascia nello spettatore dal suo assieme, non solo da uno o più elementi che tu hai citato. Lo spettacolo di balletto è un tutt’uno. Ricordo l’impressione avuta dopo i primi spettacoli di balletto visti a Mosca, non ricordavo questa o quel ballerino ma ‘tutto’ mi era piaciuto, tutto mi aveva lasciato un’impressione o forte, o delicata, dei diversi interpreti e notavo quanti applausi avvenivano a scena aperta anche al corpo di ballo o a brevi danze solistiche, magari di carattere, ma fatte così bene da risultare come gioielli che impreziosivano ogni cosa. Sì anche il trucco, i costumi, le luci, le scene, tutto deve essere al servizio dello spettacolo. Guai quando uno spettacolo si basa solo su un elemento o su una diva!

Il lavoro nella danza si basa sempre sulla condivisione di punti di vista, di prospettive, di linguaggi, o a volte è meglio seguire solo il proprio istinto?
Se c’è la possibilità di farlo è meglio poter condividere i diversi punti di vista e i linguaggi di quello che si deve ballare, soprattutto se è una nuova creazione. È diverso quando si è ospiti di una Compagnia dove non c’è quasi mai il tempo di farlo. Ma allora sopperisce l’esperienza e la conoscenza del balletto, soprattutto per quelli di repertorio che hanno già un loro linguaggio acquisito.

A tuo avviso i “Ballet Russes di Diaghilev” quanto e come hanno inciso nella storia della danza?
Hanno inciso tantissimo, il balletto oggi non sarebbe quello che è senza quella formidabile esperienza. Diaghilev ha saputo radunare attorno a sé il meglio che allora esisteva in campo artistico. Non solo ballerini, ma se si pensa ai pittori che con lui hanno lavorato come scenografi, ai musicisti e compositori che lavoravano con lui anche come accompagnatori al pianoforte, alle novità letterarie messe in scena, ai costumi fantastici e il tutto senza i mezzi di oggi. Con la morte di Diaghilev tutti quegli artisti, oltre ai tanti primi ballerini e solisti, si sono sparsi in mezzo mondo e hanno posto le basi di molteplici attività ballettistiche piccole o grandi, dall’America a tutta Europa, che vivono ancora oggi.

Tra tutti i teatri del mondo in cui ha danzato dove ti sei sentita più a casa, a parte la Scala?
Per me il palcoscenico era la mia ‘casa’, quindi posso dire che mi son sempre trovata bene dappertutto. Ma si balla per il pubblico e certamente il pubblico dei Teatri dell’ex Unione Sovietica erano i più abituati a vedere balletti, quindi erano i più intenditori, non li conquistavi solo con un bel sorriso... tutti conoscevano le difficoltà tecniche che vi erano in un balletto e le aspettavano (come in un’opera gli italiani aspettano il do di petto di un tenore), quindi c’era più soddisfazione essere amati e aspettati in quei teatri.

Compagna e “sostegno” di una ballerina è anche la pece, così da avere una migliore aderenza al pavimento e poter eseguire al meglio i passi. Ne hai sempre fatto uso?
La pece veniva più usata prima quando non c’era il linoleum come pavimento, era indispensabile per dare sicurezza alla presa del piede, ma con l’era del linoleum è vietata la pece perché non serve, noi ballerine la usiamo unicamente dentro le scarpine da punta soprattutto sul tallone, per assicurare la perfetta aderenza della scarpina al piede.

Come si può salvaguardare lo stile del balletto per apprendere e conoscere la sua autentica essenza e purezza?
Dovrebbero essere i maestri che garantiscono l’apprendimento della purezza di ogni stile di balletto. Io ho avuto la fortuna di essere al Bolshoi in un periodo di grandi maestri che erano in grado di tramandare questa ‘purezza’. Ma mi son resa conto che già la generazione successiva non aveva più questa forza e questo carisma, e facilmente si sono lasciati contaminare dalle nuove idee e dalle sperimentazioni. Queste, è ovvio che devono esserci, ma per dar vita a nuove creazioni, non per rimaneggiare i capolavori già esistenti!

