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INTERVISTA a SAMUELE CARDINI - di Michele Olivieri

Samuele Cardini. Foto Francesco Ardito Samuele Cardini. Foto Francesco Ardito

Samuele Cardini docente, danzatore e coreografo inizia i suoi studi a Firenze con Rosanna Brocanello e Marga Nativo. Dopo un breve periodo di tirocinio nella giovane compagnia "Opus Ballet", entra a far parte della compagnia "Virgilio Sieni Danza", dove resterà per sei anni collaborando alle coreografie. Inizia poi un percorso di ricerca coreografica indipendente, collaborando negli anni con altri artisti coreografi, vincendo il "premio Home" di Scenario Pubblico indetto dalla compagnia Zappalà Danza e il "premio Equilibrio" insieme a Marina Giovannini. Nel frattempo continua il suo percorso come insegnante tenendo lezioni e laboratori nelle scuole più prestigiose d'Italia e all'estero. Attualmente è direttore artistico di "R.O.S. – Research Open Space", corso di perfezionamento per danzatori contemporanei presso il "Centro OpusBallet" di Firenze, dove collabora anche come coreografo della compagnia e continua a tenere seminari in tutta Italia. Nel 2018 debutta con Versiliadanza con lo spettacolo "W MARIA/a women symphony" per il festival SUD.O.RE. di Messina del quale ne è direttore artistico del settore danza.

Carissimo Samuele, quali sono i tuoi primissimi ricordi, da bambino, legati alla disciplina della danza?
Purtroppo non ho ricordi legati all'infanzia, il mio percorso nel mondo della danza è iniziato all'età di diciannove anni, già grandicello. Da piccolo ho sempre fatto trapelare un istinto e una sensibilità che mi avvicinavano più al mondo dell'arte che a qualsiasi altro ambito lavorativo, ma a quel tempo a scuola non veniva dato credito alle attitudini, quindi finite le Medie avrei voluto frequentare il Conservatorio, ma ho seguito Ragioneria, dopo le Superiori l'Accademia di Arte Drammatica a Roma, ma non avendo l'appoggio della mia famiglia ho iniziato un corso amatoriale di danza che mi ha portato ia vivere di quello che ho sempre amato: "comunicare"!

Ti sei formato con Rosanna Brocanello e Marga Nativo, partecipando in seguito ad un tirocinio all'Opus Ballet. Quali emozioni conservi di quel periodo?
Mi sono ritrovato a diciannove anni, quasi digiuno di danza in una classe avanzata tenuta da Rosanna, vedendo quanto fossi indietro in confronto agli altri, che avevano anni di studio alle spalle, in un primo momento è stato disarmante, ma ricordo che in quell'anno non ho fatto un'assenza. Una mattina causa un incidente automobilistico, arrivai in ritardo ma non saltai la giornata di studio. La prima cosa che ricordo è che mi sono scoperto caparbio e che questa è una delle doti fondamentali per intraprendere il mestiere nell'ambito della danza. È stato un periodo meraviglioso, tutto era nuovo, le conoscenze che ho intrapreso, le amicizie che ancora oggi sono rimaste nella mia vita, non è stata solo una formazione per diventare un danzatore, ma per divenire un uomo e poi un ballerino. E poi dopo un paio di anni Rosanna mi chiese di entrare nella giovane compagnia, così, pieno di soddisfazione e di responsabilità ho iniziato i primi passi sul palcoscenico.

Com'è stato collaborare con Fabrizio Monteverde e Patrick King? Qual è stato il maggior risultato artistico al loro fianco?
Aver lavorato già da subito con due artisti come loro mi ha dato certamente una spinta maggiore nel voler diventare un danzatore. Due linguaggi coreografici molto diversi, ma con alla basa una forte tecnica, cosa di cui ero carente, non avendo avuto un lungo trascorso di studi. Con Fabrizio ricordo che fu durissima, tutti quei giri e quelle prese, era un duetto del suo repertorio rimontato per la compagnia dell'OPUSBALLET, lo danzavo insieme alla mia migliore amica del tempo, ne ero entusiasta, e ci misi tutto me stesso. Con Patrick fu totalmente diverso, una creazione su Louis Falco, una coreografia super eccentrica dove oltre la tecnica si lavorava molto sull'interpretazione. Due produzioni che mi hanno arricchito notevolmente sotto diversi aspetti.

