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Denis CANNAN - Il Capitan Carvallo

Corriere Lombardo, 19 marzo 1952

Come diceva? Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se mi uccidono vendicatemi. Ebbene, ecco un qui qualche cosa che non va troppo d’accordo col dettato del nostro vecchio tiranno mansueto. Niente d’eccezionale, anzi, sotto certi aspetti, piuttosto superficiale e facilone; ma ieri sera, all’Odeon, abbiamo avuto la divertita sorpresa d’ascoltare una commedia pacifista; meno e meglio ancora: una commedia pacifica; tutta percorsa da un gaio e bonario spirito di smobilitazione che non risparmia i suoi esilaranti, affettuosi e, ahimé, innocui pizzicotti, né a una parte né all’altra della barricata: ai soldati e ai borghesi, agli invasori e agli invasi, ai resistenti e ai non resistenti: una forma di imparziale qualunquismo paradossale, scettico ed elegante come potrebbe essere il qualunquismo di uno studente di Oxford, se ad Oxford avessero abbastanza cattivo gusto di coltivare il qualunquismo. Ricordatevi, sembra dirci questo piccolo Shaw in pantofole che è Dennis Cannan, autore dello scherzo, i cento anni di una placida pecora sono più importanti della giornata di un aggressivo leone; e un etto di burro fragrante vale almeno quanto un chilogrammo di tritolo di prima qualità.

La guerra. Bella ma scomoda; e tuttavia, basta un po’ di temperamento ottimistico fornito di una salutare dose di spirito antieroico e dotato del buonsenso sufficiente a preferire una esistenza tranquilla con le gambe allungate sotto una tavola, a un monumento di bronzo alla memoria con una aquila in pugno; basta solo questo perché anche dalla guerra si possa cavare qualche distrazione piacevole, qualche imprevista  dolcezza e un ottimo pretesto per libertini di piccolo cabotaggio in attesa che gli eroi di turno e i generali di carriera si sieno sfogati e si decidano a smetterla. Era del medesimo parere anche Carlo Goldoni, e considerato il carattere di quel caro civilissimo uomo non poteva essere altrimenti.

E del resto – non si mettano a strillare i soliti rigidi custodi della pietà del sacrificio e della santità del sangue vilipesi; non è proprio il caso. Sono cose che non c’entrano nell’operettismo innocente di questi tre atti – come prendere sul serio le spietate necessità della guerra, l’imperativo di odiare il nemico e il dovere di ferocemente combatterlo, quando ci si trovi in un paese, “a mezza strada fra Occidente ed Oriente”, a trenta chilometri dal fronte, in una linda fattoria fornita di ogni ben di Dio e davanti alla quale respira una campagna verde, limpida e inconsapevole, percorsa dall’argento dei ruscelli come il dorso caldo, dolce e sinuoso di una bella donna è percorso dall’ombra impercettibile delle vene? Una mano sulla coscienza. Non si può.

E’ precisamente ciò che accade ai personaggi de Il capitan Carvallo. Gaspare Darde, il padrone di casa, è un brav’uomo semplice, con un tantino di candida follia predicatoria da pastore laico, fissato di salvare l’anima alla gente a colpi di Bibbia, e considerante una qualità totalmente trascurabile il corpo dei suoi simili. Consigliato dai suoi doveri di cittadino nonché dalla preoccupazione di non restar privo di un certificato di merito che lo esoneri da eventuali noie alla fine del conflitto, fa anche lui, come può, in piccolo, e burlevolmente e cordialmente, la sua parte di ribelle agricolo.

Egli è assente dalla sua fattoria per una missione speciale comandatagli dal capo dei patrioti locali; un buffo barone campagnolo che, solo assumendosi tale veste, ha trovato il modo di distrarsi un po’ e tornare a contare qualche cosa. Per condurre a termine la sua missione – si tratta semplicemente di consegnare dei documenti a qualcuno – Darde ha dovuto scambiare vestiti e carta di identità con un altro curioso ribelle, un certo professor Vinke, biologo specialista nello studio dei batraci e competente numero uno in fatto di girini. Il professor Vinke prende il suo posto alla fattoria figurando ufficialmente come il padrone di casa. E, di conseguenza, anche come il marito della matura e ancor bella fattoressa, Smilia, consorte di Darde, casta come la luna ma con le carni sontuosamente aulenti, imbevute dell’arcana malinconia dei tanti peccati che si sarebbero potuti compiere e non si sono compiuti, e col cuore tenero come quello di una colomba alle soglie dell’età critica. Smilia ha una servetta.

Le cose stanno a questo punto quando alla fattoria giunge il giovane e aitante Capitano Carvallo, ufficiale nemico dell’esercito invasore. Come nelle commedie e nelle opere comiche del Settecento  egli si presenta col “biglietto di alloggio” che gli dà diritto d’essere ospitato in casa senza discussione. Carvallo ha un attendente.