Sulla scelta dei colori siamo abbastanza simili, il nero predilige nel nostro abbigliamento. Nell’Antico Egitto, il colore nero era considerato come uno dei colori sacri alla divinità. I più grandi Maestri lo utilizzavano come simbolo dell’Unità primordiale, dove tutto era essenza, forza potenziale ed eguaglianza, rappresentando così l’Assoluto. Per me riflette sobrietà, austerità e dignità. E per te Liliana?
Sinceramente Michele non ho mai approfondito perché mi piace vestirmi di nero. Mi sembra che sia il colore più elegante, e che stia bene alla figura, e adatto a tutti gli ambienti. Spesso però lo utilizzo per far risaltare un foulard colorato, o una particolare collana brillante che gli infonde luce!

Sei solita Liliana a tenere conferenze. Quanto è fondamentale per coloro che si avvicinano alla danza, sia in ambito amatoriale che professionale, approfondire lo studio della Storia della danza?
Ad un certo punto della mia vita hanno cominciato ad invitarmi negli ambienti più disparati, a tenere conferenze o a partecipare a dibattiti o tavole rotonde su temi dell’arte, della bellezza, dei giovani e naturalmente sulla danza. Purtroppo la storia della danza e della nascita del balletto non è assolutamente conosciuta anche nei migliori ambienti culturali. È per questo che ho colto un’idea di Stefanescu, l’ho resa più agile e sono nate le cosiddette “Conferenze-spettacolo” (c’era anche un sotto titolo che variava di volta in volta a seconda della sensibilità di chi ce la richiedeva: “L’Europa e le sue radici coreutiche”, ”Il balletto dietro le quinte”, “ Il balletto in Europa ieri e oggi”, “Il balletto tra i banchi di scuola”), nelle quali nell’arco di circa neanche un’ora e mezza si illustrava la storia del balletto con l’aiuto della dimostrazione dal vivo di alcuni ballerini. Ci siamo rivolti a tutto il pubblico ma soprattutto a studenti di ogni ordine e grado, e abbiamo sempre incontrato una risposta entusiasta da parte dei professori e degli studenti. Ricordo una volta in una scuola tecnica di soli maschi, dove alcuni professori mi avevano detto che i ragazzi erano contenti di venire per vedere le ballerine! In queste “Conferenze-spettacolo” ero sempre io che spiegavo quello che poi i ballerini mostravano con le diverse danze, e quella volta ho cercato di essere il più ‘attraente’ possibile, ma sempre nella verità storica. Prima del termine della conferenza ho domandato al pubblico, ai giovani studenti se secondo loro valeva la pena oggi, per un giovane, dedicarsi a questa disciplina data anche la difficoltà, la complessità e la fatica che il suo apprendimento comportava, subito mi hanno risposto di sì perché il risultato era bello, era loro piaciuto. È stata una bellissima soddisfazione per me. La nostra Compagnia accanto al ricco repertorio che portava in tournée in tutta Italia e all’estero, ha sempre avuto in repertorio anche questa attività di divulgazione della conoscenza del balletto classico, e ogni volta mi sembrava che fosse la nostra attività più significativa.

Nel ruolo di pedagoga sei invitata in tutto il mondo per incontrare i giovani allievi incentrando il tuo sapere dalla tradizione alla realtà. Come vedi l’evoluzione in atto, sia fisica che di metodo, degli ultimi anni?
Sono convinta che l’evoluzione, la novità, la sperimentazione, non vanno fermati al contrario vanno sostenuti esigendo da esse comunque un’ottima base di conoscenze tecniche, l’arte non è mai improvvisazione, nel senso che non ci si può improvvisare ballerini, coreografi, maestri, in nessun genere ballettistico. Sono felice che ora, mi sembra, sia diventato di dominio pubblico che senza la predominanza del classico non si può affrontare con professionalità nessun altro stile. Lo studio della danza classica garantisce al ballerino la libertà dal suo corpo, il dominio del suo corpo, quindi lo può usare meglio di chiunque e in qualsiasi genere e stile lui scelga di esibirsi. Però mi sembra doveroso accanto a tutto questo offrire al pubblico anche i capolavori del balletto classico o di altri generi neo-classici, perché hanno in sé tali ricchezze di armonia, fantasia, poesia, che colpiscono qualsiasi genere di pubblico. I giovani di oggi hanno il diritto di conoscere ciò che si è fatto prima, altrimenti non hanno tutti gli elementi per guardare in avanti.