Chi erano i tuoi miti tersicorei da bambino. Con chi sognavi di ballare?
Beh salterò la parte della Parisi e della Cuccarini, e come dicevo prima avendo iniziato tardi non ho riferimenti di quel periodo. Ma ricordo benissimo il giorno in cui vidi "Canti marini" di Virgilio Sieni durante il "Florence Dance Festival", e ne rimasi catturato. Uno spettacolo sulle suonate per archi di J.S. Bach, quella musica, quel movimento, mi fu subito chiaro che tipo di danzatore sarei voluto diventare.

Che impatto è stato quello con la disciplina accademica prima di quella contemporanea?
Direi non molto buono, anzi, la odiavo! Iniziare così tardi senza doti regalate da madre natura fu uno shock. Dovevo trasformare il mio corpo, oltre ad imparare la tecnica, e diciamo che non era proprio la mia indole in quel periodo. Ma con il passare del tempo, e l'arrivo dei primi risultati, imparai ad apprezzare anche quella parte della danza, e a ritenerla indispensabile per la mia crescita.

In seguito, sei entrato a far parte della prestigiosa compagnia "Virgilio Sieni Danza". Che mondo ti si è aperto al fianco del Maestro Sieni, tanto da rimanere al suo fianco per diversi anni?
Anche questa è stata un'esperienza che veramente ha dato ancora più definizione al danzatore che sono diventato. Un linguaggio, che come dicevo prima, mi aveva affascinato ma che ho vissuto un po' agli sgoccioli, visto il cambio di direzione che poi prese la compagnia, abbandonando sempre di più la tecnica e avviandosi verso una ricerca di movimento che ho immediatamente sposato. Lavorare a fianco di un artista come Virgilio Sieni ti da modo di aprire la mente, di capire cosa significa essere visionario, caratteristica che, per il mio pensiero, è indispensabile. Non si trattava solo di imparare passi ed interpretarli, ma attingere ad un proprio bagaglio e ad una propria sensibilità per creare la coreografia, senza omettere che gran parte degli spettacoli erano per lo più improvvisati. Grossa sfida anche questa, visto che mi trovavo a danzare con una compagnia professionista dopo pochi anni di studio e con non moltissima esperienza sulle spalle. Credo sia stata la mia vera gavetta, dover dimostrare che ero degno di ricoprire quel ruolo, soprattutto a me stesso.

Con Virgilio Sieni, hai collaborato anche a diverse coreografie tra le quali "Empty Space, Requiem" vincitrice del premio Ubu 2004. Per chi non l'avesse vista come riassumerla tale creazione?
Lo spettacolo era diviso in due parti. Nella prima c'era un solo bellissimo di Marina Giovannini, a seguire un trio, eseguito da me, da Virgilio Sieni e un altro danzatore. Uno spettacolo visionario, con un televisore che trasmetteva scene di una Cuba e di un'America pre 11 settembre. Ricordo che avevamo delle calotte color carne con delle orecchie da animale. Durante una tournée a New York, Virgilio Sieni ci fece girare per mezza città con quelle calotte, improvvisando per consegnare del materiale video dello spettacolo, fu strano e stimolante allo stesso momento. È per questo che mi piaceva lavorare in compagnia, perché tutto quello che era insolito lo potevo vivere e farne così tesoro.

