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Der Rosenkavalier (Il Cavaliere Rosa) Zubin Mehta inaugura la 75° edizione del Maggio Musicale Fiorentino riproponendo uno dei capolavori della cultura musicale mitteleuropea, quel Rosenkavalier di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, che manca da Firenze dal 1989. Collaborano con l’illustre direttore, al suo debutto nel Rosenkavalier, il regista Eike Gramss, ben noto al pubblico fiorentino per un fortunato Ratto dal serraglio mozartiano, lo scenografo Hans Schavernoch e la costumista Catherine Voeffray, anch’essa impegnata nel Ratto, tutti artisti di fama internazionale, quali la preziosa partitura straussiana impone. L’allestimento ricrea il clima della Vienna di Maria Teresa attraverso architetture settecentesche che mutano di prospettiva grazie ad efficacissimi giuochi di specchi, che richiamano il gusto barocco della “maraviglia”. È difficile immaginare due personalità così diverse per stili e concezioni di vita e gusti personali ed artistici, quali il raffinatissimo, estenuato esteta Hugo von Hofmmansthal e il sanguigno, vitalistico, geniale Richard Strauss. Eppure, fra entusiasmi e dissapori, questo eccezionale binomio dette vita ad una serie di opere se non di uguale qualità, certo di altissimo livello drammatico e musicale. Der Rosenkavalier è, nelle intenzioni degli autori, una commedia che vuole celebrare la Vienna settecentesca di Maria Teresa: andata in scena a Dresda il 26 gennaio 1911 riscosse un immediato successo di pubblico, mentre parte della critica, Adorno in testa, censurò aspramente il compositore accusato di aver rinnegato il linguaggio innovativo dei suoi primi lavori. Ma Strauss non tradisce se stesso: se il Rosenkavalier non ha la violenza tellurica di Salome o Elektra, l’omaggio al Settecento mozartiano non si risolve né in imitazione, né in rivisitazioni neoclassiche e la sua musica si rivela di una tersa modernità, mobilissima e ricca di sfumature psicologiche, screziata da sottili pulsioni erotiche e dal ritmo incalzante e ricorrente del valzer, capace di rendere con eguale pregnanza tanto i momenti deliberatamente comici, quanto la nostalgia per la giovinezza espressa dalla Marescialla con accenti di struggente malinconia. Certo l’archetipo sono le Nozze mozartiane, tanto per il gusto per l’intreccio, quanto per l’assonanza fra certi personaggi: la Contessa e la Marescialla nella rievocazione della passata gioventù, Octavian e Cherubino, entrambi sostenuti da una cantante che, en travesti, interpreta il ruolo di un giovane che si camuffa da donna, e pervasi dalla stessa, giovanile, incostanza nell’amore, perfino il Conte ed il ben più rozzo Barone Ochs, entrambi a caccia di amori ancillari. E dunque Der Rosenkavalier è insieme omaggio alla Vienna teresiana, alla sua cultura e civiltà, ma, soprattutto nello splendido finale, canta anche la rinuncia all’amore, nella consapevolezza del tempo che passa inesorabile, quando la Marescialla lascia, non senza rimpianto e malinconia ma con aristocratico contegno, che il suo giovane amante Octavian sposi Sophie. Siamo nel 1911, quell’omaggio e quella rinuncia suonano anche come una premonizione: tre anni dopo inizierà “l’inutile strage” del primo conflitto mondiale, alla fine del quale il mito dell’Austria felix, durato dal Settecento di Mozart e Maria Teresa, tramonterà definitivamente e un grande impero continentale scomparirà a ritmo di valzer. |
The Four Temperaments e Verklarte Nacht Due capolavori del Novecento storico per MaggioDanza. Dapprima l’inquieta, febbrile Notte trasfigurata op. 4 (1902 nella versione per Sestetto d’archi; 1914 in quella per orchestra d’archi), quasi l’esordio compositivo di un Arnold Schönberg non ancora approdato alla Dodecafonia, ma già capace di un linguaggio musicale personalissimo, seppur conscio della lezione di Wagner e Brahms. Dei due grandi maestri, che i più zelanti seguaci dell’uno o dell’altro volevano antitetici, Schönberg è un sincero ammiratore, ma non appunto un imitatore: è invece capace di cogliere da entrambi ciò che può aprire nuovi orizzonti alla musica, portando il cromatismo wagneriano al limite della tonalità e l’arte brahmsiana della variazione ad insospettati esiti formali. Diverso e più sereno, quasi un divertimento, è il clima espressivo de I quattro temperamenti, balletto in 4 variazioni di Paul Hindemith, presentato a New York nel 1946, durante il soggiorno americano del compositore che aveva abbandonato prima la Germania per l’ostilità dei nazisti verso la sua musica considerata “degenerata” e poi l’Europa a causa della guerra: scelta che, per sfuggire al nazismo ed alle leggi razziali, aveva compiuto anche Schönberg. Dopo le asprezze degli anni giovanili, Hindemith sviluppa un linguaggio musicale di originale modernità, che ha alla base uno spirito polifonico e che abbandona progressivamente ogni tentazione atonale. Per la Notte schönberghiana il Maggio propone una nuova creazione di Susanne Linke, coreografa di fama internazionale, accanto a Pina Bausch e a Reinhild Hoffmann esponente di spicco del nucleo femminile storico del Tanztheater tedesco. Per il capolavoro hindemithiano, MaggioDanza ripropone una delle coreografie più celebrate di un maestro indiscusso della danza del Novecento: George Balanchine. Un temibile banco di prova per ogni compagnia di ballo che metta in scena i suoi lavori |