Come gestisci il tuo lavoro, come riesci a mantenere sempre alta la creatività e l’interesse?
Non mi sembra che questo possa dirsi ‘lavoro’, è qualcosa che si ha dentro, che ci si trova dentro, che c’è e che aspetta solo di essere ‘travasato’.

Nel tempo la passione per la danza muta o rimane invariata?
Non so se conosci Michele una mia frase che dico spesso ai genitori di nuovi allievi quando mi portano le loro figlie, mi trovo a dover dire che io “odio il Dio danza”. Per chiarire bene che la danza non è un assoluto, è un mezzo, l’assoluto può essere la loro figlia, la persona, che è comunque un assoluto irripetibile che si può servire anche della danza per esprimersi, per parlare col pubblico. Ma l’importante è la persona. Tante volte mi è capitato in piena carriera di avere degli incidenti che avrebbero potuto anche fermare la mia attività e che l’hanno sospesa per brevi periodo, mi son sempre domandata, se per questo la mia persona valeva di meno. Mi son sempre detto, No! Infatti quando ero ferma (per modo di dire) per un gesso ad un piede, è quando mi son dedicata alla teoria della danza e dopo un po’ ne è nato un libro.

Spesso si confonde la danza moderna con quella contemporanea e viceversa, cosa ti senti di dire a riguardo e qual è il tuo punto di vista per accertarne la netta differenza?
È un argomento molto aperto e anche gli esperti delle due discipline convengono che oggi non si possa più verificarne una netta differenza. Tutti i linguaggi si stanno mischiando, ed è impossibile attualmente poter dire questo è moderno, questo è contemporaneo.

La continua ricerca in ambito culturale è un momento introspettivo, una sorta di viaggio dentro sé stessi?
Non solo! Noi siamo la spinta, abbiamo la spinta della conoscenza, ma poi bisogna guardare fuori di noi, nella ricchezza della storia dell’umanità che è piena di personaggi illuminati che hanno tanto da dirci e da darci. Peccato che non si ha la possibilità di conoscere tutto! Ma anche quel poco che si arriva a conoscere è affascinante.

Un tuo ricordo per l’indimenticato maestro Roberto Fascilla?
Per me, naturalmente, è Roberto e basta! Ho lavorato tanto con lui e l’ho sempre apprezzato, non solo come ballerino e meraviglioso partner (che tutti amavano), ma perché era così diverso dai suoi colleghi. Era una persona ‘normale’ nel senso che non aveva quelle grettezze che a volte si riscontrano nel nostro mondo, era un uomo che era riuscito a restare normale (oltre che ballerino anche marito, padre e poi maestro). E questo aggettivo ‘normale’ mi sembra il più bello per uno che vive in teatro!

I princìpi con i quali si dovrebbero condividere gioie e dolori credo siano il rigore accademico, la precisione, il puntiglio nei dettagli, la sacralità del palcoscenico. Nel senso più ampio l’artista è una persona che esprime la sua personalità mediante un’arte figurativa o performativa. Essere un artista tuttavia non si può progettare a tavolino, giusto Liliana?
Senz’altro artisti si nasce, ma questo non vuol dire che si arrivi poi a vivere della propria arte. Un vero artista dovrebbe aver dentro una spinta a non accontentarsi mai, a lavorare e studiare sempre per perfezionarsi, perché più si perfeziona più la sua arte può esprimersi, può brillare. È per questo che la Ulanova diceva che per diventare una ballerina occorre il 99% di lavoro e 1% di talento, però è quel 1% di talento che spinge a lavorare così tanto! Non ricordo quale ‘grande’ filosofo o scrittore o artista ha scritto che il talento senza studio è come un fiume senza argini, inonda tutto e si perde!

