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Lunedì, 16 Settembre 2024
Pubblicato in I Fatti

Se il movimento diventa pensiero
Biennale Danza di Mc Gregor mette alla prova corpo e coreografia
Nicola Arrigoni

«Per migliaia di anni, Noi Umani abbiamo comunicato muovendo i nostri corpi a ritmo, insieme. Abbiamo implorato gli dei perché ci dessero il sole e la pioggia, abbiamo mostrato la forza bruta in temibili unisoni, abbiamo ostentato il nostro amore, stuzzicato la fertilità, celebrato le gioie e i dolori condivisi su questa terra e ci siamo lanciati verso l’estasi, liberandoci dal dolore della morte. Tuttavia, oggi non c’è più bisogno che lo facciamo: disponiamo di molti modi, artificiali e digitali, per comunicare i nostri desideri, le nostre riflessioni, le nostre emozioni e le nostre intenzioni. Eppure persistiamo. Perché la danza è sempre dentro di noi. Infatti, quando non ci sono parole – ovvero quando i nostri sentimenti sono troppo forti, troppo complicati, troppo pesanti da sopportare – troviamo il sollievo e la consolazione attraverso il corpo: sia nel tocco curativo degli altri, sia attraverso il nostro movimento mentre corriamo, ci agitiamo, ci allunghiamo, respiriamo, danziamo. Noi Umani siamo movimento» Piace partire dall’intervento di Wayne McGregor per cercare di leggere il perché il movimento sia danza, anche quando non sia codificato da un linguaggio coreutico e perché il danzare, il muoversi in un contesto extra-quotidiano come quello del rito o della performance sia umano, troppo umano. .We Humans: questo è stato il tema della Biennale Danza 2024, diretta da Wayne McGregor, coreografo britannico riconfermato alla guida del festival ancora per due anni. Al centro è il linguaggio della danza come espressione non solo del corpo, ma anche della nostra consapevolezza di esseri umani, del movimento nelle sue più diverse accezioni. 

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Deadlock di Cristina Caprioli

Di questo si è andati in cerca nell’articolato programma della Biennale Danza, si è voluto esperire il linguaggio coreutico scevro da qualsiasi tentazione di armonioso movimento coreografico, ma pure sempre movimento. Il Leone d’Oro a Cristina Caprioli, danzatrice, coreografa, teorica sperimentale, accademica e curatrice, ben esprime il pensiero trasversale che attraversa l’intero programma messo in atto da McGregor. In questo senso si può leggere Silver, un’installazione in cui il movimento è affidato a una serie di tute argentate mosse dal vento, un lavoro pieno di fascino. Il pubblico assiste, ma può anche partecipare alla performance /installazione in cui Caprioli con Samuel Draper, Hana Erdman, Iréne Hultman, Annika Hyvärinen, Oskar Landström, Adam Schütt, Kristiina Viialain Deadlock posiziona decine di tute argentate intrecciandole ai rami degli alberi e invitando gli spettatori ora a indossarle ora a condividere l’azione performativa. Decine di capi argentei invadono lo spazio - sul pavimento, lungo le pareti, appesi al muro, alcuni per essere ‘abitati’ da corpi in movimento. Silver mostra come «la coreografia possa nascondersi anche dove non ce l’aspettiamo. Al contempo ordinaria e astratta, ovvia e intrinsecamente ripiegata su sé stessa, Silver è un invito a tornare a una ri-flessione visiva», scrive Caprioli.