La Metamorfosi Prosegue anche nel 75° Festival, quello che ormai è un appuntamento tradizionale del Maggio: la commissione di un opera nuova ad un compositore italiano, a testimonianza di un convinto impegno alla diffusione della musica contemporanea. Quest’anno è la volta di Silvia Colasanti, giovane compositrice formatasi all’Accademia di Santa Cecilia a Roma e successivamente perfezionatasi con Fabio Vacchi, Wolfgang Rihm, Pascal Dusapin e Azio Corghi, che ha ricevuto una lunga serie di riconoscimenti. Della sua musica, eseguita nelle più prestigiose istituzioni musicali italiane e europee, Guido Barbieri ha scritto: “Se la si taglia ‘in sezione’, come un minerale, la musica di Silvia Colasanti rivela una complessa, magmatica stratificazione di figure contrastanti. Nello strato più profondo una tensione costante verso la saturazione dello spazio acustico, ottenuta sia attraverso la massima densità che attraverso la massima rarefazione degli oggetti sonori. Poi, nello strato immediatamente superiore, l’alternanza strutturale tra crescendo / diminuendo e accelerando / rallentando, rappresentazione ‘fisica’ del respiro corporeo e della sua ansietà. Salendo di un gradino, il ricorso frequente al procedimento dell’ostinato ritmico, traduzione temporale di una turbata patologia del ricordo. Infine, sulla superficie del minerale, i frammenti di un lirismo lancinante che emerge dal magma denso del suono. Le figure, insomma, di un irrequieto, non pacificato ‘suono dell’inquietudine’”. Per questa sua nuova opera, si è ispirata a La metamorfosi, testo eponimo, si direbbe, di Franz Kafka e momento saliente di quella cultura mitteleuropea che il Maggio 2012 indaga in profondità. Scritto nel 1912, il racconto, com’è noto, narra la storia del commesso viaggiatore Gregor Samsa che una mattina si sveglia trasformato in un insetto mostruoso, ma conservando le capacità intellettive, fra l’orrore dei familiari, che progressivamente lo emarginano: non essendo più in grado di mantenere la famiglia, viene chiuso a chiave nella sua camera e abbandonato. Quando viene trovato morto dalla cameriera e spazzato via, padre, madre e sorella tirano un sospiro di sollievo. |
Festival del Maggio Musicale Fiorentino - Il Mandarino Meraviglioso / Il Castello Del Duca Barbablu’
Il Mandarino Meraviglioso / Il Castello Del Duca Barbablu’ Nel nome di Bartók, un’occasione preziosa. In collaborazione per regia e coreografia con Jo Kanamori ed in coproduzione con il Festival Saito Kinen, il giovane direttore d’orchestra ungherese Zsolt Hamar, già Direttore principale ospite della Filarmonica Nazionale d’Ungheria, più volte sul podio dell’Opernhaus di Zurigo per importanti produzioni e prossimo Direttore principale dell’Hessischen Staatstheater di Wiesbaden, profondo conoscitore del repertorio musicale operistico e sinfonico del Novecento, affronta dapprima le sinistre atmosfere notturne e l’incalzante tensione erotica, che la musica di Bartók evoca nel balletto Il mandarino meraviglioso, in una scrittura di eccezionale potenza evocativa e di agghiacciante valenza espressionistica. Segue l’unica opera scritta da Bartók, Il castello del Duca Barbablù, non meno inquietante nel suo universo simbolico. L’inesausta volontà di sapere di Judit, che la condurrà ad un tragico destino, si snoda attraverso un percorso, dal buio delle scena iniziale alle tenebre finali, che da ambienti claustrofobici si apre all’esterno, ma su tutto, interni ed esterni, domina un senso di morte, la presenza del sangue e un sottile gioco erotico. Ogni porta chiusa cela un frammento di verità, ma all’aprirsi di esse non muta il panorama di violenza che intride il castello, sia che si sveli la stanza della tortura o il lago di lacrime. E ben presto Judit è conscia di ciò che l’attende, ma deve condurre fino in fondo il suo percorso di conoscenza, finché dietro alla settima e ultima porta, appaiono tre mogli: quella del mattino, del mezzodì e della sera. Judit sarà quella della notte: il suo destino è segnato; seguirà le tre compagne dietro quell’ultima porta che definitivamente si chiude alle sue spalle. L’orchestra di Bartók, mobilissima e ricca di sfumature, accompagna con assoluta precisione ogni momento dell’azione e l’alternarsi di luce e tenebra, con pianissimi che ritornano con insistenza, alternati a scoppi di straordinaria potenza sonora, quale quello che erompe all’aprirsi della quinta porta, la sala del regno. Al di là delle atmosfere inquietanti che accomunano le due parti di questo dittico, un altro elemento appare comune: l’indicibile vincolo che lega la vittima al suo carnefice. |