Questo giovane ufficiale è tutto il contrario di quello che dovrebbe essere un militare nemico. Romantico, spavaldo, cortese, tenero e gentilmente dongiovannesco; un non lontanissimo parente, insomma, del baritono Belcore dell’Elisir d’amore, con in più una discreta dose di sentimento e una scarsissima coscienza guerriera.  Basti dire che ha fatto tutta la guerra, battaglie, invasioni, marce e promozioni, trascinandosi dietro un vaso di gerani. Carvallo e l’attendente vengono alloggiati nella stalla, e questo è già un primo successo per gli occupati.  Ciò non impedisce però che nasca quel che ha da nascere sempre in questi casi quando finiscono in commedia: il capitano con la padrona di casa e l’attendente con la serva. Idillio tenero e albale quello di Smilia e Carvallo, non privo di umoristica gentilezza e sempre in bilico fra il sì e il no; relazione risolutamnete badante al concreto e spicciativa quella fra l’attendente e la domestica.

Le faccende, come è naturale, si complicano, con lepida allegria da farsa rumorosa ma non volgare, a causa del finto marito. E ancor più quando ritorna il consorte autentico e un altro ordine del capo ribelle impone, a lui e al professore suo sostituto, di far fuori violentemente e al più presto i due soldati nemici. Ma come ammazzare due persone tanto care e simpatiche? E se poi magari la guerra non la si dovesse vincere? Si attirino lontano dalla stalla e la si faccia saltare in aria col tritolo nascosto nei volumi del Vecchio Testamento; così, oltretutto,  si guadagnerà anche il premio dell’assicurazione contro i danni di guerra. Attirati lontano onde poter compiere indisturbati la benefica impresa terroristica, occorre però mettere di mezzo le donne inducendole a dare ai loro ospiti un appuntamento notturno nelle loro camere da letto. La collaborazione delle comari viene ottenuta con assai minore difficoltà di quanto i congiurati potevano presumere. Il convegno ha puntualmente luogo non senza ulteriori equivoci, e psicologici tiramolla. Alla mattina dopo, tutti vivi  e tutti amici più di prima. Una partenza, un po’ di malinconia, una diserzione – dell’attendente – per eccesso di spirito borghese, una finta morte per complicità pariottica, una guerra di meno, una pace di più e un vaso di gerani nuovamente rifioriti.

I personaggi, i sentimenti e le situazioni di questa commedia procedono due a due a braccetto, d’amore e d’accordo come i carabinieri quando vanno a spasso. Guai se la sua gratuita facilità da vaudeville intelligente non procedesse dentro alla misura di una scanzonata bonarietà paga dell’amena buonagrazia di un gioco, condotto con costante indulgenza e cordiale simpatia. Ciò che, in tal modo, si limita a un gratuito capriccio che non lascia il segno, finirebbe veramente per diventare volgare, inopportuno e irriverente cattivo gusto. Soltanto lo spirito corrosivo, moralistico e universalistico di Shaw, del quale poco opportunamente è stato fatto il nome, avrebbe potuto sollevare la commedia  alle sfere taglienti ed amare di un’alta fantasia ironica. Lo scherzoso Cannan s’è mostrato intelligente a non arrischiarcisi nemmeno; e tuttavia alla resa dei conti il pregio maggiore della commedia resta ancora di gran lunga proprio nella qualità del suo dialogo, tutto spontaneamente e complicemente intriso di una continua inventiva umoristica in grado di conferire originalità al luogo comune e alla convenzionalità dei personaggi, dei sentimenti, dei casi e di tutto.

All’esecuzione, scrupolosamente ordinata da Mario Ferrero, si deve forse rimproverare una dannosa lentezza e una pretesa di sottolineature, dove sarebbero stati più giovevoli a rimediare le lentezze e ad evitare le secche della commedia un ritmo più presto e un tono di più brillante caricatura. Ma Andreina Pagnani ha recitato con un umore insinuante e finissimo, ammantato da una incantevole morbidezza donnesca; Giorgio De Lullo con un’innocente, fanciullesca e seducente aitanza; Arnoldo Foà con un esilarante senso parodistico; Fulvia Mammi con adorabile cretineria; e il Giuffré, il Riccardini e il Pagliarini con estrosa malizia. Da qualche tempo il pubblico s’è rimesso a fischiare e si vede che ci ha preso gusto. Ieri sera esso si è mostrato eccessivamente esigente ed insolitamente severo. A un certo punto, la platea ha rivelato preoccupanti suscettibilità, come dire? militaristiche; si è messa sull’attenti, ha fatto la faccia feroce e ha pronunciato la storica parola d’ordine dei vecchi  colonnelli: di qui non si passa!

Carlo Terron

Ultima modifica il Venerdì, 19 Dicembre 2014 14:19
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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