La tua carriera poi è proseguita con una collaborazione presso "Le Supplici", di Fabrizio Favale, in qualità di danzatore. Qual è stata la tua maggiore qualità nelle vesti di esecutore e cosa hai apprezzato della creatività di Favale?
Ho conosciuto Fabrizio Favale durante un lavoro con Virgilio Sieni, e sono stato catturato subito dalla sua qualità di movimento e dall'energia positiva che emanava, mi ci trovai perfettamente in connessione, cosa non scontata tra danzatori. Passato un po' di tempo mi contattò per partecipare ad un suo lavoro, e devo dire che anche la sua ricerca mi coinvolse fin da subito. Da lì iniziò una collaborazione per qualche anno, che ha decisamente contribuito nelle mie riflessioni e nella mia ricerca personale. La sua potente delicatezza, il suo lavoro sulle braccia, e anche la sua visione astratta e fantastica sposavano a pieno il mio gusto. Per non parlare della serietà ma soprattutto della leggerezza con la quale si affrontavano le giornate di prova o le tournée. Quando si partecipa come danzatori già maturi a progetti tipo quelli di Fabrizio, non si è solo esecutori, ma si sposa l'idea, la visione e si porta del proprio. Periodo che ricordo con immenso piacere.

Dal 2000 hai iniziato un tuo percorso coreografico personale collaborando con alcune giovani compagnie italiane, tra i tuoi lavori "MAY DAY, MAY DAY", "VELENO STERILE", "PERPETUO" eccetera. Per molti ballerini è uno sviluppo graduale e completo che avviene in modo del tutto naturale passare dall'essere ballerino a coreografo. Per te cosa ha significato e da dove è nata tale esigenza?
Diciamo che quasi fin da subito ho sentito l'esigenza di creare anche qualcosa di mio. Naturalmente all'inizio era un recuperare informazioni di altri ma con difficoltà di elaborazione vista l'inesperienza. Dopo un anno di formazione mi lanciai in un concorso internazionale e arrivai terzo. Da quel momento non ho mai abbandonato la voglia di raccontare e raccontarmi facendo tesoro di tutte le esperienze che vivevo ed estrapolandone ciò che ritenevo mi appartenesse di più. Per me era chiarissimo che lo facevo per necessità, perché non potevo farne a meno. Ma al giorno d'oggi, viste le poche opportunità di lavoro, credo che parecchi giovani lo facciano proprio per avere la possibilità di danzare, e da una parte lo capisco ma dall'altra vedo sempre più interesse da parte di operatori del settore per una freschezza maggiormente accessibile, a discapito di una forse più chiara esperienza.

Quando hai iniziato la carriera di danzatore sapevi già di voler diventare coreografo in seguito?
Il mio istinto creativo ha avuto necessità fin da subito di produrre qualcosa di personale, non ci sono arrivato, credo facesse già parte di quello che sarei diventato. Come già accennato in precedenza fin dai primi anni ho iniziato con colleghi di corso a sperimentare, a ricercare, a capire, come poter raccontare, come poter arrivare agli altri, come poterli far vivere un po' del mio modo di vedere il mondo. Affinando negli anni anche un gusto e un linguaggio personale. Lungo percorso ma interessantissimo.

In assoluto qual è stato il tuo primo lavoro coreografico e dove è andato in scena?
Tralasciando, chiamiamoli così, gli appunti dei primi anni, debuttati con il solo "ME MYSELF AND I" a Scenario Pubblico, nello spazio di Roberto Zappalà, come vincitore del concorso Home/Scenario Pubblico. Un'altra esperienza meravigliosa in una città che amo, che ha lasciato il segno nella mia carriera. Era la prima volta che mi trovavo a lavorare da solo, su me stesso, per ore dentro a quel teatro. Un momento che decisamente ti mette in crisi, ma che, se riesci a superare, ti arricchisce e ti svela assai di te. Era un lavoro un po' folle, dove raccontavo di me, e della mia infanzia e di come ho vissuto la scoperta e l'accettazione dell'omosessualità. Una grande sfida, che mi ha portato a capire che la trasparenza e la sincerità in scena ripagano.

Da dove trai ispirazione per le tue creazioni?
Dalla curiosità, dall'esigenza. Se un argomento mi affascina, se mi porta a riflettere, ma soprattutto se mi permette di viaggiare in un piano altro, più distaccato dalla realtà, è lì che mi soffermo e cerco di dare vita a quello che vedo e che sento. Alcune volte può riguardare argomenti letterari o pittorici, ma sempre più spesso a quello che ci succede come persone, al modo in cui la società si evolve, ai rapporti umani. Mi chiedo cosa vorrei vedere io, mi chiedo in un determinato periodo storico di cosa ci sarebbe bisogno.

