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Lunedì, 13 Marzo 2017
Pubblicato in Interviste

Fascismo, maternità, vendetta, superstizione, malaffare: un sovraccarico di temi percorre la spina dorsale del Casellante, adattamento dell'omonimo racconto di Andrea Camilleri in scena al Teatro Biondo di Palermo. Sul palco la maschera scespiriana di Moni Ovadia travolge tutte le resistenze con il suo poliglottismo siciliano, Mario Incudine ragiona di cunto, Valeria Contadino di lirismo. Visioni e progetti che convergono nella tragica e poetica storia di Nino e Minica, casellanti di Vigata in lotta con i propri fantasmi. La regia di Giuseppe Dipasquale amministra con qualche incertezza le tante sottotrame che si innestano in una storia che non rinuncia in egual misura a temi civili e derive melò. All'orizzonte, come detto, un monumentale Ovadia con i suoi sei personaggi di autore notissimo: tra questi anche una mammana, uno stupratore, un podestà.

Ovadia in camicia nera è un evento sicuramente degno di nota.
Indossarla ha su di me un effetto catartico. Al cadere di una dittatura efferata e criminale come il nazifascismo l'elemento ridicolo è sempre deflagrante. Hitler era un omino sinistro, buffo e ridicolo: erano tanti pagliacci sanguinari. Lo spiega bene Claudio Magris quando dice: "Il loro Reich millenario è durato meno della giacca a vento che uso per le gite in montagna". Criminali efferati e sanguinari, ma anche buffoni da quattro soldi, vigliacchi che hanno provato a sottrarsi alle proprie responsabilità; i più coraggiosi si sono suicidati, gli altri sono scappati come topi di fogna.

Mario Incudine ha sottolineato come lei sia l'unico sul palco ad utilizzare il vero siciliano.
Sicuramente sono facilitato rispetto agli altri attori della compagnia poiché non posso mai cadere nei vari modismi dialettali. Per Camilleri vedo una linea di continuità dal Finnegans Wake di Joyce alle opere di Gadda passando per il grammelot di Dario Fo: lingue accessibili a tutti che contengono una propria insita musicalità.

Il casellante ha il merito di alternare tanti registri diversi. Qual è la vera peculiarità di questo testo?
Il racconto possiede già una grande teatralità. Giuseppe Dipasquale ha scelto una via epica per contenere i vari registri: gli imperativi sono coinvolgere e raccontare. I miei sei personaggi sono infatti tipici del teatro epico: io non interpreto alcunché, cito solamente queste diverse maschere.

Con questo spettacolo si rinnova la fortunata collaborazione con Incudine.
Incontrare Mario è stata per me un'epifania. Sono un uomo anziano, posso considerarmi per certi versi un privilegiato: ho visto cantare in strada Ciccio Busacca, ho ascoltato Rosa Balistreri, ho ammirato il teatro dei pupi quando era veramente un evento popolare. Riflettevo su un mondo condannato all'estinzione, poi ho conosciuto un ragazzo prodigioso, carico di un'energia sconcertante che sa reinventare senza tradire. Con Le supplici è iniziato il nostro sodalizio, quello che oggi considero un grande dono ricevuto dalla vita: tra noi non esiste conflittualità, ma solo la voglia di collaborare per costruire. Incudine ha tutte le qualità umane per proseguire nella direzione intrapresa insieme in questi anni anche quando io non ci sarò più.

In tanti anni di assidua frequentazione, che idea si è fatto della Sicilia?
È un'iperbole, nel bene e nel male. Le nuove generazioni hanno la forza di andare oltre per strappare pregiudizi e stereotipi consolidati. Purtroppo siamo in presenza di una classe politica - soprattutto a livello nazionale - di una mediocrità senza confini. Esiste una sola via per un autentico cambiamento: investire nell'educazione e nella cultura. Finché si continuerà a starnazzare di spread non cambierà mai nulla.

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