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Flat Haze di Cristina Caprioli

Se in Silver il movimento è gestito dagli accidenti della realtà, in Deadlock il corpo di Louise Dahl dialoga con la sua proiezione digitale, abitando lo spazio sinuoso e riempiendolo con il suo movimento: in questo caso è la consapevolezza dell’artista in movimento a definire lo spazio. Lo spettatore è chiamato a seguire la danzatrice ma anche ad assistere alla moltiplicazione visiva del suo corpo che svapora nelle quinte ellittiche che fungono da schermo e sono, alla fin fine, corpo esse stesse. In Flat Haze il disegno coreografico nasce e si compie giorno dopo giorno in uno spazio attraversato da una serie di fili di nylon che impone una visione spezzata e bipartita dei corpi in movimento. Lo sguardo è invitato a cercarne l’unità, franta da quella cesura spaziale, creata dalla tensione di quei fili che non solo tagliano lo spazio, ma riflettono la luce e sfumano in segni bidimensionali i corpi dei danzatori. Tutto ciò accade in un continuum creativo che permette di entrare nel mondo coreutico di Caprioli in cui movimento, parola e musica costituiscono i tasselli di un percorso che porta lo spettatore a sovrapporre il tempo quotidiano con quello della performance. 

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Tangent di Shiro Takatani

L’idea che percorre il cartellone di Biennale Danza è quella che la danza sia movimento e non necessariamente di un corpo in carne e ossa e che anzi la fisicità possa farsi immagine, oggetto, suono. È a questa finalità che, si crede, rispondano alcuni dei lavori proposti con grande coraggio da McGregor che non teme di mettere in discussione la danza come movimento di corpi nello spazio. E chi ha detto che quei corpi debbano essere per forza umani? Un esempio di sublime e spiazzante costruzione narrativa per immagini e musica è il lavoro Tangent di Shiro Takatani, lavoro con cui esplora l’evoluzione del linguaggio tra arte, scienza e tecnologia. Un tavolo, una performer e la costruzione della parabola di un mondo al collasso e destinato a riaprirsi e a rigenerarsi dalle sue ceneri sono gli ingredienti di uno spettacolo che lascia senza fiato. Si assiste stupiti e meravigliati – lo stupore sta all’origine del pensiero dell’uomo sul mondo – a un lavoro che sintetizza l’evoluzione dell’universo, racconta di un divenire senza soluzione di continuità in cui ordinario e straordinario si intrecciano. La drammaturgia visiva e musicale – affidata a una performer che officia un rito – ammutolisce e si costruisce pian piano, in un costante trasumanar oggetti e prospettive, spazio e colori che intessono con stupore il nascere e morire di un universo all’interno del quale siamo ininfluenti presenze. Eppure alla fine, la nuova alba di un mondo che verrà trova il suo narrato nella discesa alla Kubrick di tre monoliti sui quali la performer inizia a scrivere e la storia può ricominciare il suo corso. Sembra di poter intuire. 

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Antechamber del duo francese Stereoptik

È la leggerezza del racconto per immagini di Antechamber del duo francese Stereoptik che conquista e coniuga il piacere della narrazione col processo della creazione. «Durante un’estate passata a lavorare al computer, un uomo si imbatte in una foto dimenticata negli appunti: lui bambino con in mano una farfalla. Ed è grazie a questa foto che ritrova intuito e potere d’osservazione. E l’amore», scrivono Romain Bermond e Jean Baptiste Mailletin. In Antechamber visione e suoni danno vita a un corto che racconta di un amore e di una solitudine e disvela i movimenti segreti dell’atto creativo. Si assiste in presa diretta alla costruzione di un racconto fatto attraverso il disegno su sabbia, l’utilizzo delle ombre e tutto quel linguaggio che va sotto la categoria di teatro di figura in cui a muoversi sono le immagini, gli oggetti, le prospettive, sostenuti della musica e dal movimento. I due artisti francesi invitano lo spettatore all’interno del loro processo creativo e alla fine chiudono il cerchio con la proiezione del corto, frutto di tutto quel lavoro a tavolino. E la danza? Sta nel movimento degli oggetti e delle parole, sta nelle sagome dei corpi, nelle mani che si muovono, nella presenza dei due performer/autori che ci raccontano l’intimità di essere umani. Una Biennale che ha dato di che pensare e che invita a riconsiderare la settorialità dei linguaggi, le categorie estetiche in un tempo in cui l’interconnessione e le reti espressive cambiano il nostro modo di essere nel mondo, amplificano le nostre possibilità percettive e di narrazione. 

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