A tuo avviso quanto è importante la musica ma anche la narrazione nelle tue coreografie?
Amo la musica, ascolto un po' di tutto e la ricerca musicale è una cosa che mi porto dietro fin dall'inizio. Spesso la musica è il narratore, e la figura del narratore è importante perché ci guida all'interno di una storia. Faccio sempre da me le colonne sonore dei miei spettacoli, mi piace impazzire davanti al computer per legare, limare e incollare, diventa un lavoro da artigiano, come creare una straordinaria collana per un bellissimo collo. Inizialmente i miei lavori erano più concettuali, anche musicalmente meno delicati per le orecchie, andava un po' di moda dire qualcosa senza dire niente, cosa che oggi trovo più distante dalla mia visione. Penso che in questo periodo invece bisogna essere più chiari, meno "di nicchia" e sicuramente un po' più pop, se vogliamo avvicinare anche un pubblico non avvezzo alla danza contemporanea, senza scendere nel commerciale naturalmente, che rispetto, ma per altre situazioni.

Come è strutturata una tua lezione con gli allievi? E cosa ti piace maggiormente nel ruolo di docente?
Diciamo che varia a seconda delle situazioni e dei livelli. Tendo a fare esercizi di tecnica come riscaldamento, molto semplici in modo da potersi concentrare su come costruire un corpo. Poi una parte di floor work, anche quello con difficoltà adeguata al livello degli allievi e delle sequenze danzate, sia per lo spazio, sia per il linguaggio, o come la chiamo io la "calligrafia". Poi c'è tutta la parte di laboratorio di ricerca e improvvisazione, con esercizi guidati, per affinare e comprendere come creare o comporre sul momento. Trovo interessanti i corsi per insegnanti, dove posso condividere la mia esperienza con chi desidera approfondire come trasmettere informazioni. In maniera forse troppo azzardata ho iniziato ad insegnare dopo pochi anni che studiavo, proprio per poter pagare le lezioni, perché studiare danza non è economico! Amo questa parte del lavoro, lo faccio ormai da venticinque anni e anche mentre ballavo non ho mai smesso, neppure per un anno. Penso che all'inizio sia stato utile per responsabilizzarmi e ripetere quello che imparavo, oltre ad iniziare a fare piccole creazioni. È un lavoro di grossa responsabilità tanto quanto danzare, non sono molto in accordo con chi si avvicina a questo mestiere perché non è riuscito a fare altro. Col passare degli anni mi sento cresciuto come insegnante, e mi accorgo che mano a mano che passa il tempo il nostro compito non è finalizzato solo ad una crescita tecnica e stilistica, ma all'ascolto delle necessità degli allievi. Se il corpo ha un problema a muoversi, a mio avviso c'è qualcosa dentro che lo blocca, ecco, riuscire ad arrivare alla "pancia" di quel danzatore e aiutarlo a sciogliere quel nodo trovo sia una delle soddisfazioni più grandi che un maestro possa ricevere, vedere che si è parte di un progetto, di un sogno ed essere di aiuto per il suo compimento.

Tra tutti i grandi coreografi del passato a chi sei maggiormente legato?
Ad essere sincero non ho un'icona precisa. Mi sono sempre interessato a coreografi che in determinati momenti della mia crescita mi stimolavano a percepire il corpo in maniera diversa da come stessi facendo fino ad allora. L'elenco sarebbe un po' lungo, perché per certi versi, come periodi storici, si arriva sino a prima che intendessi fare questo lavoro.