E ciò vale anche per i creativi o creatori?
Penso di sì. Anche se la creatività è qualcosa diverso dall’arte. La creatività è un genio particolare che tanti possono avere in alcuni campi, e non è detto che influisca su tutta la sua vita. L’essere un artista è qualcosa come una vocazione che prende tutta la persona, influisce su tutte le sfere, su tutti i piani della vita, forgia tutta la persona.

L’autocritica quanto è fondamentale in un artista? Dote non sempre scontata!
L’autocritica è indispensabile all’artista. Ho letto della Callas che perdeva ore e ore a riascoltarsi le registrazioni per correggersi la pronuncia, perché esigeva che si capissero perfettamente le parole! Noi ballerini siamo avvantaggiati dall’avere sempre davanti lo specchio quando si studia e quando si prova, e in più oggi ci si può registrare facilmente anche con un qualsiasi cellulare e questo può aiutare molto! Se non c’è questo aspetto in un artista, il suo valore è veramente misero!

San Francesco d’Assisi diceva “Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista”. Sempre attuale come concetto, giusto?
Grazie Michele, non conoscevo questo bellissimo concetto di San Francesco. Mi sembra che abbia proprio centrato. Nella mia carriera c’è stato un momento preciso in cui ho proprio sentito che dovevo coinvolgere maggiormente il mio cuore. Me ne sono quasi spaventata, perché sembrava di non aver più le redini di me stessa, e ho quasi preso paura. Invece le redini devono proprio partire dal cuore. È un’esperienza che bisogna fare. Speriamo che anche i giovani d’oggi arrivino a raggiungerla! Non la lasceranno più!

In rari momenti l’ispirazione e la grazia dal cielo, che sfuggono al controllo della volontà possono far sì che il lavoro possa sbocciare nell’arte, sei d’accordo Liliana?
Certamente Michele, è per questo che si dice che tutti siamo un po’ artisti! Questi momenti che tu hai descritto così bene sono possibili a tutti e tanti ne fanno la fortunata e indimenticabile esperienza!

Per concludere, prendo a prestito le parole di Vasily Grossman: “Se prendo il verde non vuol dire che intendo dipingere l’erba, e se prendo il blu non significa che dipingerò il cielo...” Quanto hai difeso Liliana la tua libertà, sia come donna che nell’esprimere lo stato d’animo artistico per il pubblico, il teatro, e la scena?
Michele non è stato facile! Tante volte mi son resa conto di non essere stata capita. Sia in Teatro tra colleghi ma soprattutto con i giornalisti, fino ad arrivare al punto che mi ero promessa di non dare più interviste. Vedevo travisate le mie parole, messe in una luce diversa di quella con la quale le avevo dette. E ne usciva un’immagine differente da quella che ero, e mi faceva soffrire. Con il pubblico non avevo problemi, con colleghi e colleghe i rapporti erano solo strettamente di lavoro, quasi nessuna amicizia, mentre con i giornalisti molto raramente sono stata capita. Ricordo invece un bellissimo titolo di Giorgio dalla Valle che dopo una mia intervista l’ha intitolata “Liliana Cosi, la ballerina anti diva”. Mi aveva capita! Ma è stato raro! Purtroppo nel mondo della stampa si va in cerca della ‘notizia’ di qualcosa che attiri il lettore, anche a scapito delle persone coinvolte in prima persona, raramente si trova la verità, invece penso che la verità sarebbe quanto di più interessante al mondo!

Michele Olivieri

Ultima modifica il Domenica, 19 Aprile 2020 10:08

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