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Domenica, 03 Dicembre 2017
Pubblicato in Interviste

A pochi giorni dal debutto nella parte della Marchesa di Merteuil, in Quartett per la regia di Roberto Latini, Valentina Banci ci racconta la grandezza di Heiner Müller e la sua esperienza sotto al direzione di Roberto Latini, che con Paolo Magelli condivide la concezione "esistenzialista" del teatro.

Quartett segna il suo debutto a Prato con un nuovo spettacolo, dopo l'esperienza con la compagnia stabile del Teatro Metastasio, e le esperienze successive in Italia e in Europa. Come ha vissuto questo ritorno?

Devo dire che all'inizio temevo un po' l'idea di tornare a Prato, con una produzione proprio del Metastasio, ma poi mi sono lasciata entusiasmare dalla bellezza del testo di Heiner Müller. Bisogna comunque tenere presente che da Prato non mi sono mai veramente allontanata, perché il mio MedeAssolo tratto dalla Medea di Seneca è stato in scena anche al Fabbrichino la scorsa estate, e la lunga ricerca che ho fatto, anche circa gli aspetti del suono, ha avuto luogo a Prato. E inoltre, con la tournée di Porcile, pur in giro per l'Italia, ero comunque in un certo senso legata a Prato.
In Europa, precisamente a Fiume, ho invece debuttato con La locandiera, per la regia di Paolo Magelli, una bella esperienza dal sapore di Mitteleuropa.

Adesso, appunto, torna a Prato con Roberto Latini, sicuramente uno dei registi più interessanti dell'ultima generazione. Rispetto a Paolo Magelli, regista per il quale ha interpretato molti spettacoli, quali affinità e differenze trova?

Quel che mi piace di lui, e che mi incuriosiva prima di lavorarci insieme, è il suo essere un artista e un attore, prima ancora che un regista. In passato, ho avuto occasione di vederlo lavorare su se stesso, o in spettacoli da lui diretti ma dove comunque fosse anche in scena. Questa invece è la prima volta in cui Latini si cimenta soltanto con la regia; per cui vederlo lavorare "fuori" con l'esperienza del "dentro", mi incuriosiva molto. Per quanto riguarda il paragone con Magelli, li differenzia sicuramente l'appartenere a due generazioni diverse, e l'ambito di riferimento: Latini guarda molto all'Italia, Magelli è invece aperto alla Mitteleuropa. Però, li accomuna quel rapporto "assoluto" che hanno con la scena, come se fosse inevitabile farne metafora dell'esistenza umana. Mi ritrovo molto in questo approccio, perché è il mio stesso modo di vedere il teatro. Si tratta quindi di due personalità non comuni, purtroppo rare sulla scena attuale, dove sembra prevalere un approccio registico assai disinvolto, banalmente quotidiano. Loro, invece, portano sempre la questione esistenziale, come se il teatro non possa avere un'altra via per essere se stesso.

Quartett è un testo non facile, di un autore considerato fra i massimi esponenti del teatro del Novecento. Come si è approcciata al personaggio della Marchesa di Merteuil?

In realtà, sia io sia Fulvio Cauteruccio non abbiamo lavorato molto sui personaggi, perché Latini li ha dati per acquisiti all'interno del nostro bagaglio di esperienza attoriale. Si può dire che i personaggi scaturiscono "nostro malgrado". Il lavoro di studio di questo spettacolo si è basata in gran parte sulla dimensione del gioco teatrale costruito da Müller; lo conoscevo già come autore, e sapevo che richiede una partecipazione totale da parte di chi interpreta i suoi testi. Come ripete lo stesso Latini, con Müller "il teatro ha presa coscienza di sé", è un autore molto carnale, questa corporalità la ritrovi nelle parole, dove comunque ci sono anche la poesia e la filosofia. La comprensione dei suoi testi non è soltanto intellettuale, ma anche emozionale. Per cui, nonostante non sia facile approcciarsi a testi del genere, il coinvolgimento è però automatico; in Quartett la dimensione meta teatrale è magistrale, con i personaggi che non sono veri personaggi, ma due attori che giocano al gioco del teatro, con continui cambi d'identità. Latini ha lavorato molto nel sondare il mascheramento, portando in scena la bellezza dell'artificio teatrale.

Ha accennato al fatto che autori come Müller sono molto difficili da trovare sulla nuova scena teatrale, anche italiana. Soffre forse, il teatro, della medesima crisi creativa che si ritrova nell'arte contemporanea?

A questo proposito, credo sia doveroso precisare che in Italia la drammaturgia contemporanea è molto sacrificata, nel senso che mancano investimenti nel settore che permettano di far funzionare quelle scuole teatrali dove si sono formate quelle generazioni di registi e attori che hanno fatta la storia del teatro italiano e non solo. A ciò si aggiunge la cattiva gestione delle poche risorse destinate alla cultura, per cui chi veramente avrebbe le capacità per poter scrivere o recitare, difficilmente riesce a raggiungere il livello professionale. Paradossalmente, l'Italia non è più il faro culturale in Europa. Una situazione grave, ma anche pericolosa per le sorti della nostra identità.
Invece, dovendo parlare di "crisi del teatro", voglio citare lo stesso Müller, il quale ha più volte ribadito questo concetto: "quando l'autore vive in un mondo riconciliato, diventa difficile trovare motivazioni e ispirazione". È evidente che il mondo attuale è ben lontano dall'essere riconciliato, ma l'illusione che invece sia tale, sembra far presa su buona parte del'opinione pubblica, e incidentalmente tocca anche chi fa cultura; si è persa, in un certo senso, la necessità e l'urgenza di raccontare e riflettere in maniera critica.

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