Mentre dell'attuale scena sia italiana che internazionale a chi rivolgi il tuo sguardo con interesse?
Anche in questo caso faccio fatica a tirar fuori dei nomi. Posto che credo si diventi sempre più esigenti man mano che si cresce nel rimanere entusiasti nella visione degli spettacoli. Poi magari per alcuni autori ci sono dei lavori che mi hanno coinvolto di più altri di meno. Per me funziona un po' come con la musica, in certi momenti ascolti ripetutamente un genere o un artista perché si sposa bene col mio stato d'animo o un determinato periodo. Io stesso, nel rivedere certi miei lavori dopo un po' mi chiedo a cosa stessi mirando! Diciamo che l'ultimo spettacolo che ho visto e che mi ha letteralmente entusiasmato da volerlo danzare è stato "Ballata" di Marina Giovannini. Non perché sia una carissima amica, ma perché ho amato la poesia, l'uso del corpo della musica e dello spazio. Un connubio che a mio gusto è riuscitissimo, un lavoro se vuoi di concetto ma anche pop.

Qual è la maggiore qualità estetica che apprezzi applicata al movimento?
Oltre ad un linguaggio che si confà con i miei gusti, sicuramente riuscire ad essere trasparente. Il permettere allo spettatore in modo naturale e non artefatto di arrivare a vivere un'esperienza, un'emozione. Amo chi sa arrivare con il proprio corpo senza necessità di dover teatralizzare troppo l'espressione, ma chi riesce a renderla vera appigliandosi a se stesso, al proprio vissuto. Se riuscissimo ad avere la prestanza fisica di un ventenne e l'anima di un quarantenne... che magia!

Attualmente dirigi "R.O.S. – Research Open Space", corso di perfezionamento per danzatori contemporanei presso il "Centro OpusBallet" di Firenze. Quali sono i più ragguardevoli problemi riscontrati e le più intense soddisfazioni in tale ruolo?
Sono molto soddisfatto di come stanno andando le cose, siamo al quinto anno e si va sempre a migliorare. Ho cercato di creare percorsi per danzatori contemporanei, diciamo che grazie all'appoggio di Rosanna Brocanello e Daniel Tinazzi, direttori dell'Opus Ballet, sto riuscendo a creare un percorso sempre più definito. La difficoltà maggiore è dare vita ad un programma diverso per tutta la durata del corso, incastrare gli insegnanti, dare un senso logico al percorso, in un momento in cui i corsi di formazione nascono come funghi. Non da meno gestire gruppi di quindici persone in media, cercando di seguire tutti allo stesso modo, uno ad uno nella loro crescita e con le loro esigenze. Ma arrivare alla fine dell'anno e vedere i loro corpi, ma soprattutto le loro teste e le loro anime crescere, ripaga di ogni fatica, non solo fisica, e mi stimola a compiere sempre meglio per gli anni a venire. Quest'anno in particolare, oltre alla collaborazione con il Teatro Cantiere Florida e Angela Torriani Evangelisti, che ci supporta sin dall'inizio, sono nati degli scambi per alcuni progetti con CANGO e FABBRICA EUROPA dei quali sono entusiasta per i miei ragazzi.

Che tipo di danza prediligi? Se ti capita di andare a teatro ad assistere ad uno spettacolo, cosa scegli?
Ultimamente prediligo il teatro sperimentale alla danza, corpi che si muovono con un istinto diverso, magari privi delle nozioni che abbiamo noi danzatori. Poi in generale cerco di assistere a quello che i festival propongono, senza pregiudizio, anche solo per cultura e per vedere come si evolve la scena della danza. Sono un po' meno attratto dal teatro danza.

Quali sono stati gli incontri più importanti, fino ad oggi, che hanno segnato il tuo percorso artistico ed anche umano?
A livello lavorativo direi le persone e i coreografi che hanno segnato la mia carriera, coloro che mi hanno dato la possibilità di crescere come danzatore, come insegnante e coreografo. A livello umano credo che lo scambio sia stato più forte con i danzatori con i quali ho danzato e collaborato. Si conoscono poi un sacco di persone facendo questo mestiere e girando, alcune che sono dietro le scene altre anche solo per caso. Ho sempre preso al volo queste occasioni, cercando di farmi trovare aperto e trasparente, perché sapevo che avrebbero fatto crescere non solo l'uomo ma anche il danzatore, cosa che per me è indivisibile.

Tra tutti i balletti accademici del grande repertorio classico a quale sei più affezionato e perché?
Credo che il "Lago dei Cigni" sia quello al quale sono più legato. Le musiche, i quadri coreografici ma soprattutto la storia mi hanno incantato fin dalla prima volta che l'ho visto.

Mentre sul lato contemporaneo? Cosa hai amato particolarmente assistere in scena?
L'ultimo spettacolo di Wim Vanderkeybus/Ultima Vez "go figure out yourself" che ho visto a Fabbrica Europa l'anno scorso. Sono totalmente impazzito, dall'energia dei danzatori, che si raccontavano, coinvolgendo un pubblico, per metà entusiasta per metà intimorito. Uno spettacolo che mi ha scosso e tenuto agganciato dall'inizio alla fine. Mi ricordo di aver pianto quando sono uscito, pur essendo un movimento stilisticamente non molto vicino al mio, ho riconosciuto la genialità, la sensibilità e la forza di un professionista.

Samuele oggi sei soddisfatto e rifaresti tutto esattamente nel tuo percorso artistico?
Non posso dire di non essere soddisfatto Michele, diciamo che in alcuni periodi avrei preferito concentrarmi di più sulla mia carriera piuttosto che sulla mia vita personale, ma sono scelte! Certe volte, quando sono a tirare le somme in alcuni periodi, come facciamo tutti, un po' storgo la bocca per certe scelte, ma non rimpiango niente. Se l'ho fatto vuol dire che in quel periodo l'uomo e non il danzatore aveva quelle reali necessità.

Nella professione hai sempre seguito il tuo istinto?
In gran parte direi di sì, un artista vive di istintività, particolarmente da giovane, poi sicuramente per gestire il tutto credo ci sia bisogno anche di un po' di sano raziocinio. Ecco forse come dicevo prima una delle cose di cui mi pento un po' è non aver saputo, in certi periodi, equilibrare le due cose. Ma ho capito anche che molte risposte stanno all'interno degli errori che facciamo.

Spesso ci siamo incontrati in giurie di danza, e sovente è nato il problema della non catalogazione e riconoscibilità esatta della disciplina contemporanea a fronte di quella moderna da parte degli stessi insegnanti. Vuoi lanciare un tuo personale messaggio in questo senso?
Allora Michele giusto per non alzare polveroni o passare da quello che la sa lunga, se ad un linguaggio moderno o neoclassico metti una rotolata o un movimento strano, non diventa contemporaneo. Posto che ci sono diversi linguaggi all'interno di ogni disciplina, credo che i concetti rimangano comunque saldi, la dinamica il modo di usare il corpo, lo spazio, soprattutto il rapporto col il piano orizzontale (floor work), non si possono cambiare a proprio piacimento per farli diventare ciò che non sono. Attingere o ispirarsi ad altri generi lo trovo stimolante, ma come diceva qualcuno "dall'albero delle pere non nascono albicocche", citazione semplice ma veritiera!

In conclusione, caro Samuele, cosa ti ha regalato di più bello l'arte della danza con tutte le sue molteplici sfaccettature, fino ad oggi?
Mi ha regalato Samuele! Mi ha permesso di costruire negli anni una personalità, mi ha costretto a mettermi in discussione, fisicamente e a livello umano. Mi ha regalato amicizie che tutt'oggi sono presenti, ha nutrito il mio ego e la mia anima. Mi ha permesso di "condividere", caratteristica che in una società individualista come quella di oggi, per me, è un grosso pregio e un'opportunità di crescita. Mi consente quotidianamente di rimanere in contatto con un'età sempre più lontana dalla mia, traendone freschezza ed energia. Non so per quanto tutto questo farà parte della mia vita, ma quello che dico sempre anche ai miei allievi, siamo fortunati a fare ciò che amiamo, e finché dura dovremmo saperlo vivere a pieno!

Michele Olivieri

Ultima modifica il Giovedì, 28 Marzo 2019 09:25

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